La nascita di una collana di poesia

La nascita di una collana di poesia somiglia alla scena che ho visto l’altro giorno in piazza Ducale a Venezia: un tizio bizzarro girava a rovistare nei luoghi dove altri non guardano e ogni tanto lanciava un grido. Della folla di turisti distratti –ma non pochi si volgevano – nessuno sapeva come interpretare quel grido. Poteva essere rabbia, gioco, dolore, allegria. Poi una voce, forse uno dei venditori ambulanti, cominciò a rispondere. Un doppio grido, al ritmo di quel viaggio nei luoghi meno apparenti della piazza. E quel dialogo strambo, eccentrico rispetto alle chiacchiere, alle informazioni turistiche o culturali, ai conteggi dei camerieri, alle duchesse sedute ai tavolini, era la cosa umanissima che toglieva ogni finzione, ogni vanità a tutta la scena. Esce il libro di un giovane poeta di Salerno, la collana è nata da poco. Con veste scabra -tra stile francescano ed estetica da proloco- Giuliano Ladolfi divenuto anche editore, oltre che critico-zio di una rivista attiva da anni, Atelier, fomentatore di poesia e di riflessione. Bello un suo “Tradire Verlaine” che ha aperto la collana. Mentre in molte parti dell’editoria legata a grandi autori e tradizione si registra una pigrizia a riguardo della poesia (l’ho già scritto: non ne pubblicano per motivi culturali, non economici) nascono nuovi spazi per le voci poetiche. E dunque editori  come Aragno, Fazi, Donzelli, Raffaelli, Le Lettere, Pequod, Transeuropa, Manni, Tracce, Nottetempo, Marietti, per dir solo d’alcuni, insieme ad altri radicalmente indirizzati alla poesia, come Crocetti, Lietocolle stanno offrendo lo spazio che più blasonati (e ricchi) editori hanno lasciato per pigrizia culturale. Ma la poesia è come quel tizio a Venezia. Il suo grido in giro si farà sentire sempre e qualcuno risponde. Francesco Iannone, poeta giovane concittadino di Alfonso Gatto, esce con “Poesie della fame e della sete”. Un esordio che prende le rincorse dai serbatoi, dai campi delle esperienze d’amore e notte. Uno stile in bilico tra nitore e ricerca di nuove forze. Che gli potran venire dallo strano dovere della poesia: lavoro e abbandono. Scrive in un’epoca di stasi e segni di bene: “Prego i nidi rovinati dal vento”.

Venezia, Arte

Venezia, arte. E polemiche, vanità. Gli eventi artistici assomigliano maledettamente a come siamo fatti noi uomini. Da un lato ricerca del’essenziale, tensione all’invisibile attraverso tutte le possibilità del visibile. E dall’altro scialo, misero scialo del talento, del tempo, dell’energia e dei quattrini. Scialo dell’arte medesima, nel momento in cui la si vorrebbe onorare. L’arte presenta lo stesso rischio della vita, lo manifesta. E allora tutti a Venezia, sì, ma con gli occhi di Pound. Che vedeva nella bellezza della città sulle acque un motivo prodigioso di stupore.  “Quale grande gesto di bontà abbiamo fatto in passato/ e dimenticato/che Tu ci doni questa meraviglia/ o Dio delle acque ? // O Dio della notte, / quale grande dolore viene verso di noi/ che tu ce ne compensi così prima del tempo?” La bellezza quando accade –in un’opera d’arte, in una donna, in una città- fa pensare a una specie di miracolo. A qualcosa di immeritato. Spesso invece promuoviamo l’arte che pensiamo di meritarci –adeguata ai gusti, all’intelligenza o alla cosiddetta cultura che spesso non è che una serie di luoghi comuni di moda. E dunque nessuno stupore, raro qualche divertimento isterilito. Ma Venezia forse può offrirci ancora il suo miracolo. La poesia collabora a questa dismisura. Lei, più povera e inafferrabile delle arti, senza mercato né mode sarà presente in Biennale anche grazie alla istallazione “Stato poetico” di Marco Nereo Rotelli coordinata da Elena Lombardi che s’inaugura il 1 giugno: un omaggio di luci e letture di alcuni poeti a Palazzo Ducale. Poi grandi libri di pietra disseminati con i versi di una ventina dei migliori poeti contemporanei italiani. Pietre miliari come un tempo lungo le strade a segnare la direzione. Rotelli continua così il suo lungo peregrinare, curioso e febbrile, con le voci dei poeti creanti –attraverso le sue mani- movimenti della luce e delle materie: da Noto a Mantova, passando per grandi cave di Carrara e altri luoghi eloquenti del mondo. Offre la poesia come chiave, scandalosa e umile, per comprendere i luoghi, e dunque anche una biennale d’arte e la Venezia che la ospita. Per vivere l’occasione con vere aperture e ferite, con nuova disposizione al miracolo.

Di lui i migliori dicevano che fosse il migliore

Di lui i migliori dicevano che fosse il migliore. Dante lo vede come pupilla dell’aquila celestiale. Petrarca, dormiva con il suo libro –regalatogli da Boccaccio- sotto al guanciale. Il migliore, il re dei poeti, Davide, l’autore dei Salmi. Tanti nei decenni scorsi hanno provato a ritradurre quel libro, o a scrivere altri salmi a volte sconvolti. Come Celan, o La Tour du Pin. Ancora lo fanno. Vertice dei Salmi è il “Miserere”, il lamento che cerca la misericordia. Dante pronuncia proprio quella come prima parola nella Selva. E il Miserere come poesia e supplica risuona in questo tempo che precede la pasqua cristiana. E’ la supplica dell’uomo che è re ed è sperduto. Risuona ad esempio nella notte di Sessa Aurunca, canto che lascia attoniti, di bellezza straziante, cantato dagli uomini del paese, nel buio dei venerdì di Quaresima. Per tutta la notte lo cantano. Miserere che si alza dal centro dell’Italia, per tutti, per chi crede o per chi vuole credere, come ha detto Giovanna Marini l’altro giorno proprio a Sessa Aurunca chiamata con Ambrogio Sparagna, Tommaso Ricci e il sottoscritto a commentare il millenario misterioso canto di questa poesia. E’ passata di bocca in bocca, da quella del Re dei poeti e d’Israele a quelle di miliardi di uomini, ognuno un re sperduto. La storia di questi giorni ci consegna di noi uomini l’immagine di un re fragile. Attraversato e capace di essere attirato dal male. Di fronte al mistero del male il re sperduto, il migliore poeta, si sbilancia verso la misericordia del Dio che si è sbilanciato verso il suo popolo. Nel centro d’Italia uomini cantano e custodiscono questo sbilanciamento, questa poesia, le danno la loro voce potente e dolcissima. La loro violenta e irrefutabile forza e il dolce affidamento. Poesia belato, alta e umile. Come è sempre la poesia quando è grande. In questo nostro tempo, spesso la poesia sembra ridotta a un genere letterario laterale. Così lo considerano spesso gli editori, gli insegnanti, i media. Ma lei torna nelle notti degli uomini. E trova parole millenarie e future. Le uniche veramente adeguate per noi re bambini, sperduti nel mistero dell’esistenza: “miserere mei, Dominum, secundum magnam misericordiam tuam…”

Siamo in giorni in cui la catena umana sembra disgregarsi

Siamo in giorni in cui la catena umana sembra disgregarsi. Guerre, caos, faziosità. Forse non del tutto casuale che la poesia si occupi di questo, ma a un altro livello dal frastuono di bombe e polemiche. “Catena umana” si intitola il nuovo libro di Seamus Heaney. Con coraggio Mondadori ha inaugurato una serie de Lo Specchio (grafica nuova) affiancando al grande irlandese, quattro libercoli di poeti italiani nati negli anni ’70. La piccola collezione –sponsorizzata da un noto marchio di penne- è segnale di apertura. Bernini, Pellagatta, Ponso, Carabba confermano l’esistenza di una parte di poesia recente abitata da un notevole governo della lingua (forse pure troppo), da un sentimento del tempo come già concluso o privo di fertilità vitale e da una curiosità febbrile verso la propria biografia e l’orizzonte consueto della esistenza. Il grande irlandese, che conclude la sua opera ben tradotta da Gianluca Guerneri con una poesia omaggio agli aquiloni di Pascoli. si conferma un poeta “sposato alla vita” e capace di visioni. Questi scelti tra i tanti bravi nuovi poeti che ci sono, annotano un disagio, un senso di blocco da cui si fatica ad uscire. Generalizzare non si può e su ognuno torneremo, se si dà il caso. Ma un senso di vita cristallizzata li accomuna. Una narrazione del minimo vitale. La maggiore tensione si trova nel quaderno di Andrea Ponso, impegnato con “I ferri del mestiere” a auscultare la vita nelle ossa, a mostrare l’amputazione delle “potature” –parola che torna e chiude il libro- come  segni di una dura lotta per non soccombere alle forme del male. Ci sono qui ancora le sorprese: essere pur in una cucina livida  come “angeli muti/ che per la prima volta abbiano visto/ il proprio viso e il proprio corpo”. Una attenzione all’essenziale, una disponibilità alla privazione di quanto impedisce la rinascita delle ossa. Al centro –in una mandorla di testimonianza – il poeta annota: “guardo ora il viso dolce di mia madre/ seppellire quello assorto e immobile / di mio padre, senza cedere luce,/ senza perderne tracce.” La catena umana può avvenire nel segno della perdita, del cedimento. O le dolenti potature essere gesti in cui la luce non cede. Si rigenera, si tramanda.

I viandanti della poesia a volte chiedono mappe

I viandanti della poesia a volte chiedono mappe. Di solito cercano sorprese, frugando in magri scaffali di librerie, o annusando tra reading e fogli di giornale. Ma a volte chiedono strumenti che diano tracce, piste. Per trovare indicazioni che non lascino meno soli con la felice fame di poesia che li distingue e li frastorna. La scoperta della poesia procede con un metodo segreto, fatto di innamoramenti, di consonanze. Di preferenze che poi fanno allargare lo sguardo ad abbracciare costellazioni, mondi. Si può partire dalla voce di un poeta che colpisce e attraverso quella scoprire altre voci che l’han nutrita o seguita. Senza poter dire mai: so cosa è la poesia, come mai: so cosa è la vita. Esistono mappe che aiutano ad abbracciare vastità. Uno è il libro che per l’amorosa cura di Valeria Poggi raccoglie gli scritti più o meno occasionali di Maurizio Cucchi, Cronache di poesia del Novecento (Gaffi editore). Il passo di Cucchi, la prosa limpida al servizio di altri autori, maestri suoi o lontani, fanno del volume un buon radar per chi ama passeggiare tra tante esperienze di poesia. Cucchi procede con una sua misura, mai esorbita dal campo a cui si dedica con la pazienza del contadino. O dell’impiegato, se togliamo al termine ogni grigiore per osservarlo nella luminosa dignità di tempo dedicato a un “mesté” come dicono i lombardi, quel mestiere che è segno di vera umana cura. Molto o meno si può condividere in queste pagine ma il livello di attenzione e dedizione è esemplare. Altra mappa, mossa da altra e nuova necessità, è quella di Francesco Napoli (Poesia presente, Raffaelli editore). Critico che non vuole fare facile ed effimera militanza, ma riconoscere i tratti di una storia, Napoli presenta le voci e i problemi della poesia italiana dal 1975 a oggi. Con erudita profondità e leggerezza coglie esempi e passaggi entro una ampia prospettiva. Un grande aiuto per chi intende scoprire o anche studiare la poesia recente. Il titolo sottolinea –a dispetto di  ricorrenti tramontismi- che si tratta di un’arte presente e viva. La poesia non sbraita, non fa di tutto per farsi notare. Esistere non è apparire. E i viandanti della poesia ovunque ne riconoscono le tracce.

Un uomo senza lavoro

Un uomo senza lavoro, ha scritto un poeta nel suo titolo, è “co’e man monche”, con le mani mozzate. Ci voleva questa immagine per dire la crisi, non quella dei numeri, delle banche, dei telegiornali, degli economisti, ma quella delle persone. Ci voleva questo titolo duro e le immagini, i dialoghi che vibrano nella serie delle poesie aspre, i precipizi di solitudine e di tempo vuoto a cui Fabio Franzin ha dato voce per far sentire di cosa siamo tutti corresponsabili. Non è poesia di denuncia sociale. Sarebbe poco. Perché la poesia fa denuncia totale. Non si ferma alle analisi e a cercare l’origine dei mali nella società. Perché la società la fanno gli uomini. E’ poesia di vita. Di tutte le dimensioni della vita. Non a caso, nelle poesie di Franzin, accanto ai testi dove sono in scena gli operai mandati in mobilità sotto la tettoia come “fratelli abbandonati da un padre”, ci sono testi dove l’uomo è a casa, mentre fa lavori domestici, in giornate prive dell’impegno del lavoro, ci sono i figli, la compagna, pensieri su tutto. C’è un nord-est italiano duro, uomini che si trovano con le “mani inchiodate nel vuoto”. Qui le persone sembrano prese in un ingranaggio più vasto dello stesso pensiero: “globalizzazione” è parola che indica un male oscuro, inafferrabile, lontano. Un fato. Così questa poesia attaccata alle ferite del presente è analoga all’eterno cantare il magone della vita quando pare presa in un destino sovrastante. Il libro edito dalle valide edizioni Le voci della Luna, muovendo dalla crisi patita dal poeta e protagonista, diviene anche inno all’amore per i figli, per la donna, per una solidarietà non retorica, feriale, una religiosità elementare. Un uomo ferito, ma non privato della dignità. La voce che parla in questo libro è dialetto. Cioè è italiano, perché la lingua comune è viva quando ha il sapore delle tante lingue che la nutrono. Questo bel libro si unisce ad altre voci che danno poeticamente rilievo al dramma e al valore del lavoro: le pagine di Vittorio Sereni, ne “Gli strumenti umani” o quelle meravigliose di Charles Péguy . E infine quelle di un poeta operaio che ha scritto la più bella poesia dedicata a un compagno morto sul lavoro: si chiamava Karol Wojtyla. Sarà beatificato il 1 maggio.

Pubblico o privato ?

Pubblico o privato ? Per i poeti la distinzione non esiste. Pare che le ultime parole in punto di morte di Giacomo Leopardi, rivolte a Ranieri, siano state: “Non ti vedo più…” Come un ultimo struggimento, una perdita attonita. Lui, il poeta del “vedi”, “mira”, e delle visioni infinite, ha detto il culminante vero dolore del morire. Non un fatto privato, individuale, ma di relazione. Non vederti più. Com’è possibile. La poesia ha spesso indagato questo abisso. Nel Paradiso Dante fa esultare le anime quando ricorda che sarà loro restituito il corpo. Esultano perché così potranno vedere le persone amate nelle sembianze care. Nemmeno il paradiso è un posto perfetto finché non si può vedere il viso amato. Nemmeno l’individuo “in paradiso” basta a se stesso. Spesso anche coloro che carezzano una idea nichilista della vita desiderano che se non per loro stessi ci sia per l’amato o l’amata una sponda, un essere per sempre. Lo scrive Leopardi, lo scrive Montale. Non c’è conoscenza se si pretende di staccare la mente dal desiderio e dalle evidenze del cuore. La poesia è sempre un gesto dove movimenti della mente e dell’affectus (come gli antichi chiamano l’energia di legami con la realtà e le persone) si esprimono insieme. Per questo tutte le ideologie, materialiste o spiritualiste, la temono. Riapre sempre il discorso sulla conoscenza. Non sta al gioco di quei sistemi e della loro morale. E punta al problema centrale: vederti sempre, amore mio o essere niente. Dante ha scritto la Commedia per quel che gli bruciava la vita. Il genere di problema di cui quasi nessuno parla in pubblico ma è di tutti. I poeti veri non dividono la vita in cose pubbliche e private. Si pronunciano in tante battaglie della polis perché hanno motivazioni profonde e personali. Accade di recente nei firmatari di “Calpestare l’oblio”, pur con analisi parziali. E accade nell’ira intergra e retta del poeta Piersanti contro l’intellighentzja che appoggia la libertà a Battisti (www.pelagos.it ). La voce della poesia ci parla sempre nel vivo di questioni personali. Che non significa private. Nemmeno la morte è solo un fatto individuale, ma esperienza e verifica suprema di un legame, di un “noi”.

Ah la fiducia, dicono…

Ah la fiducia, dicono… Votare la sfiducia…Non fidarsi è meglio, dice un proverbio corrente e banale. Ma un uomo senza fiducia, uno che non si fida e di cui non ti puoi fidare non è più un uomo. Non si tratta di essere senza difetti. Meritare fiducia non è questione di perfezione, è questione di cuore. Di saper riprendere, di tenacia. Di desiderare sempre. L’uomo che si fida è un uomo forte, perché chi desidera è forte. Ma è anche per così dire uno che accetta di mettersi in stato di debolezza, perché si espone a un rischio. Mette il suo desiderio nelle mani di un altro. E se lo si tradisce, fa bene Dante a cacciarci in fondo all’inferno. Perché tradire la fiducia è tradire il desiderio. Che è la cosa più sacra che abbiamo. La cosa più umana. La nostra luce nativa. La poesia sa che cosa delicata e suprema sia fidarsi. E meritare la fiducia, non per presunta perfezione, ma per ardore. Quando un poeta di lungo corso come Alberto Nessi, nel suo libro antologico con inediti “Ladro di minuzie” (Casagrande) scrive, rivolgendosi alla moglie: “Come no, qualcosa resta di noi, l’eco di un’ora/ sui prati scompigliati, lo stupore/ davanti l’alba, l’albero che rassicura/ come una mano intorno alla mano del bambino/ sulla strada di casa (…)” significa che ha accettato la sfida: ha fiducia che non sia vano il vivere, desiderio senza traccia. La fiducia del poeta non è mai babbea. Nessi non chiude gli occhi di fronte agli orrori di cui siamo capaci. E di cui la società soffre. Anzi li sa scovare e ce ne fa sentire il sale sulle ferite. Sa che la vita è esposta a “maltempo” che travolge. Ma se ruba minuzie in giro, sguardi di lavoratori, erbe, panorami di lago, alberi selvatici è perché sa –con la irrefutabile chiarezza del suo sguardo- che la vita merita fiducia, che fidarsi è meglio. Da un uomo che festeggia i suoi 70 passati con alacre impegno e cortesia di poeta possiamo imparare, meglio che da tanti affannati letterati o uomini pubblici, cosa sia la fiducia. Se solo tendiamo l’orecchio e il cuore all’ascolto della sua voce. Le è riservato il prodigio che accade in non molti uomini e artisti: andare, voce ormai carica d’anni, verso una giovinezza non più individuale, verso la condivisione di un desiderio che si rinnova.

Ci mancava la polemica sulla pausa pranzo

Ci mancava la polemica sulla pausa pranzo. Ormai la politica tende a voler discutere di tutto. Tra un poco ci faran discutere “politicamente” anche della sigaretta dopo il caffè, o del bicchierino dopo cena. Invece di parlare della redditività o meno della pausa pranzo noi vogliamo parlarne, in versi, come luogo di rivelazioni. Anche in mense stipate o in bar sovraffollati la pausa del pranzo può essere il momento di strane epifanie, di incontri inaspettati, di rinnovamenti di sguardi. C’è una poesia di Maurizio Cucchi che ho sempre amato nella sua spoglia semplicità. E’ una pausa pranzo. Uno dei protagonisti di questo pranzetto nudo, spoglio è forse il padre del poeta che lo immagina a distanza di tempo. Un’azienda milanese come tante, un cognome lombardo comune,due colleghi. In gesto e un silenzio rivelatori di un destino. Perché le pause pranzo, sì, anche questo tempo feriale e sommesso, sono momenti in cui riveliamo, volendo o non volendo, il nostro destino irripetibile, e la coscienza che ne abbiamo. Da “L’ultimo viaggio di Glenn”, del 1999. “Forse Bernasconi/ era stato con lui telarista all’Olympia.//Un pranzo nel sole pacifico,/ dolce attraverso i vetri./ A tavola c’è una brocca, o una saliera,/e lui, trasognato, toccandola/gli aveva detto: ‘Ci fosse lei,/ ama le cose fini’. E qui chinò la fronte/ e rimase turbato.// Forse cercava in lui una speranza,/ l’ultimo credito umano e materiale.”

Libero e sorprendente

Libero e sorprendente. Così è il mondo della poesia. Che tocca cieca e visionaria, vista micidiale d’aquila e sognante, tanti mondi e luoghi e persone. Una bella recente sorpresa è il libro di un bravo poeta piemontese, Tiziano Fratus, anche lui sotto i 40 anni (35 per la precisione) come altri che sto qui segnalando. E’ un libro di bellissima fattura, foto meravigliose e di forte scrittura. Un libro sugli alberi. Ma dire così è poco. E’ firmato dalla sua alacre “Manifatturatorinopoesia” con Marco Valerio Editore. Ci sono sì le foto di alberi secolari stupefacenti da ogni parte del mondo (da Singapore a Palermo, dalla Val d’Aosta al Kenya) e gli appunti che questo poeta viandante ha preso nel suo vagare di “Homo radix”, come dice il titolo. Ci si trova dentro una messe di informazioni su poesie, romanzi, scritture e iniziative legate a queste presenze di alberi prodigiosi. Ma non è solo un bellissimo libro di un poeta sugli alberi. E’ un libro visione. Un libro scritto per un amore esagerato e casto. Una ricapitolazione vasta e tesa della propria fame di vita. Ed è una potente, vissuta e leggiadra indicazione sulla natura stessa dell’esperienza poetica. Che è sempre nell’essere uomini radici, cercatori e custodi di radici, e anche nell’essere uomini albero: pieni di voli, di nidi, di gloria naturale e non artefatta, di pazienza nelle stagioni cupe, come un disegno, un fraseggio segreto e pur eloquentissimo tra terra e cielo. Un libro di poesia in viaggio, tra letture, situazioni comiche, amici poeti sparsi per il globo come altri alberi, voci antiche come Boccaccio e grandi poeti più prossimi, come Pound o Les Murray. Un libro di scoperte e anche di vivacissima appassionata erudizione. Che ci invita tutti a essere poeti e uomini albero. Come nella bella poesia di G. Scabia che Fratus riporta: “il poeta albero/ contiene anche le storie/ che non compaiono a prima vista/ il poeta albero/ è tratto da un invito a ballare (…)”