Il movimento della poesia, un lungo appunto su Dante

 

   
I. La nostalgia del movimento

La Commedia è il poema del movimento. Mi rendo conto che tale definizione semplicissima non è originale e, soprattutto, va verificata a molteplici livelli di lettura. C’è un livello, in particolare, che mi riguarda. Lo espongo subito, sospettando che non sia una questione che tocca solo me. Ho pochissima memoria. O meglio non ho una memoria gestibile. I materiali che vorrei consegnarle in realtà si disperdono, sembrano inghiottiti da una oscurità che li restituisce come e quando vuole. Soprattutto non quando vorrei io.
Da ciò proviene che dinanzi a un poema così ricco e vario come la Commedia la mia memoria diviene uno strano animale, qualcosa di pazzesco. Per lunghi tratti mi pare inerte, quasi tramortita. In altri momenti romba come un mare in tempesta.
Ne deriva dunque l’impossibilità di qualsiasi tipo di riscontro e di ordine sistematico. Devo lavorare sempre con un archivio bizzarro.
Non so se è una sfortuna, so che è così.
Dunque la Commedia è innanzitutto una cosa che in me si muove e si mette in moto, non una serie ordinabile di incontri, rime e trovate poetiche.
Tutto ciò, è vero, potrei affermarlo anche di un breve elenco di altre grandi opere.
Ma la Commedia lo è in modo speciale.
Perché tale movimento, appunto, è una sua struttura profonda oltre che un riverbero in me e in altri lettori.
Lo ha detto bene, tra gli altri, Domenico De Robertis: in Dante “conoscere e poetare sono un unico movimento.”
Ma ripeterlo non è inutile, poiché forse oggi come mai prima ci si accorge che quel che ci rende così lontano e pur vicino Dante è esattamente questo: nella nostra epoca in cui ogni movimento sembra facile e afferrabile (i moti della psiche così come i viaggi virtuali sulla rete informatica) ciò che ci differenzia di più da Dante è, appunto, la mancanza di un senso primario e naturale della vita come movimento, come qualcosa che è messo in moto.
Nella ormai vastissima distanza che ci separa, a livello del comune sentire, dalla cultura della civiltà medievale -a cui Dante diede voce con i superamenti propri della poesia- si percepiscono in modo forse più essenziale le caratteristiche fondamentali di quella cultura che è stata a lungo accusata e tenuta in distante antipatia a motivo delle sue rigidezze -reali o più spesso presunte-, delle sue immobilità e dei suoi modi di intendere la conoscenza. Su tutto questo, le pagine di Giorgio Falco, di Romano Guardini o quelle di Rosario Assunto sulla “civiltà medioevale considerata come civiltà estetica” possono ancora dare lumi.
    Sta di fatto che la poesia contemporanea non riesce a staccarsi da Dante. Il poeta Seamus Heaney, recente Nobel, mette traduzioni da Dante nei suoi libri di poesia. E in una di queste traduzioni si immedesima così tanto con il viator della Commedia da "sostituirsi" a lui. Non solo, ma un suo poemetto del 1984, “Station Island” è tessuto sul modello del viaggio dantesco e costituisce, per così dire, l’elemento di vera “novità” rispetto alla ricca e coeva poesia anglofona di altri ottimi poeti, come Ted Hugs ad esempio. E non è un caso che l’Harold Bloom che recentemente prova a ridefinire il canone della letteratura occidentale intorno a Shakespeare piuttosto che a Dante, accusi Heaney di non cercare una visione che lo stacchi da terra. Come la visione dantesca non è una fuga gnostica dal mondo, così la miglior poesia contemporanea avverte la stessa vitale necessità.

La nostalgia del movimento: credo che possa chiamarsi all'incirca così quel sentimento di stupore misto a malinconia (e a un po' d'ira) che assale il lettore odierno della Commedia, qualunque sia il suo grado di penetrazione e di appropriazione della stratificata ed esuberante materia del canto dantesco.
Perché questa nostalgia stupita ?

Thomas Stearn Eliot, nello scritto dedicato a Dante in "Il bosco sacro" diffidava nientemeno che Valery dal ritenere che scopo della poesia sia quello di "produrre in noi un certo stato". La nostalgia stupita di cui parlo non è uno "stato" a cui la poesia di Dante ci consegna.
E' semmai la composizione chimica di un carburante, di quel carburante che Dante comunica in un'opera attraverso cui, secondo altri avvertimenti dello stesso Eliot, egli non mira a suscitare emozioni ma a esprimere qualcosa.  
La Divina Commedia esprime un carburante.
Qualcosa del genere aveva forse in mente Eliot quando dice che Dante ha trattato la propria filosofia nei termini di "cosa percepita", e che nella Commedia noi "non studiamo filosofia ma la vediamo".
Tra le tante acute osservazioni di lettura dantesca di Romano Guardini, troviamo l’affermazione che “la realtà che si manifesta (a Dante) nella visione gli deve fornire l’energia visiva per poterla guardare”. L’energia dello sguardo dantesco, dunque, proviene dal presentarsi a lui del reale in quella esperienza di visione. E’ la realtà stessa che, percepita in quella straordinaria esperienza, comunica l’energia al suo visitatore per essere guardata, sostenuta negli occhi e attraversata.

Vediamo un gran movimento, appunto.
Qui di seguito il mio lettore troverà annotazioni rapide, a volte quasi sincopate. In tale brevità v'è il segno della mia approssimazione dottrinaria. Ancor più v'è traccia di quella specie di tarantola che mi ha morso rileggendo il poema: non riuscivo a star fermo che poche decine di minuti, spesso anche meno. Mi dovevo alzare, riaccendere da fumare, aprire la finestra, prendere un appunto, fare una telefonata, camminare.

II La coincidenza tra memoria e profezia

E' evidente a tutti che la Commedia narra di un movimento di viaggio e di cambiamento, un transumanare. Meno evidente, ma non meno attraente e importante, è il fatto che un movimento (quello della storia dell'umanità, dei cieli e dell'essere) costituisca la struttura per così dire scenografica della Commedia, l'impalcatura della sua scena, che è il più vasto scenario mai pensato per opera letteraria. Ogni movimento dei protagonisti avviene sempre su uno sfondo anch'esso in perpetuo moto. Anche quando non si vede nulla dello sfondo, come in alcuni luoghi dell'Inferno, il lettore sa che è dentro una situazione in moto.
Dante quindi vede se stesso in moto dentro a questo movimento straordinario del tutto. Il suo singolare ed esemplare cammino avviene dentro al movimento del tutto.
A noi moderni manca quasi sempre questa percezione della propria esperienza colta in rapporto al moto della storia e dell'universo intero. Molto spesso anche la poesia contemporanea non considera l'uomo dentro questo orizzonte, in questo nesso con la totalità dei fattori e con il destino.   
A questo proposito R. Assunto cita la pertinenza di un’osservazione di Wolfang Seiferth: per Dante, i principi formali del cosmo sono gli stessi di ogni produzione artistica.
Non bisogna poi dimenticare che la stessa stesura del poema avvenne in massima parte dentro il movimento specialissimo dell'esilio, che sappiamo essere una sorta di movimento drammaticamente più esposto alla inquietudine circa il senso del proprio destino. E si ricordi che la Vita Nova non fu conclusa, ma si interruppe. Il motivo dell’opera, dunque, è un movimento che può anche chiedere strappi, spostando lo scopo dell’opera poetica dalla creazione di se stessa (la propria conclusione) alla percorrenza di un viaggio, alla risposta alle urgenze di un cammino.
L'oggetto a cui tanto affaticar fu volto è, com'è noto, esso stesso un "motore". Il primario motore dell'essere.
Un movimento è quel che rende i personaggi che compaiono nelle tre cantiche così vivi ed efficaci, cioè il moto della memoria e della propria trasformazione.
Il valore stesso delle figure principali che accompagnano il poeta è in relazione al movimento e al livello a cui conducono.
L'amore è qualcosa che muove i passi e la poesia stessa di Dante; è, letteralmente, un motivo (Pur. XVII) la cui natura non è, infine, separabile tra piano psicologico personale e piano ontologico.
Molti buoni lettori della Commedia hanno investigato a quali moti ci chiama il poeta attraverso le figure della allegoria, della metafora e del simbolo. I migliori hanno veduto nella poesia della Commedia la conferma e anche il superamento, la rimessa in moto si potrebbe dire, delle stesse definizioni di allegoria, metafora e simbolo.
C'è chi ha parlato a proposito della Commedia di una "ontologia delle metamorfosi".
La formula può sembrare oscura, ma a ben vedere fissa il livello a cui, in un certo senso, Dante regola davvero e fino in fondo i suoi conti con la grande poesia stilnovistica e classica che lo ha preceduto.
Ha dimostrato infatti di aver le carte in regola dal punto di vista della tecnica poetica per competere con Omero, Virgilio, Lucano, Ovidio e con Cavalcanti: ma il motivo per cui egli prende decisamente un'altra strada rispetto a loro, e li lascia, è che a lui è dato di compiere l'autentico movimento nell'essere, e di compierlo di persona. (Purg.XXIV 58-61)
Ezio Raimondi in uno dei suoi efficaci e documentatissimi saggi di lettura dantesca, inizia con le citazioni di poeti più o meno contemporanei (Pascoli, Mandel'stam, Montale, Reverdy e altri) attenti a rilevare la forza dinamica delle metafore, il loro potere di collegare le cose, fino al punto in cui tutti gli elementi appaiono in un unico volume "conflati", ma restando ognuna "in puritate speciei propriae". Su tutto questo ha scritto pagine dotte anche il mio compagno di studi Francesco Giardinazzo in un bel volume di scritti danteschi.
Raimondi cita Tommaso e la sua idea di unitio prossima ma diversa da unio, per una maggiore accentuazione del primo termine sul processo, sul farsi della unità.
Adelia Noferi, in un interessante saggio su Dante e il Novecento, segnala la differenza che anche nella concezione di cosa sia la memoria esiste tra Dante e Petrarca. Se per il secondo la memoria è ciò che permette, sotto l’imperio di Amore, di fermare il contingente “in lettere d’oro”, per Dante già dalla Vita nova la mente-memoria è “il primo motore dell’immaginazione”  e nel Paradiso “fantasia” e “memoria” risultano sinonimi, elementi dello stesso movimento che rende intelleggibile l’esperienza del viaggio, chiarendolo come “unio”.
La Divina Commedia si presenta come un formidabile movimento della fantasia nella memoria. E’ infatti l’esperienza reale e storica dell’uomo Dante a fornire la materia che rende possibile il viaggio poetico.
Eppure quella materia che viene dall'esperienza storica, psicologica e personalissima del poeta si rivela, per così dire, eccedente i limiti della sua personalità.
E' questo il motivo per cui nella Divina Commedia memoria personale e profezia coincidono. Intendendo per profezia non le previsioni sul futuro ma il dire dinanzi a qualcosa il cui senso eccede e viene chiamato a mostrarsi.
La memoria è un movimento nella storia, non è una fuga orfica o una costruzione simbolica. Eliot avvertiva che il motivo per cui Dante scrive la Commedia sta nella sua convinzione di aver fatto esperienze importanti.
Ancora Eliot mette tra i motivi della sua personale preferenza per Dante rispetto a Shakespeare il fatto che mentre quest'ultimo è grande nell'analizzare il sentimento principale dei suoi personaggi, Dante lo è nel metterlo in relazione con quello degli altri.
In tal senso Dante, oltre ad essere il punto critico per la poesia a lui anteriore, lo è con la stessa intensità di quella posteriore, massime quella contemporanea, che proprio della relazione ha fatto la sua figura più discussa e cercata.
Se questo si chiami “canone” o cos’altro, lo lasciamo definire a chi è interessato a questo genere di definizioni.

III Imminenza, insediamento

Come ha notato acutamente Mario Luzi, la forza della poesia dantesca sta nel nascere da una immedesimazione. E' da un lato l'immedesimazione del viaggiatore coi personaggi e con le situazioni che incontra. Ma è anzitutto l'immedesimazione della poesia con la vicenda individuale del poeta, il non frapporre alcuna distanza estetica tra il poeta e la sua materia.
Tale immedesimazione sembra una possibilità preclusa ai poeti di oggi. C'è stata, per così dire, troppa autocoscienza del fare poetico, la poesia di oggi ha ricavato così tante nozioni e impressioni dall'autosservazione che esse ormai stanno lì, come una lastra opaca sempre in mezzo tra sé e la vita che la chiama. Lo diceva Montale parlando della prosa contemporanea, se non sbaglio. Proprio lui.
In Dante, invece, anche quando vediamo l'auctor distanziarsi dal viator per motivi retorici o narrativi o anche teologici, non c'è mai distanza tra il canto e la sua occasione, tra l'avvenimento della poesia e l'avvenimento a cui essa partecipa.
Luzi nota che in Dante non c’è tempo della poesia distinto dal tempo dell’azione.
Rimbaud ha probabilmente smesso di scrivere poiché per lui la poesia non poteva più essere così.
Tutto, per l’autore e per il personaggio, si gioca nel presente, poiché il presente per Dante risponde direttamente all’eterno. Luzi chiama tutto ciò, con efficace espressione, “imminenza dantesca”. Tutto quel che nel poema avviene sta avvenendo.  La Commedia non è il resoconto di un viaggio, è quel viaggio.
Tutto ciò, nota ancora Luzi, si radica nella concezione che Dante aveva a riguardo dell’incarnazione. Egli aveva una nozione “insediata” del soprannaturale.

La figura centrale del viaggio dantesco è il "passaggio". Si tratta di un termine che nell'uomo di fede evoca i fatti e i misteri legati alla nascita, al battesimo, alla morte e alla resurrezione, nonché alla storia della rivelazione.
Il buon vecchio, e probabilmente insuperato Charles S. Singleton, un ateo che finì suicida, ma che seppe come pochi altri leggere la Commedia dall'interno della visione cristiana che la generò, dice che lo schema centrale dell'opera, come si può desumere dalla lettera a Cangrande, è la conversione.
Ma se quella figura centrale avesse solo il valore di persuadere a certe verità della fede la Commedia sarebbe un ottimo catechismo medievale non un’opera di poesia da mozzare il fiato.
Il passaggio, dunque, si propone anche a noi lettori moderni (e nemmeno più moderni) come la figura, la forma e dunque la vita di un'opera grandiosa di poesia, la migliore che ci è giunta.
In definitiva, entrare nella Divina Commedia significa accettare di entrare a verificare se vi è almeno una zona in movimento nella nostra vita, magari quella zona che vorremmo tacere, e che tutto intorno a noi invita a far tacere.
La poesia di Dante esplode come un fiore proprio lì, nel magma dell’esperienza.
La mette in questione come un canto mette in questione il silenzio.
Perciò è un’opera che mette sommamente in questione la letteratura.
Infatti, mette in questione la letteratura intesa come sistema. Com'è noto, infatti, non abbiamo l’originale della Commedia, nulla di scritto di pugno da Dante, eppure siamo sicuri della origine esistenziale e storica di quest'opera. I filologi nella commedia si perdono, si ritrovano e si perdono nuovamente, anch’essi costretti a un movimento infinito. Non arrivano mai al documento primario, mai ai suoi motivi misteriosi e inafferrabili.

Nel suo film, tagliato così frequentemente da bui improvvisi, cadute di luce, o vaste aperture, tutto è esatto. L’esattezza vivente dell’alveare, del diamante, ha detto Mandel’stam. Ma è l’esattezza di un movimento. La stessa soverchiante esattezza che hanno le grandi opere d’arte e i movimenti di natura: le nubi, il nevaio, il guizzo del pesce nell’acqua.
Ogni cantica ha la sua colonna vertebrale movimentata.

IV L’inferno che inebria le luci

L’inferno è pieno di movimenti: dopo i primi incerti, smarriti passi che lo scampato racconta ci son corse, ruote, inseguimenti, discese in groppa a mostri, moti illusorii come quello del gigante paragonato alla torre Garisenda al passaggio delle nubi. C’è il movimento culminante nella doppia metamorfosi nel XXV canto dell’Inferno.
Quella scena è come un rapinoso a solo di chitarrista rock. Culmine di virtù plastica della poesia di Dante e di ira contro la città che lo ha esiliato, vero e proprio turbinio. Con quel pezzo di grande bravura Dante regola molti conti: con la poesia e la cultura classica e con la decadenza della civiltà contemporanea. E’ una rabbiosa e lacrimante prova di potenza.  
C’è il movimento vano di Ulisse (quel “folle volo”) che, come ha evidenziato Raimondi, è reso grazie anche a una ripresa e rimessa in moto di un topos virgiliano (i remi come ali), attraverso la risemantizzazione di una metafora (qui i rami divengono ali non per mera similitudine, ma per l’azione di Ulisse e compagni: de’remi facemmo ali al folle volo.).
L’accusa ad Ulisse è sul tipo di movimento che egli intraprende, non per le motivazioni che lo spingono. Quelle motivazioni Dante le sente urgere anche in sé. Ma il suo volo non sarà folle perché invece di fare ali di remi metterà un passo dietro un altro passo e verrà raggiunto da donne pietose.
C’è il movimento impossibile del Conte Ugolino tra le “ombre dolenti nella ghiaccia” –impossibile nella figura di dannazione e anche nell’evento narrato, la chiusura nella torre-. La sua feroce e, come scopriremo, addoloratissima masticazione prelude, nell'ombra della allusione terribile, a quella, eterna, di Lucifero.
Il motivo dello strazio che provoca come pochi altri punti dell’Inferno il canto di Ugolino è certamente nella particolare pietà che suscita.
Ma credo che ci sia anche un motivo per così dire dinamico. Intendo dire che a questo punto della Cantica, il lettore è così stato colpito e lavorato da Dante attraverso una serie incredibili di movimenti, di discese, ascensioni, accelerazioni e fughe, che questa straziata immobilità del Conte e della sua paternità costretta a divorare i propri figli è una riva su cui tutte le nostre emozioni precedenti arrivano come un’onda e ci rifluiscono dentro, in un colmo di dolore.
E, infine, c’è un diavolo-proiettile, immobile perché, dirà più avanti, "da tutti i pesi del mondo costretto" (Par. XXIX, 57).
Poi il movimento assurdo dell’uscita.
Nell’Inferno c’è già tutta la combustione del carburante che Dante esprime.
Già nella lettura dell’Inferno noi facciamo tutta intera l’esperienza di quella “nostalgia stupita” rispetto al movimento dantesco.
Come è noto, all’Inferno c’è un caos sonoro, di rime e di grida; c’è, all’inizio, l’entrare in qualcosa a cui la vista fa fatica ad abituarsi mentre tutti gli altri sensi sono subito eccitati. Dante, grande estimatore della poesia dei salmi di re Davide, sa che la poesia del vedere è propria della sua civiltà occidentale, ma sa anche che la grande poesia ebraica mostra una poesia viva di odori, di esperienze tattili, di similitudine sulla linea di sensi che non siano la vista, o che legano inaspettatamente le scoperte del vedere a quelle del gustare o dell’annusare.
C’è, insomma, l’entrare in un viaggio ma a tentoni. Noi, come il Dante viator, abbiamo fatto l’esperienza di essere introdotti in un moto senza vedere bene, con un po’ di delirio.
Chi dice che l’Inferno è la Cantica più coinvolgente lo fa per ebrietudine: voglio dire che noi lettori moderni e non più moderni siamo già ubriachi dopo la prima Cantica. Perciò ci verrebbe da dire che essa basta. Non è per una difficoltà teologica, innanzitutto. Sì, avvertiamo il Purgatorio e il Paradiso così “lontani” per tutti i motivi connessi alla secolarizzazione e avvertiamo l’Inferno così vicino per tanti motivi storici e culturali. Nessun poeta moderno ha scritto "una stagione in Purgatorio". Ma poiché ogni figura e ogni moto nell’Inferno sono in relazione da un lato con la storia e l’aldiquà e, dall’altro, con la struttura tripartita del poema non credo che il motivo di tale preferenza sia solo di ordine, per così dire, gnoseologico. Non è appena perché ci troviamo più rappresentati dall’Inferno: è perché tutto questo movimento (nel quale, ripeto, sono già impliciti Purgatorio e Paradiso) ci ha stordito, ubriacato e colmati di una stupita nostalgia che corrisponde a quanto il nostro cuore desidera ma che mette in questione la nostra staticità.
Per questo siamo tentati di dire: ci basta l’Inferno.
Del resto è Dante stesso, all’inizio del XXIX canto a confidare che la vista di tutto quel movimento doloroso gli aveva inebriate “le luci”, gli occhi.

V Il purgatorio della poesia e dell’amore

Dall’Inferno Dante esce con una certezza. Dice alle Muse: “vostro sono”.
A diciotto anni, nel proemio della Vita Nova il poeta racconta la visione di amore, apparsogli come un signore con in braccio Beatrice che mangia il suo cuore e da cui uscivano molte parole incomprensibili. Tra quelle parole egli percepisce: “Ego dominus tuus”. A metà della vita quella visione giovanile è avverata in modo inaspettato.
La certezza di appartenere ad amore e alle Muse è identica. Il suo cuore ne è divorato.
E. Curtius ha riflettuto sul fatto che la teologia medievale era attraversata da colti dibattiti sul fatto se fosse lecito o no al poeta cristiano di ispirarsi alle muse in quanto divinità pagane. Dante invece lo fa, ripetutamente. Perché per lui non c’era distinzione tra amore –che è il nome di Dio- e le muse.
Per lui non c'è dubbio: l’esperienza della poesia è l’esperienza dell’appartenenza alla signoria amorosa di Dio.
Il Purgatorio è, in questo senso, la cantica della messa a fuoco dell’amore e della poetica.
La celebre dichiarazione di poetica del XXIV canto (“Io mi son un che, quando/ amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’ei ditta dentro vo significando”) è incastonata nel movimento di una poesia che chiarisce se stessa mentre chiarisce i motivi di una elezione. La natura della poesia, della esperienza della poesia, trovano un chiarimento durante il viaggio, così segnato dalla mutevole penombra del Purgatorio, insieme al chiarirsi di un destino segnato dall’amore e dalla misericordia.
Il significato della poesia e della propria vocazione si chiariscono in un cammino in penombra.
Quel che “spira” nel poeta è lo stesso vento che muove la vela della sua persona intera, carne e animo.
Non si dimentichi che Dante profetizza per se stesso una sosta in Purgatorio, nel girone degli invidiosi (XIII). Egli è dunque interamente coinvolto in ciò di cui sta parlando. Facendolo non scherza e sapeva che i suoi lettori non l'avrebbero preso come una trovata.
E’ una cantica la cui aria di sospensione non è dovuta solo alla condizione della anime, sospese al loro disìo di veder la beatitudine. C’è anche la sospensione di un uomo che sta vedendo chiarirsi il proprio destino.

“L’animo, ch’è creato ad amar presto
ad ogni cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.” (XVIII).

Dante sa di essere un uomo così, che è “presto”, è “mobile” ad amar ciò in cui è in atto un’attrattiva. E sa che l’amore naturale “è sempre sanza errore” mentre quello che l’uomo presume di gestire nel proprio animo “puote errar per malo obietto/ o per troppo o per poco di vigore”. (XVII).
Il destino riguarda la destinazione del proprio amore. Qui è tutto il fuoco, tutto il dramma, tutta la potenza di movimento che viene espressa nella Commedia e nel viaggio personale di Dante. Ed è il motivo che ci rende stupiti e colmi di nostalgia. Chi non desidera, infatti, che la partita con il proprio destino riguardi il proprio amore invece che la propria casualità o la propria virtù?
Tutti i personaggi del purgatorio, da Bonconte a Manfredi, da Oderisi a Guinizelli, fino a Re Davide che torna ripetutamente lungo tutta la Commedia, ombra di Dante, altro Virgilio, sono la cera in cui si vede l’impronta di questo dramma della proporzione tra disìo e destino.
C’è un’asprezza dell’espiazione –ad esempio quel gridarsi dei lussuriosi l’un con l’altro esempi di castità- che rinfocola il dramma di quel che sta loro avvenendo. La punizione non è uno scotto, un pedaggio, ma una continua messa in questione di se stessi. Non è una punizione, infatti, ma un perfezionamento.
Ciò che domina il Purgatorio è però un movimento che non è più solo quello delle anime. Dalle contorsioni dell’Inferno si è passati al cammino del Purgatorio: ma ciò che determina questo passaggio è che qui si registra l’esistenza di un altro movimento. Dante lo registra, per così dire, all’interno di sé come uomo e come poeta e le anime lo presentono. E’ il movimento della misericordia di Dio:

“vegna vèr noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.” (XI)

cantano le anime “disparmente angosciate tutte a tondo”.

Il movimento ascendente del Purgatorio si compie in realtà in quel carnevale sacro che è l’arrivo di Beatrice e del carro. Sul significato di quell’arrivo ha scritto pagine memorabili Charles Singleton, mostrando lo svelamento della natura tutta centrata sull'incarnazione del poema dantesco. Ma non vorremmo fermarci ora sui significati allegorici.
Il doppio movimento del cammino verso e dell'esser raggiunti che richiama un famoso passo di san Paolo ("mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già stato afferrato da Gesù") investe tutta questa Cantica e così come rende possibile, narrativamente, l’approdo al Paradiso di Dante e delle anime purgatoriali, rende possibile fin dai primi versi il fatto che “la morta poesi’ resurga”.
La morta poesia è, certo, la poesia che ha descritto il regno della morte, l’inferno, ma è anche la poesia che non segue ciò che “spira”. La analogia con la sfida mitologica che le figlie di Tessaro lanciarono alle Muse chiarisce che la poesia partecipa dello stesso movimento: coloro che vollero essere poeti, che dunque ritennero di gestire la forza della poesia, sentirono e patirono “il colpo” di essere immensamente distanti dalla poesia donata dalle Muse divine.
Nella esperienza della poesia, dunque, avviene -analogicamente a quanto avviene nell'esperienza della fede- questo doppio movimento di tensione e di elezione, dell'esser raggiunti, scelti.
    Non a caso la differenza che Dante riconosce tra sé e i suoi predecessori è una differenza di obbedienza, non di capacità. E’ il fatto che le “penne” di Dante “diretro al dittator sen vanno strette” ciò che lascia Jacopo da Lentini, Guittone d’Arezzo e altri al di qua della novità intrapresa da Dante e dai suoi amici, Guinizelli e Cavalcanti. I quali, è bene notarlo, da quel che ci dice (o non ci dice) di loro nella Commedia non erano considerati da Dante, al pari di se stesso, degli stinchi di santo né degli impeccabili ortodossi.
Il che significa che seguire una poetica adeguata, obbediente allo spirare di amore divino non coincide con una irreprensibilità morale. Ancora una volta c’è lo spazio del dramma, nulla è automatico.
L’obbedienza e la disponibilità al movimento di un Altro, di Amore, sono ciò che designa la miglior poesia nella penombra della letteratura e la chance di salvezza delle anime nella penombra vivissima del Purgatorio. Tale obbedienza è una caratteristica ontologica prima ancora che una virtù morale.
Lo sa bene Dante, che al culmine del Purgatorio, troverà Beatrice, risentendo la potenza dell’antico amore e in una presenza che, pur facendogli duramente considerare tutta la sua debolezza morale, lo invita a non coltivare “il seme del piangere”, cioè della commiserazione. (XXXI)
Significativamente Giorgio Caproni ha scelto “il seme del piangere” come titolo di una sua raccolta splendida di compianto per la situazione dell’uomo contemporaneo.
Invece Dante, al termine della grandiosa rassegna dei vizi e delle pene umane, è chiamato a non indugiare in questo compianto. Questo “strappo” ci sarebbe incomprensibile, e anche irrealistico e presuntuoso se Beatrice rappresentasse, agli occhi del poeta e nostri, una specie di incarnazione della virtù, una figura di fredda perfezione. Lei, invece, è altro, anzi è “più” addirittura delle tre virtù teologali. Infatti, all’inizio del XXXII esse “rimproverano” Dante di guardare solo lei. Che con il suo sorriso gli fa fare in anticipo esperienza del vedere e non vedere, dello sprofondamento nella conoscenza del Paradiso, della partecipazione a quel movimento in cui tutto, misteriosamente, si raduna e si squaderna.

VI La prova dell’aver visto

Il Paradiso si apre con una invocazione dura e forte.
Ad Apollo, Dante chiede subito che spiri (secondo il verbo già usato nel XXIV del Purgatorio) così tanto da fare al poeta quanto fu fatto a Marsia, che fu sguainato “de la vagina delle membra sue”.
Il poeta per entrare nell’occhio del ciclone –il paradiso è una rosa ma è anche un ciclone- deve essere pronto a subire uno spellamento, un uscir da sé. Uno "sregolamento di tutti i sensi", avrebbe scritto Rimbaud poiché "Io è un altro".
Il Paradiso è sì il punto di arrivo di un cammino di conversione, ma Dante non dimentica mai di essere un poeta: occorre una continua conversione o metamorfosi anche della poesia.
    Il Paradiso è la cantica della visione contemplativa ma anche della velocità. Von Balthasar ha acutamente notato che Dante era, per molti motivi, un uomo di confine, una specie di avanguardia. Ad esempio la scelta di scrivere in volgare il suo poema ha una portata enorme. Il teologo poi nota la frequenza delle immagini di viaggio marino, il ricorrere delle imagini avventurose nelle metafore dei saggi di Dante. C’è nel poeta e nell’intellettuale Alighieri una sorta di predilezione per la avvanturosità, lo scatto in avanti, il rischio di un movimento ulteriore.
    Leggendo Dante non ho potuto esimermi dal pensare ogni tanto: ma quest’uomo ha fretta.
Il Paradiso è un canto velocissimo. Molti passaggi sono bruciati, inghiottiti da una memoria che restituisce solo in parte, perduti in una gioia troppo profonda per essere osservata o ricordata analiticamente.
Tale velocità dei passaggi è registrabile dal poeta e da noi attraverso di lui, mediante i passaggi di luce. “Luce” è qui sempre vocabolo multiforme e polisemico: designa la “vita” delle anime, la “bellezza” di Beatrice, gli “occhi” etc.
Si potrebbe dire che il movimento della luce nel Paradiso inizia nel movimentarsi dei significati all’interno della sua parola. E’ l’analogo linguistico del movimento esistenziale provocato in Dante dall’incontro con Beatrice. .
Sul volto di Beatrice la bellezza si “muove”, aumenta. Ma, si badi, non è una bellezza che si proietta su quel volto come un film su uno schermo. No, è la bellezza di quel volto che si muove e che aumenta. Che percezione soverchiante! Come se nella bellezza di quel volto si facesse largo, premendo come un destino, un’altra bellezza, o meglio, la sua essenzialità.
E’ questo, credo, il motivo per cui anche all’apparir di Cristo in Paradiso (XXIII) Beatrice richiama Dante e lo invita a non guardar solo il suo volto, ora che la bellezza si mostra a lui, in un excessus mistico, distinta dal suo segno.
    Beatrice non è la “nostra” donna romantica né la donna moderna o post-moderna poiché è donna che provoca e accompagna in un movimento. E’ la speranza di vederla che porta Dante a superare la barriera di fiamme, “incendio sanza metro” in cui si purifica nel XXVII canto del Purgatorio la passione disordinata. Beatrice non provoca una enfasi del sentimento o un allargamento della sensibilità. O non solo questo. Principalmente provoca un moto, un passo, letteralmente una visione, poiché si tratta di un movimento verso qualcosa che, per quanto indefinito o sconosciuto, si è reso visibile e ha acceso un nuovo orizzonte, una nuova apertura nella vita.
La fede di Dante non “s’inforsa” poiché nella sua vita è certamente accaduto questo incontro che muove. La Divina Commedia è un viaggio nell’incontro con Beatrice e perciò è un viaggio in tutto il reale.
E se ogni comprensione dell’altro da sé è, secondo la splendida espressione del IX canto, un “intuarsi” e un “immiarsi” dell’altro, allora la conoscenza del destino e del mistero dell’esistenza sarà secondo lo stesso metodo, un mettersi in esso, un movimento di immedesimazione. Un “naufragar” avrebbe detto, con un accento di più disperato abbandono, Leopardi.
Nel Paradiso c’è subito uno straordinario dispiegarsi di movimenti: innanzitutto quello della memoria che è curiosamente detta “ombra” del beato regno così tutto luminoso.
Ad essa il poeta dice che non può “ire” dietro. Si crea una situazione di grande tensione: il poeta dovrà far ricorso al “tesoro” della memoria ma sa già che essa non è sufficiente. Occorre, dunque, che Apollo spirando lo sguaini, lo faccia uscire da sé.
La poesia è una specie di strano “potenziamento” della memoria. Lo diceva Piero Bigongiari citando Campana: la poesia come ricordo che non ricorda.
Ancora Bigongiari ricordava che nella poesia “nomina sunt evidentia rerum”, significando che nel farsi della poesia la realtà è messa in grado di esprimere l’evidenza del proprio esserci e del proprio enigma.
Ricordo che Bigongiari insisteva molto, a voce e per iscritto, sulla centralità della poesia di Dante nella sua esperienza, e parlava non solo del Dante di Contini. “A me pare, diceva il filologo, che il nostro Dante non possa che essere che il Dante della realtà e della sperimentazione continua, se non strettamente un Dante naturalistico.”
Anche quello di Bigongiari, di Betocchi, di Luzi e di Loi è il Dante della realtà, ma non della sua riduzione a “naturalismo”, bensì della sua evidenza di mistero.
    La poesia del Paradiso letteralmente stordisce chi abbia occhi e cuore per leggerla. In Particolare Dante è qui maestro nei cambi di ritmo e di intensità visionaria. Si pensi, per fare solo un esempio, all’avvio del canto XXIII, quando, dopo la visione grandiosa che chiude il canto precedente con la veduta dall’alto della terra, troviamo:

“Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati

previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;

così la donna mia stava eretta
e attenta…”

Per Dante, occupato e forse invaso dal suo poema, trovare versi come questi, di questa naturale delicatezza dev’esser stato un riposo vivissimo e un conforto.
E come doveva essere per lui ilare e rappacificante immaginare l’incontro tra i due Apostoli, Pietro e Giacomo, come due colombi che si trovano, si girano intorno festeggiandosi.
Il movimento del Paradiso è costellato di incontri che sembrano rinnovare lo spazio.
Voglio dire che sono incontri in cui, a differenza di quanto avviene nelle due cantiche precedenti, sembra che lo spazio, poiché non si oppone, sia come ricreato dal venir come turbo di san Benedetto, dal muoversi come ragazze dell’anima di Piccarda, dal moto dell’anima di Cacciaguida come “foco dietro ad alabastro”.
Non è un caso che in questa cantica e non nelle altre Dante dica, nel XXIV, che gli occorrerebbe un’arte delle sfumature più simile a quella di un pittore che a quella dell’arte della parola. E lo dice, si badi, per la descrizione di un canto, creando uno splendido circuito dell’ineffabilità tra le arti.

Se nel XVIII si dice chiaramente che la mente umana non riesce a tornare da sola su di sé, ovvero a comprendersi, si capisce allora cosa significa che “ciascuna cosa qual ell’è diventa”, ogni cosa diviene se stessa e prende adeguata autocoscienza, grazie al “disìo” “de l’eterno piacere”. L’uomo è nesso di desiderio con l’infinito: fuori da questa scoperta esistenziale non c’è nessuna verità né teorica, né poetica, né ideologica.
Tutte le anime dei santi ripetono incessantemente questa verità sulla persona.
Nota giustamente Guardini che la domanda ultima di Dante non riguarda Dio, ma il fatto di come sia possibile che Dio “possa essere tutto in tutto e il mondo rimanere mondo”. In altre parole, la domanda di Dante che trova compimento e silenzio nella visione del volto umano dentro ai tre cerchi della divinità (l’Incarnazione) riguarda la possibilità che esista una dignità, il senso del destino individuale e storico e fisico  dinanzi alla onniessenza di Dio. La domanda trova una risposta, dice Guardini, che “non può essere formulata. Essa però è donata, e donata come un sacro, infinito sì.”

Al termine del viaggio in Paradiso (XXXIII, vv.84-93) Dante riconoscerà che una è la prova principale del fatto che egli abbia davvero visto “la forma universal”, ovvero la totalità di “sustanze e accidenti e lor costume”, e “legato con amore in un volume,/ “ciò che per l’universo si squaderna”. Tale prova è nel fatto che parlando ora in poesia di queste cose (“dicendo questo”) gli succede di goderne ancora e maggiormente.

“La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’godo.”.

Un godimento presente e maggiore della esperienza in cui la memoria sprofonda: Dante individua la speciale forza della poesia.
E infatti, ai suoi gradi più intensi e nelle sue voci più autentiche, la poesia anche di oggi ci fa fare esperienza di qualcosa di noi che sta nel profondo di quel che ci capita e che ci pareva dimenticato. Non è vero che possiamo solo dire quel che "non siamo" come scriveva Montale, a meno che, come lui non ci teniamo al riparo da Dante e da Leopardi.
E' vero, invece, che la poesia ci invita a fare memoria di qualcosa che siamo, e, come nel vedere dantesco, ci mostra il grande ed eterno moto per cui siamo fatti.

Il tempo e la poesia: Elisabetta Graziosi

 Tre domande sul tempo

  

1.    Letteratura, filosofia e scienza hanno contribuito, specialmente nel corso del Novecento, a ridefinire il concetto di tempo in relazione all’esperienza umana. Quali, tra i molti poeti, scrittori e intellettuali che hanno posto il problema del tempo al centro delle loro opere o riflessioni, possono aver avuto il maggior influsso sulla sua poesia? In particolare, se dovesse indicare il nome di un ‘poeta del tempo’, a chi penserebbe?

 
Il campo della domanda è vasto, toglie il respiro. Immediatamente, e fortunatamente, mi sale nel fiato il nome di Dante, e non solo per le sue ripetute riflessioni sul tempo che nella Commedia sono sempre connesse con il tema della libertà –senza la quale la percezione del tempo è di un puro scorrere- ma anche e soprattutto perché la forza della sua poesia sta nel creare continuamente un movimento, un ritmo, che venendo da quel che “move il sole e l’altre stelle” passando per la obbedienza, per l’ascolto del poeta arriva al nostro invitandoci a vivere il tempo come luogo di un viaggio. Il tempo come movimento. Dante resta indubbiamente gigante anche in questo. Più prossimi, ci sono i nomi di poeti che lo hanno ruminato e amato come Eliot –con la sua nozione poetica e critica di contemporaneità totale- o come Luzi con il senso della metamorfosi ontologicamente positiva. Ma nel lavoro che ho condotto anche su poeti come Péguy, o sugli antichi salmi, o ancora su Baudelaire –il suo spleen non è un sentimento del tempo? oh, ecco Ungaretti…- molte sono state le suggestioni e gli inviti.

 
 
2.    Il tema del tempo può essere variamente declinato all’interno di un’opera letteraria: ad esempio, come calendario dell’esistenza individuale o misura del ritmo naturale; come Storia o come dimensione cosmica. Il tempo può perfino incidere sulla struttura di un’opera, orientando la successione di alcuni testi nel libro o dando alla lirica un andamento narrativo. Esiste, nella sua poesia, un’accezione prevalente del tempo?  Quale dei diversi modi di intendere il tempo meglio si accorda con i suoi scritti e con il suo pensiero?

 
Difficile dire per me cosa prevale nella mia opera. Vivo, come tutti coloro che stanno in viaggio con gli occhi aperti tra le nostre città e metropoli, un forte senso del dispendio, del tempo come corsa, energia spesa a perdifiato…E però da un lato la mia radice romagnola, di terra e di mare, mi suggerisce un tempo che non li lascia depredare, che resiste nel suo spettacolo di ritmo segreto e profondo – le colline, le onde. Tra i pochi versi che ho scritto e che mi ricordo a memoria ci sono questi: “L’amore il tempo sono fatti / dello stesso onore”. E altrove: “La morte è un gesto ampio della vita”. L’avvenimento dell’incarnazione, centro e fuoco del cristianesimo, mi lavora lo sguardo a considerare che il tempo è luogo dove l’eterno si è immischiato, e immischiato fino al sorriso e al sangue. Insomma considero il tempo come un teatro drammatico, una partita aperta tra l’affermazione di un destino buono e il rischio della vanvera, della vana dissipazione. Credo che il problema del tempo cessi di essere solo un rovello filosofico e divenga realmente poetico quando entra in scena il problema del destino, dell’orizzonte entro cui vediamo in rilievo i volti che ci sono cari, o i particolari dolorosi, o i fatti tremendi o buoni che accadono. Più che una definizione del tempo – a cui han lavorato menti più appuntite della mia- mi interessa fiutare dove va il suo vento, che fa lacrimare e rischiara gli occhi.

 
3.    L’esperienza del tempo vissuta dalle generazioni più giovani, complici gli sviluppi sociali e tecnologici, è probabilmente diversa da quella conosciuta almeno fino ai decenni centrali del Novecento. Ciò può avere effetti, anche per via indiretta, nella creazione letteraria? In particolare, lo sviluppo della sua poesia nel corso degli anni può aver registrato tale evoluzione?
 
Le evoluzioni della poesia più che a livello tematico sono evoluzioni dello stile e della sua cellula, la lingua, il sentimento della lingua. Ai primi tempi della rivista clanDestino, che da ventanni redigo con amici e poeti, ogni volta che ricevevamo un plico di testi scherzavamo chiedendoci: e c’è il viaggio  ? c’è l’amore, c’è la morte ? e c’è la noia o la passione ? Insomma, i temi, le matrici esistenziali della poesia sono simili sempre e per sempre. In vent’anni sono cambiate tante cose, e molto rapidamente. Ma non quel che accende poeticamente le parole degli uomini. In quarant’anni o cinquanta sono cambiate enormemente le cose. Una certa koiné letteraria che teneva insieme –se così si può dire- la lingua di Luzi con quella di Sereni o di Caproni e Bertolucci è svanita, in loro stessi, poeti di lungo corso arrivati fino alle nostre estreme rive, e intorno. Cambia la lingua, certo, la mia, la nostra meravigliosa e feritissima lingua. Vedo un movimento doppio, anche in me, se vale qualcosa il sorprendere tali moti nel proprio laboratorio interiore. Da un lato, un trascinamento, a volte quasi un’estasi, di fronte alle mille possibilità di movimento che tanti fattori imprimono alla lingua, spostandone confini, lavorando sui suoi legamenti, fibrillando i suoi ritmi. Dall’altro, il gusto sempre nuovo di ruminare la fastosa, dolce e dura lingua che fu di Jacopone o Ungaretti, di Dante o Leopardi, di Alfieri o di Rebora. Un gusto fisico, non filologico, sperimentandone la tenuta, la tessitura, la forza drammatica che sa ancora avere le estensioni e le vibrazioni giuste per dire il contemporaneo. “In hac verbi copula stupet omnis regula”, ho letto da qualche parte. Mi pare in una citazione che il Curtius fa dagli Analecta Hyminica. Una “copula” delle parole, insomma, un affettivo richiamarsi e legarsi, fa in modo che ogni presunta “regola” –intesa come dettame dei “professori” o delle mode- stupisca. Che significa non una negazione ma una sorta di apertura, di stupefazione. Tale affectus, tale legame delle parole antiche e modernissime, dipende in gran parta da una passione educata dalla tradizione, da una umiltà che ama il presente sapendo che esso e il suo sviluppo non sono fiori che vengono dal nulla. Ed è perciò instancabile, nel mettere alla prova, nel tentare e nel rischio dei nuovi azzardi della lingua vive l’intensa responsabilità di una tradizione che, pur così sfolgorante come la nostra, va sempre, come diceva Eliot, riconquistata.

Lettera aperta ai professori di Lettere

Più che una lettera, questa è una supplica. O qualcosa dove l’invettiva, la supplica e il silenzio si rincorrono in una strano, definitivo investimento. Vi dico: siete dei monaci. E dei guerrieri. Non tradite pure voi, in questo generale tradimento di chierici e di giornalisti, di “esperti” di comunicazione e di editori o agenzie di eventi culturali… Siete monaci e guerrieri a custodia e a incremento di un bene prezioso, che nessuno quasi più comprende. O di cui molti parlano ma già così incartapecoriti e in naftalina di retorica o di buone intenzioni…La chiamano: letteratura. Ma non è altro che vita continuamente ridestata della lingua, della prima e umile e ricca relazione di cui la natura ci ha dotato.  E’, attraverso la lingua, vita che si ridesta alla vita, cioè alla coscienza. Siete monaci e guerrieri della vita della lingua, che è come dire vita del pensiero –o della ragione, se vogliamo ridirlo. Perché cosa è la letteratura? Pila di libri che intasa le librerie? Classifica in fondo al Corriere? O allegato de La Repubblica? O biblioteca delle biblioteche? O ultima delle mode? Un elenco di classici opposto a un altro? No, la letteratura o come la volete chiamare quella galleria di voci, è un’esperienza. Siete, che lo vogliate o no, sul fronte di una guerra che ha in palio la sparizione del fenomeno chiamato poesia, cioè una guerra sulla radice stessa della esperienza linguistica nel suo aspetto di corrispondenza tentata con il mondo, di risposta al segreto che delle cose colpisce e invita. Non la sparizione, no. Perché non sparirà mai, essendo tra i fenomeni umani primari. Come la fame, come il sesso, e il lutto. Ma la sua riduzione per fraentindimento. La sua anestesia. La collocazione tra i noiosi intrattenimenti, ovvero tra i paradossi inutili ai più. Invece, la vita ci chiama, fin da piccoli, a non usare solo i nomi dell’anagrafe. Non bastano le parole dell’anagrafe stabilita dalle leggi o quella spesso più tetra e misera imposta (e con che formidabili strumenti) dall’uso. All’amata, ai figli inventiamo soprannomi per provare a dire quel che di loro, in tenerezza e timore, ci parla. Dante diceva che a volte si usano le parole per dire quello che non si sa. La lingua aperta e tesa al segreto del mondo è l’inizio e per così dire il concerto della letteratura. Al cuore, alla ragione non bastano le parole spente che ci mettono in bocca. Se il cuore e la ragione sono ancora vivi. Se ascoltano il mondo. Se ne ricevono il colpo di presenza. Siete monaci, e guerrieri. Mal pagati. Messi a lavorare talvolta in condizioni spaventose. Tra editori e, spesso, dirigenti che non capiscono niente di tutto questo. In ambiti dove tutto sembra concorrere a mortificare la vita, e dunque anche la lingua. Tra burocrazia, pruriti che sembrano pestilenze, e sciabordìo morto dell’abitudine. Tentati di far come tutti, parandosi dietro a questioni sindacali o familiari. Parandosi dietro alla difficoltà. Ma il monaco e il guerriero abitano la difficoltà. Non fanno solo un mestiere. Ne fanno centomila per l’esito della buona battaglia. Se avete difficoltà economiche andate a rubare, fate gli unici espropri che avrebbe senso fare. O fate cooperative, leghe di insegnanti di lettere, mutue, fate la questua. Dovrebbero pagarvi a miliardi, altro che i grandi manager… Ma tanto l’unica vostra dignità professionale è data dall’aver fatto tremare o sgranare gli occhi a qualcuno leggendo la pagina di un capolavoro come se si stesse scrivendo ora lì con voi, collaborando a scriverla la vostra vita intera. Non è questione di soldi. E non importa se coraggiosi o coltissimi, o se tremanti o spavaldi. Il fatto è che siete lì, ora, in questa specie di trincea, in questo combattimento corpo a corpo. E’ nelle vostre mani –nelle vostre più che in altre- la responsabilità di non far morire il dolce suono e il movimento della nostra lingua italiana. Lingua di poesia innanzitutto, come avviene in Francesco, in Jacopone, poi in Dante, in Petrarca, su fino a Leopardi, al leone Ungaretti e ai tanti, tantissimi che hanno nelle loro diverse misure e respiri tentato rilievo e giustizia alle parole. Trattandole per quel che sono: strumenti con cui inseguire il vero e indicarlo, come un Giovanni Battista clamante nel deserto, o come il sobbalzo nel ventre di Elisabetta. Viviamo in un’epoca di parole spente. In un’inflazione di parole che vengono addosso a generazioni che non è vero che leggon poco; leggono un sacco –dagli sms agli spot, ai giornali dati gratis nei metro- ma tutte cose in cui le parole sono morte. Lettura in cui non c’è vita. Dove non si chiede niente a chi legge, solo i suoi soldi, o l’opinione, o il voto. Lasciate perdere i programmi, le scadenze, i disegni analitico-storici…Fateli per quel minimo indispensabile. Che è vicino allo zero. Il disegno storico della letteratura a che serve a un ragazzo, se non si impara il gusto e lo scandalo della letteratura?  Alzatevi in piedi, piuttosto, leggete. Fate teatro di questa vita della lingua quando in essa giunge il colpo della vita. Questo raddoppiamento della vita. Fate come avete visto fare davanti a voi da chi ha letto grandi pagine di letteratura investendole di se stesso, della propria domanda di felicità e scoprendo il segreto del mondo. Fate così, come i monaci in piedi, e i guerrieri. Perché da ovunque il nulla occhieggia. E cala sui viottoli o sulle autostrade della vostra possibile pigrizia, della vostra inappellabile buona coscienza, del vostro malinteso senso del dovere. Il destino mi ha assegnato una piccola parte nello scrivere versi, libri, miei e d’altri. E ora questo libercolo di letture condivise. A voi la parte di  indicare e condividere la parola accesa della letteratura. Non lasciate si spenga, in occhi abbagliati di noia dalle scritte di rèclame. Il mio monastero è il vostro, e medesimo il campo minato. Scusate, anzi non scusate, il disturbo.

Mettere a fuoco Dio, prefazione

Preghiere e non preghiere
Introduzione

Si potrebbe ripartire da Bremond, l’abate che con pacata furia, fissando nel suo celebre saggio le confluenze e le distanze tra preghiera e poesia, cercò di domare una materia vasta e convulsa. O ripartire da Celan, il tragico poeta, che sondava la verità nella poesia muovendo dalla comune etimologia tedesca del pensare e del ringraziare o, ancora, dell’esser memori e della devozione (Denken, Danken, Eingedenk sein,Andacht ). O da più indietro. Si potrebbe, si dovrebbe, ripartire da Dante.  O dal suo vicino e ferocemente lontano, Petrarca. Dalla loro  comune ammirazione, sconfinata e timorosa (sì, pur se di quei sommi era timorosa) per Davide re, profeta e poeta. O si potrebbe, e avendone le forze mentali e intellettuali -che invece se ne sono andate a seguire chissà che segnali, che barbagli, che fuochi – si dovrebbero collegare i suggerimenti disseminati in W.H. Auden, e poi in Mario Luzi e in Sergej Averincev . O in Les Murray, il poeta australiano, che parlando di religioni come poemi sposta acutamente il problema di quanto sia poesia o preghiera dall’intangibile sfera del soggetto che scrive a quella più ravvisabile dell’effetto che il poema crea nel lettore e nella comunità.
Si poteva fare, si dovrebbe. Qualcuno lo sta facendo, lo faranno, non so. Insomma si dovrebbe fare tutto diversamente da quanto qui ho mi sono azzardato. Scagliare questo libro di testi  contro il petto del lettore, gettare i fogli di questo taccuino di poesie che viaggiano verso i confini, che non restano nel margine della letteratura, sì, che debordano o comunque se ne vanno per vagare ed esplodere altrove, sotto un cielo più vasto che non quello delle biblioteche, è stato un gesto azzardato. Ma Dio ama l’azzardo. E anche taluni editori lo amano. E’ un’idea infatti avuta dalla mente dell’editore –notoriamente una specie di intelletto prossimo al diabolico e dunque attentissimo alle cose dei precipizi e dei cieli.
Si è fatto un manipolo di testi e lo si offre. Poche note, le essenziali. Un libretto pieno di abissi. Al contrario di chi –nelle accademie, nei salottini- vorrebbe la poesia a far da intrattenimento, da dessert per ideologi o linguisti. Un libretto-barca da dove a volte si ammirano fondali, o a volte, per troppa oscurità si distoglie lo sguardo dalle onde e si lancia a qualche barlume di stelle.
Ma no, non si doveva fare di accostare testi così lontani, così diversi. Non si doveva fare di proporli nella loro sferzante nudità. Nella loro gloriosa e torbida bellezza. Né di allinearli qui come feriti in una battaglia durissima e splendida. Non si doveva. A meno che non si sia disposti a pagare un prezzo altissimo. Il quale non è, diciamolo subito, la bocca torta di critici e studiosi “seri” di poesia e di compilatori attenti agli errori, alle mancanze e a quelle che chiameranno forzature. Un prezzo più alto. Di aver le mani bruciate. E con le mani, il cuore e come si chiama: l’anima. Per aver accostati in questa disordinata galleria, così vicini, come affastellati, questi capolavori in un magazzino in un tempo di guerra (che lo è quel che viviamo, sottocutanea, oltre che corporale e militare, sottocerebrale guerra, e disastrosa). Il prezzo del rapimento della mente. E di quello del cuore.  
Eppure cosa potevo fare? Perché dopo tutte le teorie e, dentro il cuore di quelle che sono più sincere, non si trova forse lo stesso sole? O, appunto, lo stesso fuoco? Che è quello del re Davide, il quale risponde così al rimprovero della prima moglie Micol che lo ammonisce di non esser ridicolo ballando nudo nel corteo che porta l’Arca della Sacra Alleanza in Gerusalemme: io non ballavo di fronte al popolo, ma di fronte a Dio. Qui ci brucia quel fuoco che si vede nelle opere scritte per così dire ballando nudi davanti a Dio. E da quella nudità lanciando preghiere o forse non preghiere a Dio. Non preghiere di sfida, o di ira, o di derisione. O di sbigottita incredulità. O di troppa pena. Così come preghiere di troppa pena, o di ira, o di affidamento. Di una cosa sono certo, a riguardo di questa materia così imprendibile, analizzabile e sempre da ricapitolare: ogni vera poesia è scritta sempre di fronte all’assoluto. Come lo può concepire o incontrare mente umana. Ogni grande, autentica poesia nasce dinanzi al cielo intero, e alla profondità dell’abisso. Nasce come gesto, come lancio di pietra o di fiori in quell’arco luminoso e oscuro.
E di fonte al cielo si può stare pregando, o non pregando. Ma non c’è poeta autentico che non stia dinanzi a quella dismisura, mentre egli pur misura le parole e il loro ritmico respiro. Vede il vuoto, in quel cielo, o avverte il pieno di un mistero: ma non può che stare lì, per la sua destinazione di poeta. Che è quella, come in questa antologia sbilenca si vede, di star inchiodato senza nascondersi la faccia sotto questo cielo. Non esiste una poesia atea, nel senso che non può esistere una poesia che non si ponga il problema di Dio. Che non se lo ponga sempre, ad ogni volta che sulla pagina scendono i segni della relazione che un particolare ha con il tutto, secondo il suggerimento dato in quel momento all’autore. Può una poesia esser idolatra. Come può esserlo l’uomo. E riporre, di fatto, la sua fiducia piuttosto che in Dio, in una idea formulata dalla sua testa, in una bellezza del suo o di un altrui corpo, nel denaro o in altri generi di scambi, nella politica, nello stato. Idolatria, diffusa… L’idolatria della poesia si chiama Letteratura. Quando ne abbatte l’idolo, e si libera dai suoi rituali e dai ricatti muti e delle catene invisibili che la legano, la poesia rivela la sua bellezza nuda, primaria, artificiosa e obbediente alla natura.
Che è come dire: prendete queste poesie come vengono.
Preghiere e non preghiere è un libro che non sta sul comodino. Non sta da nessuna parte. Non è per addormentarsi. Non è per biblioteche tranquille. Va dove c’è il fuoco. Quello che gli uomini appiccano nella loro demenza di ergersi a dei della sorte propria o altrui. E dove c’è il fuoco dello spirito che grida con gemiti immensi e rende mendicante il cuore anche quando non ha le parole.
Che siano queste le parole, suggerite da uomo a uomo, come da sentinelle che cantano nel turno della notte, o da compagni al tavolo dove scende la sera. O altre, qualsiasi altre che nascendo in faccia a Dio sono la lingua della intera statura della persona umana.

La poesia

1.    La poesia è accedere a una grande memoria

La poesia è una forma della memoria ? Sì, se consideriamo che si scrive sempre in qualche modo ricordando. La memoria e la lingua sono due modi per raccogliere il reale. Sono le nostre mani a conca. Come con l’acqua, le nostre mani non lo raccolgono per poterlo trattenere. Nella memoria e nella lingua la realtà non resta interamente. Una poesia è, ogni volta che la si legge, una immersione delle mani a conca nel reale. Ogni volta una memoria. Ogni volta: altrimenti sarebbe una teca da museo, un monumento. Ma la memoria nella poesia è sempre un’azione “al” presente, che si rinnova ogni volta.
Dante dedica le poesie della Vita Nova e l’intera Commedia a Beatrice: la sta ricordando, non è materialmente di fronte a lei. La ri-vede, la stra-vede. Ne ha, infine, visione. E così di ogni cosa, e per ogni cosa, si scrive ricordando. Il lavoro della poesia è una messa a fuoco nella memoria. Se la messa a fuoco arriva alla visione, allora si ha poesia. Se la memoria arriva a una visione presente allora ok, ci siamo. Sennò è un buon gingillo. Utile per decorare, o per intrattenere. Ma l’arte è un’altra questione.
Il rapporto tra esperienza e scrittura è sempre un lavoro della memoria. Essa non è uno spazio. Non siamo computer. Credo che la vera natura della memoria sia d’essere una azione. Ad esempio, io ho poca memoria intesa come spazio. E, credo, molta memoria intesa come azione. Certo, le esperienze fatte si depositano da qualche parte in me. Ma lo spazio credo sia quello, infinito, dell’oblio. Da là le trae solo il lavoro della messa a fuoco. Della messa “in” fuoco. Questo lavoro lo chiamo , con un termine che nel poetese non si usa quasi mai: “giudizio”. Senza giudizio la memoria è come l’oblio. Coincidono. Il giudizio è l’azione con cui batto sull’incudine del cuore il ferro della vita. Il cuore è fatto di esigenze di bello, di vero, di infinito, e di giusto che sono l’incudine, la messa in prova, la “verifica”, di quel che vivo.
Mi è capitato molte volte di leggere un’esperienza del mio passato attraverso una poesia e procedere in una messa a fuoco che finiva per mettere in luce dei particolari inaspettati per me stesso. Voglio dire: inizio a scrivere pensando che una certa situazione mi abbia colpito, o che certi particolari siano all’origine della poesia. Poi, lavorando con le parole e intorno ad esse, mi accorgo che era altro a parlarmi in quella faccenda. Una messa a fuoco, che può arrivare a rovesciare le impressioni iniziali. Le parole sono i colpi sull’incudine. Lavorare sul “senso” delle parole (che è l’insieme del loro significato e del loro suono) fa lavorare sul senso di quel che si vive.
Del resto, Dante diceva che si usano le parole per dire quello che non si sa. Nella poesia, come nelle occasioni importanti della vita, le parole inseguono quel che devono dire. E’ un inseguimento strenuo, a volte. Perché, come è stato scritto da Henri Meshonnic, non sono le parole che hanno senso, ma il senso che ha parole. E, passando la manica, anche Hilaire Belloc ammetteva che le parole posson far di  tutto, tranne inventare il proprio significato. Perché il senso è più grande delle perole che continuamente lo recuperano, lo perdono e lo rammemorano.
Per questo, lavorare con le parole significa un viaggio in una duplice memoria: uno è quello del soggetto che scrive nel proprio ricordo, l’altro viaggio è nella memoria delle parole. Questo viaggio doppio, un super-viaggio, da come frutto lo strano composto di personalissimo e comune che vive in una poesia.
Piero Bigongiari, grande indimenticabile poeta italiano e simpaticissimo “zio” per noi poeti più giovani, ripeteva spesso, riprendendo un’intuizione di Dino Campana, il poeta e folle di Marrani, che la poesia è come un ricordo che non ricorda. Il che significa che c’è un giacimento più ricco di ciò che appare. Tale giacimento che sembra preda dell’oblio, è il territorio in cui la parola poetica si avventura. Anzi, è propriamente, ciò di cui è fatta. C’è una vita anteriore che chiede di essere conosciuta. Un viaggio che porta in avanti ma procedendo verso la profondità, verso quell’uomo “leggendario”, delle origini, di cui parlava Ungaretti, che acutamente parlava di sé come dominato dal nomadismo e dalla nostalgia. Non è errare se si dice che la poesia è fatta di una nostalgia del vero del mondo. A cercare quella “fodera” del mondo, come la chiamava Cezlaw Milosz, la parte che non si vede. La nostalgia è il segno che esiste qualcosa di più grande, di più attrattivo di quanto si possiede nel ricordo. Non è il ricordo di qualcosa di preciso, è il motore acceso della memoria di tutto quel che non si ha.
La memoria delle parole, la loro ricchezza insondabile fino in fondo, è lo strumento, il percorso che allo scrittore è dato per accedere alla ampiezza di quel che non ricorda soggettivamente. Per aderire all’ampiezza dell’oggetto della sua nostalgia. Per questo i poeti si fidano delle parole. Obbedendo a loro, sa di compiere un viaggio più profondo di quello previsto dal suo ricordo.
Mi è capitato ad esempio in una poesia che ho dedicato a New York. Tornando alla fine del 1999 da una serie di letture con altri poeti italiani, conservavo il ricordo di una serata a cena a casa di una traduttrice con altri scrittori e poeti. Una bella casa seminterrata a Manhattan. Mi sono messo a scrivere al ritorno. E pensavo che in quella serata mi avessero parlato (l’ispirazione è una voce che ti dice) alcuni particolari. Certo, la bellezza della nostra ospite, le sue figlie bambine, la conversazione con il traduttore di Pavese e con altri scrittori americani, e il fatto di essere a Manhattan per la seconda volta nella mia vita.
Ci ho messo quattro anni a scrivere quella maledetta poesia. Mi sono rotto la testa e le mani per trovarla. Una lotta. E nella memoria lentamente, attraverso la lavorazione delle parole, mi sono apparse le cose che veramente mi avevano colpito in quella serata. Erano altre, molte altre. Erano là, le ho dovute rivedere.
Non credo che questa sia un’eccezione. Molto lavoro sulle poesie avviene così.
Una buona poesia non è mai solo un complesso fatto psicologico. E’ una visione. Flannery O’Connor, tra gli altri, lamentava il fatto che nella letteratura contemporanea vi sono grandi esibizioni psicologiche e poca visione. Vale a dire, molti giri nel perimetro della sensibilità e delle elaborazioni mentali della materia offerta dalla vita. Ma poche aperture, poco ascolto di quel che amore, movendo il sole e l’altre stelle, ditta dentro.

2.    La memoria è un azione presente

Negli ultimi versi della Commedia, Dante si dice sicuro di quel che ha visto.
Lo dice in pochi solitamente trascurati versi.

La forma universal di questo nodo
Son cero ch’io vidi perché dicendo
Più largo ne godo.

E’ un passo straordinario. Alla fine del suo gran viaggio, dopo aver accumulato negli occhi e nel cuore lo spettacolo di ogni vizio e virtù umane, e dopo aver raggiunto il punto massimo della visione, dice al suo lettore: guarda che non ti ho raccontato favole. Ho visto Dio e per un istante il mistero dei misteri, l’incarnazione. E aggiunge: come faccio a esserne certo ? Poiché parlandone ora ne godo ancora e più largamente.
C’è dunque un altro rapporto tra poesia e memoria. La dizione nel presente (e ogni lettura è una dizione) certifica la visione in quanto offre di poterne godere di più. Non c’è dunque solo un recupero, un mantenimento, un riportare in vita. L’opera aumenta l’esperienza dell’oggetto di cui si fa memoria. O, più in breve, la memoria potenzia l’esperienza. Vale per la visione di Dio, come per la visione del passero su un ramo. Se è visione.
La memoria dunque agisce nella poesia, non è solo il suo oggetto. O meglio, l’esperienza del passato attraverso la memoria poetica si attiva nel presente. Si allarga. Esprime nel presente il proprio valore. Dante ne è certo in virtù di un godimento presente. Come chi scrive di un dolore passato, ritrova un più vasto dolore. E Dante compie un passo ardito nel situare nella propria esperienza personale e presente –così come in quella del lettore, da lui chiamato più volte in causa- la certificazione della verità di un’esperienza passata che la sua poesia narra. Non si dà altro luogo possibile di verifica, se non l’esperienza dello scrittore e quella del lettore, del vero a cui si accede con una poesia. Per questo non ha senso parlare di “pubblico” della poesia. Non esiste il “pubblico” come categoria desunta da altri campi per via sociologica. Esiste solo la condivisione tra due uomini di un viaggio nella memoria, di una sua messa a fuoco.
A questo livello della questione si collega l’annosa faccenda della poesia da imparare a memoria oppure no. Anche nel ragazzino a scuola, la memoria impegnata con la poesia non è una questione di ordine in un archivio. I francesi, che hanno alcune fortune nella loro lingua –ma sempre meno che noi- esprimono com’è noto l’imparare a memoria con l’espressione di trattenere “par coeur”, attraverso il cuore, un testo.  
Trattenere attraverso il cuore significa impegnare il cuore in un lavoro continuo su quelle parole. E’ una memoria intesa come ruminazione. Simile a quella di chi si ripete i Salmi non solo per conservarli, ma per impararne sempre il segreto. La memoria agisce veramente solo come tale ruminazione. Come archivio è destinata a fallire. O a svolgere una funzione parziale, inerziale.
L’importanza dell’imparare a memoria si ha solo se se ne considera l’azione.
    Io non conosco a memoria nemmeno le mie poesie. Non ho quella memoria archivio che pure mi tornerebbe utile. E’ un archivio impazzito. Ogni volta che scrivo intorno a un poeta che pure ho letto e riletto, devo accedere ad altri archivi strumentali. Ma dai flutti di un mare molto movimentato, emergono come apparenti frammenti, le parole che sto ruminando, nel ricordo che non ricorda, nel livello della mia esperienza nel quale la lettura e la presenza di certe parole e del loro ritmo è divenuta pari al sangue, al respiro.

La parola accesa

Una proposta di antologia/ manuale – inteso come viaggio nella poesia italiana dai nostri giorni fino alle origini, attraverso l’incontro con alcuni testi esemplari (più molti altri antologizzati) e problemi e figure della ricchissima tradizione trattati con agilità e completezza.

Una delle novità dell’impostazione del testo è la direzione del viaggio. Esso viene compiuto a partire dalle voci più vicine, del presente, fino ad avvicinarsi a quelle più remote nel tempo, in continuo rimando agli intrecci intertestuali e culturali che rendono attiva la tradizione nel  contemporaneo. Così da vedere come Ungaretti riprende certi momenti della tradizione francescana e di Jacopone, o come in Montale o Eliot è vivo Dante o come in Saba o Luzi agiscono Petrarca e Leopardi.  

La poesia viene presentata nei suoi testi come esperienza viva e accesa della lingua, segno di un rapporto attivo con il reale, ed esito della complessa e ricca storia della lingua.
In particolare i brevi commenti e le annotazioni, sempre di carattere esemplare e mai fagocitanti i testi offerti, illumineranno questioni storiche, sociali e di storia della lingua.

Gli esercizi saranno orientati ad intrattenere un rapporto ermeneutico con il testo attento ai dati propri della espressione poetica (parole e ritmo) e al contesto.
E a stimolare una creatività linguistica.

Il gruppo di lavoro, guidato dal sottoscritto, si avvale della collaborazione di docenti delle scuole superiori e medie, nonché di esperti in didattica dell’italiano.

Con Rimbaud nel petto

    Nel cuore del nostro tempo c'é una notte, una vertigine.
Come c'è stato il viaggio dantesco, così, ora, c' è il viaggio di Rimbaud. C'é, nel petto del nostro tempo, una "insignificante" ("adolescenziale", dicono quelli che, protetti da una presunta maturità, ne vogliono scansare i colpi)  notte o stagione all'Inferno. Nel cuore della modernità (e delle sue messe in discussione) c'é un poeta all'inferno. C'era già stato, dunque, anche il poeta all'inferno-purgatorio-paradiso; ma allontanatosi dal timore e tremore per il Mistero che l'Evo cristiano riconosceva in tutte le circostanze, il cuore ora meravigliato per le vie fumose e cittadine, meravigliato dall'assenzio e dalle metafisiche rivoluzionarie patisce – rotti i ripari di un'educazione ormai solo formalmente ossequiata-  il senso della noia di se stesso e che, giunto alla soglia dell'ignoto, su quel orizzonte "crolla", perdendo il senso delle "visioni" che vi si aprono, come dice nella famosa Lettera  del veggente. Non a caso, come insegna il maggior poeta italiano vivente, il poeta giovane di Charleville  è l'unico che si può accostare in una speciale vicinanza-lontananza all'esiliato di Firenze. Sono due poeti, due viaggi ove l'auctor e il personaggio coincidono, dove cioè vale l'esperienza, e dove alla prova dell'esperienza sono sottoposti tutte le verità presunte.  Perciò sono i più vicini al lettore. Non si dimentichi che la Saison  («relation d'un combat spirituel») è l'unico libro che Rimbaud volle espressamente pubblicare1.
Una vertigine è nel petto d'Europa, un andirivieni sempre in cerca, uno sporgersi continuo verso il possibile  -c' è un uomo, "mystique à l'etat sauvage" che il giorno prima di morire chiede alle Messaggeries Marittimes a che ora dev'essere trasportato a bordo per ripartire.
Se è vero che l'orgoglio intellettuale umanistico fu il veleno con cui  la ragione e il cuore  umani vengono occlusi al senso del mistero; se è vero che Baudelaire segna l'inizio della modernità perché canta la Noia di una vita tragicamente "duale"2, con la splendida nenia cui quanti si accoderanno ma con meno dolore e più "filosofia", è innegabile che la resa poetica  più efficace di tali ragione e cuore  annoiati-drogati si trova nella Saison di Rimbaud. Li' tutto "cede". In quel "Libro pagano" sono date con gesto infermo e perverso e dolce le crisi della religione, dell'amore, della scienza, della memoria, del sogno, dell'arte: alla metodica e pur fulminea verifica a cui li sottopone, nessuno di questi fattori dell'esperienza umana appare in grado di avvicinare Rimbaud al suo "destino di felicità", a quella "salut" tanto desiderata e immaginata quanto misteriosa -il ragazzo, evidentemente, è dentro una catastrofe, come Amleto, nota Bonnefoy. "Gli Angeli, ha scritto un giovane e acuto lettore di Rimbaud, sanno subito e da sempre".3
Tutto cede, perché nulla basta all'uomo che cerca se stesso: "voglio la libertà nella salvezza. Come perseguirla?". Proprio dove sembra toccata l'oscurità più densa dei segni e delle parole, il senso si fa chiaro, lampante. Rimbaud  è tutto men che oscuro. Dichiara fin da subito la "chiave" per ritrovare l'innocenza perduta: "la carità è questa chiave". Immediato, esatto -quasi paolino, cioè proprio come S.Paolo nel suo "inno" (scandaloso culmine anche per un altro grande maledetto, George Trakl e per il nostro Pasolini -sarebbe interessante studiare la strana attrazione tra S.Paolo e i punti estremi della letteratura). Affermazione straziante per l'impossibilità a che essa taale "chiave" sia realmente utilizzabile -e non un sogno. Nei versi di Rimbaud c'è il "'metodo' per poter inchiodare ai colori le nostre parole, la nostra pratica del mondo"   
Egli non affronta nessun tema nuovo. Parla di ciò di cui tutti parlano. Risulta più utile di Socrate per conoscere, oggi, qualcosa di noi stessi.  Rimbaud, che ha creduto tutto intorno a sée di sé, si tende nel moto del partire. Il suo viaggio non sarà né un' a-scesi, né un itinerarium mentis, né un voyage autour de sa chambre;  quasi a fissare una grande e semplice allegoria, il suo brancolare voyante sfinirà in un viaggio avvolto nel mistero. Il viaggio in Africa, più che un atto di post-letteratura o di ribellione definitivo, non è altro che lo specchio della poesia della discesa agli inferi, del brancolare addosso alle cose e alle persone alla cerca della "salut" nella libertà. "Mon sort dépende de ce livre" ha lasciato detto4.
É un ribelle tipico, dicono, proprio perchè non ha trattato temi nuovi. è vero. Ma come Van Gogh, ha messo -o meglio ha sorpreso- le cose in una luce da cui difficilmente usciranno, estrema, che noi avvertiamo solo a barbagli, confusamente. La luce della "faiblesse". "La cultura europea, ha scritto in un bel saggio su Rimabud Mario Luzi -a cui peraltro rimandiamo il lettore desideroso di seguire in la filigrana delle parentele e delle corrispondenze del poeta della Saison con la situazione poetica italiana ed europea5 -ad essere franchi, sentiva la mancanza di una eresia".
Già Baudelaire aveva mostrato una "enorme capacità di soffrire" (Eliot6), aveva ridato cittadinanza al senso profondo del peccato originale, di quell'entropia o "caduta"  che riguarda ogni "elan" ogni "beauté".
Specialmente in Rimbaud, non si tratta di una morbosa compiacenza del "limite": infatti, quanto più  è acuta la percezione di una "salut" promessa dalla vita (il festino della giovinezza), tanto più la mancanza di energia per raggiungerla  è vissuta come pulsar o buco nero, come "il" problema dell'esistenza (essere "un negro", una razza inferiore, vittima di uno "straziante infortunio").

L'INFERNO DELLE UTOPIE

In Rimbaud questa "malattia della volontà"  è all'origine dell'inferno, mina ogni utopia: l'inferno di Rimbaud non  è "strictu senso" l'inferno cristiano, semmai il contrario,  è non-cristiano,  è l'inferno di ogni presunto paradiso ottenibile grazie allo sforzo morale, sensuale, intellettuale e religioso. Il paradiso (e l'inferno) cristiani dipendono invece dall'esito di un incontro con la Grazia, di un incontro misterioso con Qualcuno che non proviene da un'iniziativa umana. èun incontro di cui in tutta l'opera rimbaudiana non c' è traccia, essendo il Cristo che ha conosciuto "un suocero", "nato insieme a M. Proudhomme", una specie di "dichiarazione della scienza" che autorizza l'uomo a fingere, ad aver maschere.
Eppure, paradossalmente, l'inferno di Rimbaud, come scrive in "Mattino", "era davvero l'inferno; l'antico, quello di cui il figlio dell'uomo aprì le porte". L'inferno  è una delle questioni fondamentali nella concezione cristiana dell'uomo: indica, infatti, che la salvezza dipende dalla libera  risposta dell'uomo all'incontro con Cristo, alla chiamata della Grazia. è così esaltato al massimo grado il valore della libertà (che in Rimbaud  è termine non disgiungibile da "salut"). L'inferno rimbaudiano  è una situazione dove si sa che esiste altrove un "destino di felicità" e tuttavia manca la chiave, la via (la verità in anima e corpo) che ad esso conduce. Solo che  è un inferno in terra.  è l'inferno delle utopie (il fallimento dei paradisi in terra).7 Prima di tutto  è l'inferno della utopia rivoluzionaria a cui il liceale Arthur aderi' (quel "changer la vie" nella Saison non è politico). è la faiblesse che perturba ogni amore, lo perverte lo fa sfuggire. è la mostruosità che ammala la civiltà, facendo apparire e sparire il lavoro come verità dell'esistere umano. Che indebolisce la coscienza, sfuggente alla scelta imposta dall'albero del bene e del male, ridotto alle spalle come arbrisseau, quasi fantasma spettrale. è la faiblesse dell'uomo occidentale che sogna di evadere o verso un immaginario Oriente, verso un cristianesimo ormai quasi impossibile perchè rovesciato da nuovi scribi e farisei in "disincarnazione" (e che, pur così ridotto, esercita una ripulsione pronta a volgersi in confuso e forte fascino) o verso "festino di mille colori" della vita bloccata all'infanzia.
Il sogno di Rimbaud  è la "forza". Sono "forti" quelli che ritornano dall'Africa. Forti sono "i santi" "gli anacoreti". O il "forzato intrattabile", l'ergastolano che guarda con occhi di condannato il mondo e ha solo sè stesso "a testimone della propria gloria".
"L'inferno, scive il poeta nella Saison,  non può toccare i pagani": questo  è l' inferno in cui si trova l'uomo che vive una religiosità ancora segnata dal cristianesimo, ma che non  è cristiano,

IL BATTESIMO, LA SCHIAVITÙ, LA NOSTALGIA.

Una vertigine, dunque un viaggio, un moto che non conduce da nessuna parte, sfuma nel mistero. Esso rovescia tutte le maschere della cultura europea. La Bellezza, ad esempio, diviene qualcosa di ingiuriabile. Non se ne canta, si badi,  la fine o la "morte", né la sua trasfigurazione in "altro" come si piccano di fare noiosamente le autonomantisi avanguardie di ogni secolo; si dice, semplicemente, che la si può "ingiuriare". Il suo riconoscimento dipende, cioé non da uno stato di grazia ma da un atteggiamento morale. E la si può trovare "amara" – che è il gusto della bellezza senza verità. Essa resta "la Bellezza", quasi resistendo, vestigia di sé medesima, alla propria smentita, terribile compagna sulle gambe del poeta, istruito sui banchi intorno alla estetica solare  dei classici. Anch'essa  è toccata dal virus dello sguardo del poeta: alla vista di Arthur essa si presenta come un fantasma, occorre essere ben più in là voyante, sregolando ogni misura dei sensi – il che non è detto per forza in direzione della confusione (quella confusione in cui  continuamente, soffertamente e con straziata ironia il giovane maudit discese)- ma dovrebbe essere  qualcosa di simile al déréglement  dei santi. Un deréglement  forse simile a quello provato da Leopardi dinanzi "Alla sua donna". L'atteggiamento morale che coglie il vero del bello (ne  è riprova il gusto)  è l'attesa, la disponibilità e la tensione dinanzi all'apparire di un segno. Rimbaud si muove, di fatto, entro un estetica di tipo religioso, che però ha ben provveduto a spogliare di ogni sicurezza e di ogni automatismo. Ha ragione Claudel quando parla di una "inflessione" più che di una "voce" o men che meno di una "Parola" come di ciò che ha mosso la poesia di Rimbaud, o quando sente la sua "prosa meravigliosa" impregnata "come il legno morbido e asciutto di uno Stradivari, di suono intelleggibile"8.La poesia della Saison  provvede a bruciare ogni retorica: qui non c'è più diaframma -come ben nota Luzi- tra le parole e le cose o -come segnava Valery- si tratta di "uno scambio perpetuo fra psicologico e fisico ossia / visibile con gli occhi. Visibile fuori, visibile dentro"9
La Bellezza non  garantisce la purità, la salut, a nessuno. Il Diavolo è bello (non è una novità, leggasi le cronache dei monaci), nulla è puro, la purezza non è appannaggio di nessuno,  è una conquista di ogni istante, dunque un dono, perchè allo sforzo umano sta di preparare le condizioni a uno stato di purità che solo Dio può far emergere, appartenendo a Lui solo.
    Rimbaud guarda il mondo (quel mondo da cui l'umanismo e il razionalismo avevano cercato di togliere ogni senso di dismisura) con la mente del  "forzato intrattabile su cui sempre si richiude l'ergastolo" (e non sarà un caso che il più rimbaudiano degli scrittori italiani, l'amantissimo Testori, diceva che la vista di un ergastolano fu l'episodio che maggiormente segnò la propria giovinezza). Il mondo consegnato dall'umanesimo alla modernità  è un ergastolo (a volte gradevole, ma solo per i più fortunati). Questo modo di sentire il mondo  è frutto di una particolare eredità: "genitori, voi aveste fatto la mia disgrazia, e la vostra – io sono schiavo del mio battesimo". Rimbaud avverte nella propria natura, sulla propria carne il segno (il battesimo) di un'appartenenza a qualcosa di misterioso e di grande ("non sono prigioniero della mia ragione. Ho detto: Dio") che però  è, di fatto, sconosciuto. Bestemmiato o invocato, ma sconosciuto, lontano. La vicinanza di Dio al mondo, compiutasi con l'Incarnazione,  è vissuta dal giovane a cui  è stato presentata in modo soffocante e riduttivo, come la vicinanza di un "suocero". Perciò il segno del battesimo  è avvertito, inevitabilmente, come una schiavitù: chi  è buttato senza forza e senza possibilità di salvezza nella prigione di questo mondo, avverte l'appartenenza a qualcosa che non  è di questo mondo come fonte di una nostalgia insopportabile quanto una schiavitù. Una nostalgia-padrona, totale, che fa letteralmente imbestialire. Tolto Cristo (intuì confusamente Nietzsche)  ciò che si eredita dal cristianesimo  è  l'essere di una  "razza inferiore", un "negro", inabile a trovare e a sperimentare "la libertà nella salvezza", un uomo che in assenza di un Dio presente, deve "tutto alla dichiarazione dei Diritti dell'Uomo". La più acuta sofferenza Arthur non l'avverte per la greve educazione subita  (a cui del resto, si rivolge ben presto in modi franchi e disinibiti)  bensi' per l'impossibilità del "viaggio": sa di non essere abbastanza forte. è più onesto di Nietzsche, e meno filosofo.

IL PROBLEMA è IL PRESENTE.

É una vertigine che azzera tutta la sapienza occidentale. "Se almeno avessi degli antecedenti in un punto qualsiasi della storia di Francia.
Ma no, niente."
La azzera non con una spinta strepitosa di critica culturale, nè con una rivoluzione politica, ma con il sangue leggero di un'adolescenza.  Adolescenza che  è sempre la naturale forza di crisi più energica.
É liquidata anche la memoria, quella storica, quella artistica – liquidato Proust e il suo marchingegno. "Se a partire da questo istante  (il mio spirito, n.d.r) fosse ben desto, saremmo arrivati alla verità, che forse ci circonda con i suoi angeli in lacrime!" Il problema non è riandare a un passato personale e collettivo ormai insignificante, ma essere desti: il problema  è il presente. "Considerate il suo più magico effetto -scrive Mallarmè in pagine che mostrano un po' di disagio dinanzi a Rimbaud- prodotto dall'opposizione d'un mondo anteriore al Parnasse, persino al Romanticismo, o assolutamente classico, col sontuoso disordine di una passione non sapremmo dir altro che spiritualmente esotica"10.
 In quest'ottica la scienza, la garante delle umane sorti progressive, non è "semplicemente" contestata: certo, essa è il "viatico" moderno per il corpo e per lo spirito, è "il progresso!" – "Geografia, cosmografia, meccanica, chimica!…" sono "i divertimenti dei principi,  e i giochi che essi proibivano!" dati in mano alla razza inferiore. è un ironia feroce: "«Niente è vanità; alla scienza, e avanti !» grida l'Ecclesiaste moderno, ossia Tutti.". Ma il cuore della critica rimbaudiana è: "la scienza è troppo lenta.". Nella stessa pagina ove esorta il proprio spirito alla veglia per arrivare alla verità ("L'impossible") dice: "Ah! la scienza non va abbastanza in fretta per noi!". Cioé non va abbastanza in fretta nella ricerca che ci interessa, a veder se ci è "plausibile possedere la verità in un anima e in un corpo" – la verità intorno a noi stessi.
Uscendo il clima e le definizioni della poetica romantica (in cui era rimasto per tutta la prima parte della sua produzione) e veggente (il "dio" Baudelaire aveva già scritto Les Fleurs du Mal,  aperto da "Corrispondances") Rimbaud procede in un tipo di critica allo spirito scientista molto più acuto di quello che da un poeta romantico ci si potrebbe aspettare: non ne accusa solo la riduzione utilitaristica dell'agire umano, né solo la mitizzazione. Afferma che essa va con passo troppo lento nella ricerca che piùconta; afferma, cioé, una deficenza di tipo metodologico del  procedere scientifico, una differenza di passo rispetto ad altri metodi di avanzamento verso le evidenze della verità.
É una critica al razionalismo scientista che esce dai normali schemi del dibattito europeo: non va ad arenarsi in una posizione "di principio" (o estetica) a favore o contro; nemmeno si dà alle torsioni cui si dedicarono alcuni poeti del successivo evo positivista e neo-avanguardista per sovrapporre i ruoli e i linguaggi (si pensi al nostro Pascoli, così annichilito dinanzi al mistero del cosmo da giungere a predicare la poesia come ciò che  della "scienza fa coscienza"); e nemmeno separa lo "scopo" ultimo della poesia da quello della scienza, non ne divide le avventure. Dice, con aperta ironia verso l'idea stessa di progresso: la scienza "va troppo lenta per me".

UNA DOMANDA, PER RICOMINCIARE SEMPRE
L'oggetto della ricerca rimbaudiana è l'io. Non si toglie dalla vena centrale della ricerca occidentale. La percorre senza lasciare intatta nessuna delle sicurezze interpretative sulla vita affermate fino ad allora dal sapere.  Egli avverte in sé il limite  della cultura imparata a scuola, quella data in famiglia  -non sente antecedenti. è un moncone che cerca di riafferrarsi: in questo è simile, molto simile ad ogni attuale dicissettenne europeo. Non sa cos'é la sua nazione, non sa cos'é l'amore (come ha scritto Bonnefoy), Cristo è percepito come un "suocero", immagina il proprio riscatto in diverse mascherature,  tende a mescolare tutto, tutti i piani del discorso e del valore, è "faible". Ma Rimbaud, diversamente, sa di provenire da qualcosa che non capisce più (il battesimo), sa che c'é un viaggio da tentare, un grido da levare, perché cosi' non va non può andare, sa che dev'esserci ancora "qualcosa" da recuperare/scoprire –  anche se il viaggio da "bateau ivre" è destinato al perpetuo naufragio, ricordando  della cultura d'Europa solo gli "antichi parapetti", anche se non riesce a spiegarsi "meglio del mendicante con i suoi continui Pater Ave Gloria"…
 E' un poeta che ci può aiutare a recuperare alla fine di questo secolo (e sempre) quell'unica posizione giusta che sta all'inizio di ogni azione e pensiero non dis-umani: riconoscersi -un riconoscersi che non  è beghinaggio, ma vera e profonda conoscenza- bisognosi.
Scriveva, quasi anticipando un ultrasuono pavesiano: "Ma non una mano amica! e dove trovare soccorso?" -ponendo, come ha scritto uno dei suoi più larghi lettori, un possibile "segno di alleanza"11

                    Davide Rondoni

 
 
 
Note:
1Com'è noto Rimbaud pagò la pubblicazione del suo libretto.
2cfr. L'introduzione ai "Fleurs du mal" di C. Baudelaire che ho proposto per queste stesse edizioni.
3Giuseppe Frangi, Arthur Rimbaud, in I grandi della cultura rivisitati, Quaderni di Litterae Communionis,1984.
4Del resto, il suo combattuto "amante" Paul Verlaine scriveva nel suo Poètes Maudits (1884) a proposito dell'abbandono della poesia da parte di Rimbaud: "sappia (Rimbaud) che non dubitiamo che sia, quest'abbandono sia per lui logico, onesto, necessario".
5M. Luzi, Nel cuore dell'orfanità. Introduzione ad Arthur Rimbaud, Opere, Einaudi,
6T.S. Eliot, Baudalaire, in L'uso della poesia e l'uso della critica, Bompiani 1974.
7Anche J.Rivière sostenne che l'inferno di Rimbaud è esattamente la terra, ma nel poeta-personaggio egli identifica "l'essere perfetto" e nella Saison  "il tempo che l'essere senza peccato trascorre qui da noi". Tale visione apre una prospettiva "gnostica" alla lettura dell'avventura di Rimbaud, ma non sussistono nei testi della Saison  motivi per giustificarla. L'immagine dell'"angelo in esilio" coniata da Verlaine può essere suggestiva, ma non sembra corrispondere all'autocoscienza espressa dal poeta.
8P. Claudel, Prefazione, in Opere, Mercure de France, Paris 1912
9P.Valery, Pré-Teste, catalogo dell'esposizione Univ. di Paris 1966, in Opere, Mondadori,1975
10S. Mallarmé, Lettera a M. Harrison Rhodes
11Y. Bonnefoy, L'alchimista del verbo, Introduzione alle Opere, Mondadori, 1975

 

Forl

Come si fa a scrivere di un posto come questo? Come si fa a scrivere di qualunque posto? Le parole non ne vogliono sapere di scendere dal grande traghetto. Non si sparpagliano sul luogo, non vanno ai loro posti, non si mettono ad afferrare date, citazioni, cognomi illustri…Se ne stanno dietro la ribalta chiusa del loro gran traghetto o camion che a me pare di vedere, al misterioso mezzo adibito al trasporto da cuore a cuore e da pagina a pagina della mente e del mondo. Non scendono, stan lì. Attendono, occhieggiano, come bambine ferme sulla corriera. Il luogo che le parole dovrebbero “dire” è così più vasto e così più profondo, così più alto e così più basso di quel che riuscirebbero a far sentire…Verrebbe solo da ripetere i nomi: Forlì, Forlì, Forlì, Forlì, Forlì…quasi perdendosi nella ripetizione, nell’insistenza di quell’accento dolce, posto alla fine di un breve addolcito soffio che risuona in un accenno di rotolìo… come l’acqua di un torrente o un richiamo d’amore. Forlì, Forlì, Forlì… come a qualcuno da pregare che si fermi, che resti qui… Una sosta sulla gran via della storia. O Cesena, Cesena, Cesena, Cesena, Cesena… con la dolcezza femminile di una terra aperta verso il chiaro del mare, dove è caduta, tagliata (cecidit) una aspra selva per far luogo a una terra dolce, con all’inizio delle labbra un poco di polpa di frutta. Come il nome di un sogno che sta finendo, e senza paura.
Verrebbe da ripetere i nomi fino a scoprire che forse hanno una magìa dentro, e che, ecco, lei magìa, finalmente dice quel che c’è da dire sul luogo… Si, ho il sospetto che la ripetizione del nome ci porterebbe dentro allo sperdimento magico che caratterizza, quando li si osserva davvero, questi posti. Dunque, più che prefatori di una guida turistica che più seria di così non può essere, saremo strani sciamani? Ma come avvicinarsi altrimenti a questa zona che anche oggi nella trafila dei capannoni, delle strade e dei campi, tiene alto e presente un suo segreto? Come avvicinarsi a Forlì, a Cesena (sì, ripetere ancora…), se non affilando uno strumento di ascolto più che naturale? E come guardare le auto in coda sulla Via Emilia, o i manifestini funebri coi nomi di Veris, di Vidmer, Ada, di Firmato, di Secondo, di Amelia oltre ai nomi di tutti, o le facciate delle case su cui affacciano donne dal fianco largo e dal viso aperto e capace di ombre? Rimormorare i nomi. Quelli dei luoghi particolari, e quelli delle persone. Dei cari, certo, ma anche di quelli visti una volta sola. Ripeterli, rimasticarli. Manducarli, ruminarli, mentre rilasciano i loro segreti… Come la gran chiesa di san Mercuriale, pezzo forte di Forlì, che, leggerete, non si sa nemmeno per chi l’han fatta e chi diavolo era questo santo Mercuriale, forse un cacciatore di draghi.
Molti segni, come ad esempio la poesia del Pascoli, che nacque proprio tra Forlì e Cesena, confermano quanto la passione e i diversi fuochi che accendono l’animo e il corpo dei romagnoli abbiano radice in una specie di “saseria”(da pronunciarsi con la “s” dolce), di disposizione allo smarrimento, al vaneggiare se non ad una speciale quasi allucinazione. O se anche volete lasciar perdere la poesia e Pascoli e tutto il resto, basta che entriate in un bar, magari a mezza mattina o a mezzo pomeriggio. E vedere chi c’è e come si sia in una zona “altra”.Tra qui e Milano ci dev’essere una faglia, Roma è su un altro pianeta, Torino la si vede forse con il telescopio. Dove siamo finiti? Anzi, dove siamo nati, dovrei dire?
Un mio amico, famoso regista bolognese, mi ha detto che la Romagna è una specie di terra promessa dell’Emilia. Come se da queste parti potesse finalmente finire l’esilio di una durezza, di una quadratura, di una astuzia commerciale che, mischiate ad altre sicure doti d’industriosità e di simaptia, affliggono i nativi da Castel san Pietro in su, verso Bologna, e oltre, tra Modena e Piacenza. O finire l’esilio di quelli che più a sud conoscono il troppo dell’asprezza fiorentina o della delicaterìa marchigiana. Questa è una terra sempre promessa.
Lo sviluppo del turismo, lungo l’ormai orendo e commovente serpentone di alberghi e di bagni che sotto i vessilli della Provincia FC ha il suo primo epicentro, è dovuto a questa strana proprietà di infinita promessa che ha questa zona. Certo, ha contato l’arte di rendere “affare” una serie infinita di fattori, dal mare alla ospitalità alla stessa famiglia, ma credo che lo sviluppo del turismo sia un segno per quanto stravolto di fine dell’esilio che qui gli emiliani e tutti i forestieri avvertono che potrebbe aver luogo. E ogni uomo in cuor proprio sogna la fine dell’esilio non come uno spento nulla, ma come qui appare il dolce movimento dell'’aria, dei colli, delle diverse macchie del verde. Lo stesso movimento che deve aver incantato Leonardo, che da Ravenna girava per queste terre immaginando per conto dei Signori di Malatesta un sistema di canali che doveva unire Cesena al mare. Realizzò infine solo il bel porto di Cesenatico, ma nella sua sant’Anna, capolavoro oggi al Louvre, il panorama di fondo somiglia a quel che alla luce dell’alba il genio deve aver veduto sui lidi di queste zone.

Forlì e Cesena sono una provincia da poco tempo. Mettono insieme più di 350.000 abitanti, sparsi in 30 comuni dai nomi strani e incantevoli, pieni di rocche e di castelli e di chiese. Le donne sono circa 10.000 più degli uomini, e il matriarcato antico delle campagne rivive in questo dominio speciale esercitato sugli occhi del viaggiatore. La visione delle donne domina. C’è chi dice che in questo tratto d’Italia ci siano le donne più belle del belpaese. Tra gli altri Lord Byron elesse a sua amante una ragazza di qui, prima di andare a morire in Grecia. Ma la gara con altri luoghi dello Stivalone è dura.
“Cesena da cantare, Forlì da ballare” dice un antico adagio. Differenza e complemento. Più ghibellina la prima, guelfa la seconda. Ultima propaggine di longobardìa Forlì, mentre Cesena è più segnata dagli influssi romani e veneziani. Forlì e Cesena sono state unite amministrativamente da un atto recente, quando nacque nel 1995 la provincia di Rimini. Prima Cesena e Rimini erano in provincia di Forlì. La parifica ha creato probabilmente dei vantaggi, ma ancora non ha sopito malumori. I forlivesi in fondo in fondo non la sopportano. Quelli di Rimini sono magari famosi in tutto il mondo per il mare. Quelli di Cesena, secondo loro (noi…), hanno dato due papi alla storia, il Braschi e …., hanno sì la squadra di calcio più importante, hanno un sacco di aziende e una folta popolazione. Ma la storia, dicono i forlivesi, era dalla nostra. L’impero antico, di cui Forum Livii era importante terminale, e anche il fiasco di Impero recente, quello fallito dal concittadino Benito Mussolini, portavano Forlì a una maggior ribalta. Ma Cesena visse il sogno d’esser fatta capitale dai Malatesta, nel ‘500, dopo esser stata rasa praticamente al suolo. Però adesso sta di fatto che sono insieme. Una unica targa automobilistica, e parecchi uffici messi in comune. Le differenze, in realtà, lungo questo tratto di via Emilia sono poche. Al di là delle chiacchiere e delle battute, tra il forlivese e il cesenate, corre una robusta simpatia. Lasciata la Rimini la cui romagnolità è più facilmente riducibile a macchietta in film o comichèrie, e che è da qui sentita già troppo marchigiana, la strada e l’autostrada legano paesi dal nome dolce e strano come Savignano sul Rubicone,  Case Missiroli, Forlimpopoli passando a lato di Bertinoro. Gente con la campagna negli occhi e con l’aria resa mobile perché il mare e la collina non sono lontani. Gente che sa che il mondo è vario. Che la notte sul mare è diversa da quella che ti segue come un magico mantello quando corri sulla E45 nella valle più bella di Italia, da Bagno di Romagna fino alle porte di Roma, Sarsina e altri posti incantati, o deviando verso passi aspri come quello detto del Carnaio. E diversa, più cupa e misteriosa è la notte nell’altra valle,quella del Bidente, che sale da Meldola su per Cusercoli, Galeata e arriva alle asperità sopra Santa Sofia, fino al passo estremo, prima di divallare in toscana, detto del Muraglione .
E’ una provincia che da una parte scende dolce verso la sabbia fine dei lidi di Cesenatico, che conosce le vie piene di biciclette dei posti di mare, chiari, pieni di barche colorate e ora affollati anche dalle nuove e antiche frenesie dei giovani a zonzo la notte con la bottiglia in mano. E dall’altra parte è una provincia che si inerpica in molte direzioni verso Firenze o verso Roma, nei luoghi aspri e dolci di Castrocaro con le sue acque termali, di Predappio, di Premilcuore o di Verghereto. E’ una provincia che stupisce in ogni borgo. E che ha cresciuto tanti personaggi paradossali, e perciò veramente umani, come il santo ghibellino patrono di Forlì, san Pellegrino, come il bandito cortese detto il Passatore, o come il “patron” del Cesena Calcio per lungo tempo, il simpatico e linguisticamente colorito Lugaresi. E dove sono nate imprese solide e famose nel mondo, come la Trevi e la Technogym, poiché qui il lavoro è stato un valore cresciuto dai socialisti, dai laici e dai cattolici. Ora, il crescere in questa provincia di una porzione significativa dell’antico ateneo bolognese, sta portando nuove linfe e nuove aperture. Ed è una provincia dove arte e letteratura hanno dato e continuano a dare buoni frutti, come i numerosi poeti e letterati, da Pascoli a Serra, da Spallicci a Piccari. Io credo che Forlì sia la città più “poetica” d’Italia: vi sono nati o vi hanno esordito un buon numero di scrittori e poeti, grazie a riviste come “La Pattuglia”, “Quinta generazione”, e ora “clanDestino”. Poeti di forti passioni. Lo fu il Pascoli, lo fu quell’Aldo Spallacci, massimo tra i dialettali, che sulla trincea austriaca della Grande Guerra si commuoveva sentendo venire le note di Strass, come risposta al canto della sua “Bela burdela fresca campagnola” intonata dal fante Arduino Giottoli, caduto di lì a poco.
Una terra che ha dato anche dei santi, canonizzati o ancora no, come, nel nostro tempo, il pastore con il nome d’amico, don Pippo, e la delicata fortissima figura di Benedetta Bianchi Porro.
“Cs’el cor se int e cor un gnè una fiama ?
Cs’el mai campè s’un zerca la bataja ?”
E’ una terra dove storia e leggenda si mescolano continuamente. Come in tre episodi segnati tutti da un gesto deciso e di battaglia. Il primo gesto è quello dell'’astrologo forlivese Guido Monatti, che dopo aver scrutato il cielo, diede il segno a Guido da Montefeltro perché compisse, nel 1282, “dei franceschi il sanguinoso mucchio” (Dante). Il secondo gesto è quello con cui Mussolini tentò di metter fine a una secolare diatriba su quale fosse il rivo d’acqua da riconoscere come il celebre Rubicone varcato da Cesare. Savignano sul Rubicone, infatti, non è realmente sul Rubicone. Numerose prove ormai assegnano al fiume Pisciatello, e non al savignanese Fiumicino, la patente storica d’esser il fiume di confine oltrepassato da Cesare nel momento della decisione. E specialmente lo dimostrano le prove portate da un simpatico e battagliero erudito che da queste parti, a Monteleone, ha preso dimora e risponde al nome di Piero Buscaroli, musicologo di fama mondiale, vissuto tra musica e guerre. Ma Savignano, oltre alle numerose glorie culturali che la designarono come “Atene della Romagna” (tra cui un carteggio tra l’Abate Monduzzi e il grande storico Winckelmann) si tiene stretto il “suo” finto Rubicone. Il gesto deciso che glielo assegna è di Mussolini. Nel 1933, in visita alla cittadina e ospite di un suo potente e fido camerata, il Duce da un ponticello in mezzo alla città sentenziò: “Il Rubicone è questo”. Volle così smentire Napoleone che invece aveva seguito altra l’altra ipotesi e ingraziarsi i Savignanesi concittadini del conte Guidi. Tanto è l’orgoglio dei Savignanesi, che con gesto altrettanto risoluto, il sindaco del dopoguerra della cittadina beneficiata, rispondeva al suo collega e “compagno” di Santarcangelo che sollecitava una smentita del Duce anche su quel particolare: “Caro compagno! Mussolini l’era un birichein: l’a sbajè tot, ma in te fat de Rubicòn, l’a vest giost, e la avù ràson lò”.
Il terzo gesto, altrettanto deciso, fu quello grazie al quale i Tedeschi, in ritirata dal fronte della Seconda Guerra mondiale, decisero, dopo averlo già minato, di non far saltare il bel campanile di San Mercuriale a Forlì. C’è chi dice che fu grazie a don Pippo. Ma non s’è mai saputo. E ora, in un mio testo teatrale dedicato alla figura dell' appassionato prete, ho provato a immaginare quel gesto segreto. Così, ancora storia e leggenda continuano il loro corso, confondendosi ma soprattutto illuminandosi a vicenda. E i gesti del singolo, illustre o oscuro, hanno il valore della storia intera. Ne segnano il volto, aumentandone il mistero.

Il viaggiatore che abbia fame troverà ancora fatta secondo la sua origine di pane povero ( e non come spuntino turistico) la piadina fatta con spessore e le tagliatelle di taglio grosso. E chi ha sete troverà persone con una lingua che per designare il vino, qui nel cuore del cuore della romagna, dirà semplicemente “e bè”, il bere. Perché nient’altro è vero bere. Quello che ama le sagre e le feste, potrà aggirarsi nei vari borghi e fare una capatina alla rustida di pesce a Cesenatico. Quello che ama i teatri, vedere il Bonci a Cesena o il gioiellino del Petrella a Longiano, o conoscere le nuove importanti esperienze teatrali della Raffaello Sanzio, la Valdoca o di Elsinor a Forlì. Chi ama la pittura o i libri, farà un giro alla quadreria della pinacoteca di Forlì, dove la visione dei due quadroni di Guido Cagnacci, con i suoi santi in gloria con il volto sfumato si imprimerà per sempre. In questi due quadri dove regna l’azzurro (“gloria di san Mercuriale” e “gloria di san Valeriano”) si mostra tutta la dolce tempra del focoso e discusso pittore romagnolo, che per varcar legalmente i confini mascherava la sua donna da ragazzo assistente. Renato Serra, critico inquieto del nostro primo novecento, ha legato il suo nome alla biblioteca malatestiana a Cesena. Il viaggiatore affamato di architettura potrà trovare sperduti incanti di costruzioni romaniche, barocchi fastosi e anche la oggi rivalutata arte edificatrice degli anni ’30. O rimanere incantato, sulla strada di Sarsina, alla vista di un magnifico monumento sepolcrale di età augustea. O, ancora, potrà ammirare la Rocca di Caterina Sforza, dove nacque Giovanni dalle Bande Nere, e che vide la resistenza di Caterina contro il Duca Valentino nel 1500. Lei, adibendola a propria dimora, la ribattezzò “Paradiso”. Oggi, per uno dei misteriosi cortocircuiti della storia, la rocca che ebbe quel nome è sede del carcere.
Chi ama la storia e ama le tradizioni troverà Accademie di vivaci eruditi, Trebbi di poeti e raccontatori, e anche il Tribunato di Romagna, con il proprio organo ufficiale.
Il viaggiatore senza interessi precisi troverà come perder tempo, svagando tra un bar e un chiosco, trovando balere di ogni genere, e gare sportive.

Dicevo all’inizio di un fuoco “saso” che sta alla radice del temperamento di questa provincia. Si dice a ragione che i romagnoli di qui, centro della Romagna, siano tipi focosi, in molti campi. Il “murbio”, contrario di uomo forte di passioni, è il tiepido che Dio, come dice la Bibbia, vomiterà alla fine dei tempi. Ebbene, non credo sia un caso bensì una splendida trovata di Dio il fatto che la Madonna protettrice sia di Cesena che di Forlì  (ognuna con la propria cupola di gloria dipinta, la prima dal rococò meridionale di Corrado Giaquinto, la seconda dalla morbidezza del Carlo Cignani) sia in quest’ultima venerata come Madonna del Fuoco. Scampò quell’immagine ad un incendio. Ma è una protettrice adeguata nei fuochi di ogni genere. In quelli che avvampano l’amore e in quelli che avvampano il dolore. Nei fuochi dello sperdimento e della gioia, nel fuoco duro della solitudine e in quello bianco della gioia. Così che viene da dire, tornando al silenzio delle parole dell’inizio di queste poche strambe pagine: noi ci mettiamo il nostro fuoco, tu, Maria, ragazza, mettici il tuo sguardo, la tua protezione. Anche in questa piccola provincia, in questa grande terra.

Cosa ha visto Claudel

Cos’ha visto Claudel per essere così vivo, contraddittorio, inattuale?
Cosa aveva visto questo poeta che ebbe fama e che però anche in vita fino a 75 anni non prese soldi per le sue commedie? Cosa aveva visto da gettar la vita in quella furiosa e sterminata opera di scrittore e drammaturgo?
Cosa aveva in bocca da avere una lingua francese così fastosa, così da rosone romanico e così densa che il poeta africano Leopold Senghor quando parla –lui africano dell’europeissimo Claudel- dice che da quel poeta apprese la “ganga”, uno strano composto, come trovava nei migliori poeti del suo continente.
Cosa aveva visto quest’uomo così da sopportare ed esibire la ferita ? Quanto parla di sé e quanto si nasconde.
Come se avesse paura, e però non avesse nemmeno più niente da perdere. Come se fosse uno che ha paura, sì, di mostrarsi. Perché non sta bene, non è decoroso. Ma al tempo stesso sa –perché lui conosce bene se stesso, e la propria ferita- che non ha niente da perdere.
Il nipote in una recente intervista dice che di certo il suo grande nonno aveva paura della follia.
Sapeva di essere come la sorella Camille. Non chiamiamola follia. Chiamate come vi pare quel perdere il controllo di sè. Quel’esser toccati da qualcosa che nessuno, nemmeno chi lo è, capisce.
Un poeta che ha voluto perdere la vita per salvarla, ha scritto Ennio Francia. Ma perché. Cosa aveva visto.
Così da parlare d’arte come nessuno ne parlava e ne parlerà più. Come se l’arte esistesse non per piacere ma per dare gloria a Dio. Andava controtempo. Lo andò a sostenere non nella vecchia Europa, ma nelle conferenze negli Stati Uniti.
E molti anni prima che lo dicesse un poeta oggi ben onorato che veniva dall’Inghilterra e volle vivere negli dagli Stati Uniti, W.H. Auden, capì che il vertice della poesia è la lode per l’esistente. La religione permette la lode che è vertice della poesia.
Cosa aveva per accanirsi con tanta insopportabile certezza contro il divorzio tra fede e immaginazione, vedendo come esso viene da eresie a-carnali, da impoverimenti della carne (lui sapeva cosa era la carne! Quella che si appassiona e quella che si ammala, quella che è gloriosa nella scultura di Camille, e quella che contrae diversi generi di lebbra). In quelle lettere a Changria come se la prende. Come azzecca l’obiettivo. Pietro di Craon, il protagonista vero insieme a Violaine dello splendido Annuncio a Maria,  non è un giansenista. Pietro, il lebbroso artista, colui che non ha casa per sé ma costruisce case per il popolo, le cattedrali, dice di sé: sono un uomo che non vive al livello degli altri. E’ una strana verginità. Claudel è Pietro di Craon. Entrambi sanno cosa è la ferita di una lebbra e cosa è la creazione di una casa per il popolo. Una casa di parole. Di teatro. Una casa di figure. Non meno concreta di una cattedrale.
Figuriamoci se Bo, il sincerissimo e tristissimo Carlo Bo poteva capire Pietro di Craon. Gli spiritualisti spesso diventano cristiani cupissimi. Ma Claudel era cresciuto nella fiamma di Rimbaud. Ne doveva essere l’esecutore testamentario, in sede legale. Ma non ne volle sapere. Ne volle essere un altro genere di esecutore. Ci sono luoghi, molti luoghi, delle opere di Claudel che hanno la stessa forza di Rimbaud. Nessun altro in Francia ha avuto la stessa forza mai. Volle essere l’esecutore di chi aveva scritto che il fatto di dover andare a Dio attraverso lo spirito era uno straziante infortunio! Claudel non credeva al rapporto con Dio come a un infortunio della propria umanità. Lo aveva scritto: mi sono convertito perché io sono io e Lui è Lui. Come dire: nessuno dei due con niente in meno di quel che è.
Un delicato poeta italiano, Sandro Penna, tradusse “Presenza e profezia”, un volume di interventi claudeliani. Tra quelle pagine, il poeta insiste: il tempo del Verbo è solo il presente. Dio incarnato non è un ricordo, né un’aspirazione. Così come il desiderio umano sopporta e si declina solo al tempo presente, così il Verbo di Dio è solo al presente. Sempre.
Perché Lui era Lui e io ero io.
Cosa aveva visto, dunque, quest’uomo tra i migliori di Francia, tra i più accorti e stimati ? E tra i più odiati e irrisi ? Aveva letto molti libri, ma sapeva con Mallarmè che la carne resta ugualmente triste se pur li leggi tutti.
La cultura l’aiutò. Anche il mestiere di ambasciatore l’aiutò. A che cosa ? A sostenere quel che aveva veduto senza impazzire. La cultura gli dava piste, spunti, vie e praterie da percorrere. Ad esempio l’origine dell’invenzione dell’Annuncio è nella storia di una mistica medievale tedesca il cui seno rifioriva. Non c’è forse un desiderio più carnalemente, più vitale,  più generoso, e più strano che il rifiorire di un seno. Non c’è in fondo desiderio più fisico che il poter continuare a darsi, e a far crescere.
Cosa aveva visto per immaginare la propria arte e per desiderare il proprio amore in tale modo ? Cosa aveva sperimentato Claudel ? Non si tratta di passare in rassegna i veri o presunti misteri della biografia di Claudel. Non è interessante chiarire le dinamiche di quelle vicende, persino penose, o chiarire le pieghe di certe sue storie come se fosse un romanzetto. Più interessante comprendere, prendere con sé, quel che ne emerge, come visione, come opera. Ad esempio, il dramma dell’amore dell’Annuncio. Ci lavorò quasi tutta la vita. Anche Rossellini avrebbe voluto recitarlo. Andò a trovare il poeta con Ingrid Bergman. Non lo fecero, e a loro dispiacque. Ora non lo fa quasi nessuno. Quando lo si fece, qualche anno fa al Meeting di Rimini, ad opera di Elsinore e di Antonio Sixty, Carlo Bo, sul Corrierone, si premurò di avvisare che era un’operazione vana, dannosa. Quel testo ha una struttura a incrocio, a scontro, come ha ben illuminato don Giussani, morto proprio ieri, caro amico e padre, uno di coloro ai quali Claudel –bandito dalla critica ufficiale, anche da quella cattolica- ha ancora qualche udienza e nuovi lettori. E’ lo scontro e l’incrocio dell’esperienza dell’amore come calcolo (in Giacomo, in Mara, in Elisabetta) e dell’amore come gratuità (nel peccatore Pietro, nella gioia ferita di Violaine, nella magnanimità di Anna Vercors). E’ lo scontro nella carne del poeta. E nella sua mente.
Cosa aveva visto Claudel per parlare così adeguatamente dell’esperienza dell’amore, per vedere che non è la tenerezza, ma la generazione la vera natura dell’amore ? Cosa aveva toccato ?
Come aveva fatto a comprendere che dal sacrificio, come in Violaine, cresce l’amore che dà nuova vita, e che anche nel bene può nascere l’invidia mortale ?
Cosa aveva visto quest’uomo dabbene e mostruoso, questo poeta cristiano ?
Aveva visto che non basta voler bene da morire. E che però, sì, occorre morire per ciò che si ama. Ma occorre, infine, voler così bene da risorgere. E non era nelle sue forze, non era nelle sue forze amare così. Perciò di quell’amore parlò per tutta la vita. Ne parlò come di un miracolo. Che doveva aver visto. Di cui era certo. Era la sua conoscenza e rinascita: con-naitre,  co-nascenza.

Commento al cantico di Francesco

E’ un testo di fondazione della nostra letteratura, e anche della nostra sensibilità. O forse dovremmo dire lo era. Molta dimenticanza, molto abuso, molta lettura banalizzante si è posata su queste parole. Eppure, a riprenderle, ancora come ci esplodono negli occhi. Come incidono il cuore sotto le corazze. Dopo la “ouverture”, che è alta, magniloquente, a voce piena, inizia la serie dei motivi di lode. Una successione tuttaltro che schematica e senza modulazione di voce e intensità.
Sulla composizione di questo testo c’è discussione. C’è chi lo vuole composto in tre tempi da Francesco, tra il 1224 e l’autunno del 1225. Altri studiosi non assecondano questa partizione. In ogni caso il testo appare compatto come ispirazione e tono generale. Frate Francesco si raccomandò ai suoi frati di cantarlo alla fine delle loro predicazioni. E lui stesso lo intonò più volte, sentendo avvicinarsi la fine della sua vita. In particolare, pare che la parte dove si fa riferimento alla capacità di perdonare, su cui torneremo dopo, fosse originata dalla riconciliazione ottenuta grazie alla mediazione del santo tra il Vescovo di Assisi Guido II e il Podestà della città, Oportolo.  Mentre il riferimento a “infirmitate et tribulatione” fosse un cenno alle sofferenze patite dallo stesso Francesco per l’aggravarsi della malattia agli occhi e per i topi che lo tormentavano a San Damiano, dove restò cinquanta giorni.
Il “cum” della seconda lassa è anch’esso un elemento discusso, segno della vivacità del suo significato. Infatti può voler dire “insieme a” “tucte le Tue creature”, oppure “a motivo di”, o anche “attraverso”.  Così anche il “per” può avere varie sfumature di significato. Le fonti biografiche riferiscono dell’intenzione di Francesco di comporre un canto per lodare il Signore “nelle” sue creature, e questa intenzione qualifica in modo evidente il significato principale del testo. Che noi ormai diamo quasi per scontato. E che eppure contiene una dose alta di esplosivo intellettuale e morale, allora come oggi.
C’è in questa Laude il segno della diversità di Francesco rispetto, ad esempio, alla quasi coeva eresia catara. Essa sosteneva, in sintesi, un disprezzo del mondo terreno in quanto preda definitiva del male. Solo il distacco totale dal mondo, ottenuto attraverso una dura purificazione,  secondo i catari, era la strada per la salvezza. Qui Francesco invece invita a lodare e a ringraziare Dio per il creato. Che è fratello dell’uomo, e non da disprezzare. Fratello, ovvero pari.  Segno della gloria di Dio. Siamo anche lontani da un panteismo facile e di moda, che oggi tende a eliminare nella natura la sua componente di dramma (al pari di quanto accade nell’uomo) tra male e bene. Le rime tra “vento”, “sostentamento” e le altre che sentiamo sono, come sempre in poesia, come i piloni che sostengono l’andare della autostrada. Anche quando non sono visibili, esse portano lo svolgersi del testo. Anche l’uso della paronomasia (parole simili ma con significato diverso: utile-umile) ha una funzione anche ritmica.
In questo grande teatro del mondo, motivo di lode a Dio, entra in scena anche l’uomo. Trovo straordinario, magnifico e inquietante, il fatto che l’uomo compaia in questa scena con una facoltà precisa, tra le tante a cui poteva far riferimento il santo: e invece è il perdonare, è quello il segno inizialmente distintivo dell’essere umano: sa perdonare.  In ciò sta la facoltà e la grandezza vera di una presenza umana…Se degli altri elementi presenti nel creato, si lodano la bellezza e l’utilità, dell’uomo si registra un altro genere di cosa, a un altro livello, morale. Gli studiosi si interrogano ancora su questa volontà di Francesco di identificare il “proprium” dell’umano nella capacità di perdonare. Qualcuno sostiene che la seconda parte del Cantico sia leggibile più sotto il segno della tristezza invece che della esultanza come l’avvio.  
Al di là dei motivi di ispirazione, credo sia una grande trovata mettere in scena l’uomo, nel gran teatro dell’universo, come colui che si distingue per una capacità che nessun altra creatura possiede: il perdono. E’ un uomo colto al centro di un dramma personale e  universale. Un uomo che sopporta, che in nome del bene è disposto a sopportare molto. E che perciò avrà la “pace”:
La celebre dizione di “sorella morte” fiorì, secondo i racconti biografici, sulle labbra di Francesco quando fu avvisato dai medici che gli restavano poche ore.

“Sia benvenuta sorella morte!” pare abbia esclamato a quella notizia.
E abbia deciso di inserirla nel testo. Un’opera dunque, dove forme tradizionali, freschezza di invenzione e intento pubblico si mescolano con degli elementi della biografia. Sta parlando di sé e per sé, il poeta santo. Sta mettendo a fuoco, definitivamente, il senso della sua “letizia”.
Come detto all’inizio, non è un cantico ingenuo. Non lo è per diversi motivi. La personalità di Francesco era forte e decisa, tuttaltro che riducibile a un ritratto a pastelli, come vuole una interessata vulgata spiritualista.  E il santo aveva cultura e conoscenza dei modi della retorica e della letteratura del suo tempo. La forte influenza dei Salmi è assunta in modo cosciente e ben oltre il semplice calco di stilemi.
Come diceva già Paul Claudel nei primi decenni del Novecento, oggi sembrerebbe impossibile una poesia di “lode”. Una voce, prima ancora che un genere, che pare precluso alla lingua spezzata dell’uomo di oggi. Eppure, leggendo questo testo e vedendo l’intima filigrana di drammaticità personale e conoscitiva che lo anima e muove, viene da pensare che la lode è ancora possibile, e che è possibile impararla ancora.