Forl

De vez en cuando apareces
sentado en tu bar
delante de la estación.
                   Igual que en aquel entonces
no tienes nada que decirme,
todavía es sólo aquel saludo.
                                            Pero ahora sé
de qué eternidad provenía
y por qué el corazón se sobresaltaba.
                                                    Tú, gran padre
me has dado tiempo
fuiste el primero en mostrarme
en el horizonte la fuga y la unión
natural del cielo y de la tierra.
No tenías mi millón
de palabras, pero sabías darme
aquella señal, ni siquiera la sonrisa
donde la sangre reconoce
su lejano paraíso.

Grazie a te

Grazie a te
essere come l’albero solitario
sulla linea della collina

che aperto fa vedere
come gli viene alle spalle
il grido del cielo

Con te amore mio
sento finalmente il canto
che mi farà morire

Come manchi tu

Come manchi tu
non manca niente
di ciò che ha nome.

Ma questo silenzio sofferente
che sembra inghiottire ogni cosa
mi rivela che tu manchi
come la gioia
che nessuno sa chiamare.

Da Compianto, vita

I

Ho fermato il mio camminare –

E si è fermata la città.

Mi si è fermata addosso. La sua
luce
si è fermata.

E sono restato là,
come uno può restare

vedete, là

davanti al buio di quel porticato
in quel nero dove passano coppie, piccoli
gruppi di persone, o uomini solitari se ne vanno
e vengono, e in quell’andamento, in quello
svanimento sembrano le ombre
del cinema.

Forse sono sogni…
e nel buio dei portici chissà dove stanno andando
si perdono le voci, si spengono
le risa, e i nomi
i nomi che qualcuno sta chiamando…

Giovanni! Maddalena! Maria!

Prima Bologna mi girava intorno,
camminavo, andavo
e lei mi guardava
dai suoi palazzi, dalle vetrate
donne che traversano
le luci dei negozi, guardie giurate
e autisti
fermi sulle strade,
bambini che scompaiono come gli anni
nei portoni, i corpi tristi
disegnati a matita
sui grandi autobus smarriti nel traffico
come elefanti nel circo
e certe impossibili signore, il ragazzo
che barcolla nella luce
quella luce livida, di orrore – –

Bologna come girava!

io andavo, tu andavi, poi si resta
a volte a guardare cosa va via nel buio dei portici…
Ecco, i cortei, quelli di protesta, ma anche quelli
di festa,  avanzano, quelli per Carlo V
imperatore, quelli per l’amore,
apre le finestre su quella nuova la città antica
c’è l’erba buona e anche il loglio mai vinto,
i soldati morti di fatica
i mercanti che hanno il corpo
e anche la testa come nel ‘400,
passano i Bentivoglio,
a loro si mescola una folla di questuanti
e ai loro levrieri rosa e color cenere
altri si affoltano
nuovi randagi, conciati, neri
        e i cavalli, sì,
vanno vengono i cavalli, gli scooter, le grida
i drappelli di studenti,
le loro occhiaie di bragia
il dolce strazio
i capelli colorati e quelle risate mio Dio,
le birre in mano, tutto il tempo
che si confonde,
il tempo e anche lo spazio,
quelli accucciati
in via san Vitale come a Rabat

camminavo! andavo! E giravano le strade
la città, il cielo,
il cielo come una bandiera
batteva sui tetti, dietro le torri,
gli spioventi,
filavo, andavo
la città mi viaggiava intorno
mi viaggiava dentro.

E ora mi si è fermata,
                                  fermata addosso.

Vedete?
             Questa è
l’ora che tutto si volge al desìo,
l’ora che le donne alle finestre
si voltano verso il sole, caduto,
l’ora che fa Bologna perfetta
in questa luce di fine giorno
che rende nuovissima
intatta
la linea dei colli intorno
e la successione dei tetti,
e viene a tutti il desìo di cosa,
di cosa
di non morire ? o di una carezza
soltanto ? di fare canestro nel cestino
uscendo dallo studio
di camminare vicino a quei fianchi
che stanno ondeggiando
tra la folla sotto i portici
e sotto i portici svanendo
o forse di fermarsi nel bar
in una piazza, di bere qualcosa
guardandosi finalmente nella rosa
del volto, via dagli schermi degli uffici,
togliersi la giacca
facendo un arco, un lampo
di camicia bianca,

l’ora che la bellezza di Bologna
appena dopo essersi sentita stanca
si fa quasi insopportabile
e il desìo, il desiderio, la stessa
parola più dolce e appuntita,
non sa come fare a stare così
senza misura, senza obiettivo,
e nella luce bionda mietuta
avvampa
come una febbre chiara
di voler piacere e una specie di dolore,
la mano porta alle labbra l’aperitivo
e c’è una spina
nel cuore che come può
si consola,
quando su Bologna divampa una luce d’oro
poi declina
e lei apre piano i suoi occhi viola…

II

Ho fermato il mio camminare.

Davanti qui
a Santa Maria della Vita –
lo strano nome da dire e ridire…

Che posto è
la Vita
con il portico detto della Morte
sul lato opposto…

Perché nominarla così…
per cosa dire…

Come a non poterne più
di chiamarla soltanto
Madonna. O soltanto  
Maria del Rosario, o del santo
Carmelo. O inseguirla Maria
dell’acqua, del fuoco,
dell’olmo, sì, ma anche del faggio,
Maria degli indios ma anche
degli spagnoli, del mare
ma anche dei pescatori,
e dei bagnanti
ma anche dei bagnini,
dei giudici ma anche
dei ladri,
dei santi ma anche dei peccatori,
dei nobili e dei vili, della fortuna
ma anche Maria del Soccorso,
            non sapere
più come chiamarla, dopo
che l’hanno detta, lei, semprechiamata,
Maria della Rosa
o dell’anno trascorso
del cardellino, della torre
o di ogni dolore, e di ogni sorpresa

lei che tutti i nomi li fissa, li fa fiorire
e poi se ne va
eterna ragazza di Dio,

e allora qui l’han chiamata, per il vicino
ospedale, per l’essere così vicina
al male,
non potendone più
e vedendo che in ogni nome lei
sembrava andare via,

splendida ragazza dell’eterno restava
ma anche sfuggiva,
      Maria
del roseto ma anche del monte,
della quercia ma, via, anche là, della fonte,

per farla restare, non andare, Maria,
vedi come si può soffrire, lo sai tu
non andare via, l’han chiamata con il nome
minimo e supremo

stringendo il pugno nel letto
con il nome che andava via dalle loro labbra bianche
e dai petti rapiti nell’ombra

l’hanno chiamata
con il nome semplice che solo a ripeterlo
mette i brividi e il magone

con il nome di tutto quel che si ha e che si perde:

Maria della vita, della vita…della vita…vita…
Maria della vita mia.

        Non c’è nessuno qui, stasera.
Viene una notte elettrica, nera,
un viola quasi verde.

Sono entrato solo.

Da Via Crucis dell’amico

IV

Gesù incontra la Madre

Non so cosa pensare…
Era meglio per lei
       restare
lontana da qui,
 e non vedere
cosa fanno patire a suo figlio.
O no, è giusto così,
che nello sguardo di lei
lui tiri un respiro, sia un giglio
sulle piaghe…

Io non so cosa pensare…
Come fa il cuore di lei a sopportare,
a vedere ora apertamente
quel che in segreto
custodiva,
la spada, il lupo che la feriva.
Teatro così violento.

Io non so come può fare
una madre a essere madre fino in fondo,
di fronte alla morte del figlio
a questa fine del mondo…
Ma lei ha fatto bene a venire
così lui per un attimo
può riposare lo sguardo, riposare
il cuore.
Perché lui sente la croce e lei sente la spada.
Perché lui muore e lei sente di morire.

Perché in lui c’è la certezza della Resurrezione
ma ora che sta così male
se lo vuole sentir dire da sua Madre.

Perché sono insieme
come ogni madre e ogni
figlio. E come nessuna
madre e nessun figlio.

Io non so cosa pensare…
Cosa si sono potuti mormorare,
in quella impossibile consolazione,
in quella definitiva, segreta
consolazione

Invocazione

Dacci i Tuoi occhi Maria
per guardare il dolore di tuo Figlio,
i tuoi occhi tutti dolenti
i tuoi occhi tutti splendenti.

Carlotta


Tu sarai una donna
ragionerai come io
non ho fatto mai. Sarai me
ma porterai la gonna.

La notte avrà un'altra
dolcezza per te,
non sentirai questa asprezza
chiudendo le mani.
Anche le grandi piogge per te
saranno canzoni.

Sarai una donna, volgerai
molto amore, amore forte
come nel mare volge l'onda,
il tuo visibile plancton
contro la morte fonda.
Ne avrai gli spasmi e il risalire
improvviso delle risa,
il pensiero sarà alla sera
una dolce fronda
sopra gli occhi.

Sarai un miracolo per tanti,
anche senza fare niente.
Una traccia
per chi non vede più le stelle.
Apparirai come tua madre, bella,
una scintilla.

Sentirò le tue mani piccole
per sempre giocarmi sulla faccia
come foglie che il vento
muove sulla terra.

E quando sarà finita la mia guerra
e mi sfuggiranno le parole
sarai il privilegio
di una canzone alta, che non muore.

       

 

 

Lei dal Camerun

 

Trattami con onore
diceva
o le mormorava la pioggia
sulla bocca in un leggero
impasto,
trattami,
ricordati che vengo dal fiume, anzi,
guarda, presto:
la posa non ho di nessun récit,
tengo le mani sul ventre,

non diceva più niente

nella sera di bellezza che aveva
io vidi venire una notte bruciante,
ricordami con onore,
ho scritto anch'io
il mio nome su un biglietto
del tram e forlgorato per sempre
in una fermata del tempo.

Trattami con l'onore
che nessuno sa più,
trovalo nel mio sperduto
amore,
cercalo nel sorridere,
credilo almeno tu.
       

 

 

Su un treno di notte

Su un treno di notte
nello scompartimento vuoto

un ridere ti arriva
più in là
nel buio da un roseto
di ragazze straniere

come si fa
a fissare il lupo delle solitudini-
a queste latitudini della notte
si è come assassini, stanchi
tra le ombre agitate sui sedili
e nella tenebra gli occhi
illuminati dalla fine.


       

 

Flaviano, amici, Dino, Michele

Flaviano, amici, Dino, Michele
e tanti a cui non son riuscito
ad essere fedele e ora
ritornate nelle notizie
di un delitto da manicomio criminale,
l'altro affogato per overdose
e taglio ai polsi o chissà cosa
nella vasca di una casa vuota-
ritornate, non abbiate
pietà del mio cuore
stabilitevi in questo novembre metropolitana,
nella folla che mi viaggia dentro
e parla parla tace
o d'improvviso
piange sommessamente.

Verso un cielo tirato, ormai
incolore, che attende venire come viene
di colpo, finalmente
la calma della sera
fumano le grandi ciminiere.

Così forse il treno occupato
in ogni ordine di posti e gente in piedi
va, sfuma via, è forse niente?
Ditelo voi di no, Michele
Flaviano e anche Dino, siatemi fedeli,
ripetete per amicizia dal vostro
riparo, suggerite
da dietro le quinte
che vi nascondono, nere.

       

 

Quante volte Milano


Quante volte, Milano
dalla mia terra più dolce
sono arrivato davanti al tuo volto
piatto, senza respiro.

E' il tempo dell'amore duro,
è notte, solo notte, è dignità
di sguardi che sanno d'averla
perduta, è il viale dove scendo
come bestia che è pazza a cercare
l'asfalto nero, rapido
e luminoso di pioggia come
uno stordimento.

Pioggia anche la mattina
giù dai vetri larghi al supermarket,
acqua sentita per un istante,
una stretta nel cuore all'uscita
dalle porte a cellula di luce
e giù la testa, di corsa
fino all'entrata confusa nell'auto
tra l'odore dei vestiti bagnati
e la carezza gelida del cellophàn.

Devo scordarmi di lei,
scesa per le scale
del metrò, senza più bellezza per me,
devo scordarmi di me, chiuso
in auto a guardarla senza più pensiero.
Devo scordarmi quel tuo nero, Milano,
e il vaniloquio del traffico
sotto l'acqua, e il giorno e l'ora,
scoprire che non c'era
né diritto né speranza, e neanche
amore, ma furore, solo dolce
e demente furore.

Quante volte dalla mia terra più calma
sono venuto al tuo inferno.
Mi conoscono i fedeli dei chioschi notturni,
illuminati come stelle gelate, le mosche
che sembrano i maghrebini, i turchi
che stanno intorno a trafficare, ad aver pace.
Quante volte sono venuto al tuo inferno,
Milano, a inaugurarlo.

E se quella notte speravo in una notte
più calma e di risentire il mare
non era per predare, non era
per gettare il capo in un bianco fuoco,
ma era per avere quiete, quiete
se non amore, quiete un poco…