Intervista di Anna Boninsegni A Davide Rondoni

INTERVISTA A DAVIDE RONDONI

di Anna Boninsegni

1 – Il temine ‘generazione’, più che circostanza anagrafica, indica un territorio d’appartenenza sotto forma di affinità culturali, ideologiche o elettive, che hanno cementato presenze e autori del ‘900, fino alla cosiddetta ‘quinta generazione’. E’ utile parlare di ‘gruppo poetico’ in genere?

Utile a chi deve per mestiere o per strana passione stilare schedari, mappe che presto invecchiano. Per una reale esperienza della poesia serve solo confrontarsi con la voce di pgni singolo poeta. In alcuni casi, la costituzione di gruppi (realmente o fittiziamente) come nel caso dei futuristi (reale) o ermetico (fittizio) può sottolineare l’esistenza di talune basiche esigenze comuni, che però vivono e sono davvero colte e leggibili solo nel vivo della esperienza personale.

2 – Dopo le opere canoniche dei “grandi padri” della poesia novecentesca (Raboni, Giudici, Luzi, Porta, Bigongiari ecc.), e dopo libri dal valore assoluto come Il disperso di Maurizio Cucchi, Somiglianze di Milo De Angelis, Ora serrata retinae di Valerio Magrelli o L’opera lasciata sola di Cesare Viviani, come si collocano le produzioni dei quarantenni e cinquantenni di oggi?

Non so se chiamerei tutti i nomi che tu fai “grandi padri”, o magari ne aggiungerei altri. E anche il “valore assoluto” non so cosa significhi a riguardo di opere così recenti che ancora non hanno davvero affrontato la sfida del tempo…Ammesso che il tempo sia un buon giudice, il che non è sempre vero, anche perché il “tempo”, in realtà sono gli uomini e la loro ombrosa storia. In genere le categorie storiciste non funzionano con l’arte. Detto questo, vedo buona poesia in giro, voci interessantissime che mi piace ascoltare e da cui ricevo tanto.

3 – Chi sono, secondo te, quelli più innovativi e di spessore, tanto da essere includibili in quel «piccolo canone» indicato da Alfonso Berardinelli?

Non so quale sia il “Piccolo canone” di Belardinelli, e non so che senso abbia, vista la fragilità dei grandi mettersi a fabbricare dei piccoli…Un “grande” critico come Blloom fa grandi canoni (discutibilissimi) e un “piccolo” critico come Belardinelli (persona peraltro intelligentissima) si mette a fare piccoli canoni ? Mah…Capisco che sia in parte il loro mestiere, ma i canoni sono un deposito molto franoso della storia non la invenzione di un critico. Certo è doveroso da parte loro fare mappe e dare indicazioni, ma non vedo un gran rilievo della critica lettararia nella vita reale della poesia e della sua conoscenza. Chi leggo con sorpresa e commozione oggi in Italia ? Tanti. Benedetti, Lauretano, Villalta, Anedda, certe cose di Riccardi meno controllate, l’ultimo di Bertoni, Di Consoli, certe cose di Sissa, di Piccini, della Panfilo, la Valduga anche se è arrabbiata con me, Gualtieri, Mencarelli, Marangoni, te, Broggiato, Jacuzzi….e me ne dimentico un sacco…

4 – Sempre Berardinelli ha scattato un’istantanea della situazione attuale nella seconda edizione dell’antologia “Il pubblico della poesia”, apparsa la prima volta nel 1975: «Essere poeta era secondo me un rischio maggiore che in passato. (…) I critici e gli editori da allora in poi hanno lasciato i poeti a se stessi. A volte li hanno del tutto trascurati, altre volte li hanno consacrati un po’ a caso. Il risultato è che (…) invece che pluralità e compresenza di tendenze, c’è piuttosto una vera e propria confusione critica. (…) Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti». E’ un quadro verosimile?

Penso che sia stato più o meno sempre così. Se fossimo in paradiso nela vita non ci sarebbero incongruenze. L adebolezza della critica oggi si vede per il fatto che ormai siano solo le collane s stabilire l’importanza o meno di un autore, come se pubblicare da Mondadori fosse una consacrazione che manca a chi pubblica per Raffaelli. Ma non è così, e sarebbe più chiaro se i critici, con gli strumenti tradizionali o altri, ristabilissero i valori in gioco. E gli strumenti non mancano, occorre forse più impegno intellettuale e più generosità di opera.

5– Un’esperienza ferocemente critica del ‘postmoderno’ e della poesia neoromantica degli anni ’80, quale quella del “Gruppo ’93”, con una schiera di critici teorici come Barilli, Cataldi, Di Marco, Leonetti, Luperini e poeti e narratori come Cascella, Cepollaro, Fontana, Leonetti, Ottonieri, Voce, ha rilevanza oltre la frase pronunciata da Sanguineti e mutuata da Luigi XV “aprés moi le déluge”?

Il fatto steso che tu stia qui a chiedermi “se” hanno avuto rilievo, significa che tale rilievo è almeno dubbio. In quanto a Sanguineti-Luigi XV, egli stesso , che è uomo non privo di ironia, si sarà accorto che c’è stato dopo di lui un diluvio di poesia forse migliore della sua. Se non se ne accorge, qualcuno avvisi il re che è nudo. In ogni caso, il fenomeno è complesso e non lo vorrei liquidare in due battute. La critica -che era intellettuale e politica, e poi stilistica – di quel gruppo (a cui si riferivano non solo i nomi che tu indichi ma alcuni degli intellettuali più in voga oggi, da Eco ad Arbasino e molti di coloro che oggi hanno il potere culturale in Italia) ebbe come bersaglio ben più che il postmoderno e i neoromantici o come vuoi chiamarli. Tentò (invano) di corrodere l’autorevolezza di Dante Alighieri, di cambiare l’orizzonte di attesa dei lettori di poesia, di voltar pagina dalla tradizione del contemporaneo che andava da Ungaretti (ristpettato ma “ridotto”) a Luzi, a Pasolini, e all’opposto a Zanzotto…Una grande pretesa letteraria che poggiava su una grande pretesa intellettuale. Fallita la seconda, la prima ha dato vita solo a qualche opera illeggibile, a qualche gloria effimera, e a qualche cattedra neo-baronale. Ma, insisto, il fenomeno fu complesso, anche se non mi ha mai interessato in modo vital. Mi pare che altrove si siano formate le attuali acque più vive della poesia italiana, altri i maestri, altri laboratori, e senza pretenziose, corrucciate ideologie.

6 – Di fronte a una presenza oggi vastissima di scrittori in versi (un librino non lo si nega a nessuno, soprattutto pagando, salvo poi finire presto al macero, alla faccia del grido d’allarme sulla deforestazione della Terra!), è più difficile trovare una fisionomia emergente. Molti poeti rimangono imprigionati in una sorta di gavetta interminabile, che li fregia, praticamente a vita, dell’etichetta di “giovani” o “emergenti”. La quantità, secondo te, interviene a discapito della qualità?

Mah, io non propendo ai lamenti. Se un sacco di gente scrive versi e li vuole far conoscere in tanti modi non lo trovo di per sé negativo. E’ un esuberanza di vita, che dovrebbe e potrebbe trovare correzioni, giuste proporzioni incontrando lettori educati. Ma, appunto, chi educa i lettori ? Più che sulla folla dei poeti o poetastri, rivolgerei gli “strali” sul fallimento della educazione alla lettura che ha dominato e domina spesso in scuole e università. Potrei raccontarti (e lo potresti tu) mille fatti emblematici. Un problema di persone, prima che di organizzazione e di strutture. Devo aggiungere che essendo uno a cui arrivano per molti motivi un sacco di manoscritti e di libri, ammetto che può essermi sfuggito un esordiente del valore degli esordi di un Caproni. Ma che sia sfuggito a tutti coloro che come me ricevono libri e manoscritti a volontà è, se è, un caso raro.

7 – La separazione tra Accademia e Militanza, ha contribuito a rendere tutto più asfittico e provinciale; l’omertà della critica, la staticità degli operatori culturali, fra riviste e circuiti editoriali autoreferenziali, alimenta un’empasse tutta italiana. E’ una generazione che sembra vivere male il rapporto con i “fratelli maggiori”, assestati su spazi consolidati e inamovibili, oscillando tra accondiscendenza e invidia latente ma ignorando il confronto o lo scontro generazionale. Come se ne esce secondo te?

Oddio, che quadro fosco! A parte le naturali invidie e i vizi autoreferenziali (parecchi), ci sono anche segni di vita forte. Credo che ne escano delle presenze, delle voci, degli autori. Delle esperienze che rompono tali separazioni e bonificano talune paludi. Girando parecchio il mondo, vedo che questa che tu chiami situazione “tutta italiana” non è proprio una esclusiva. Ma qui non vale il “mal comune mezzo…” Se ne esce col sorgere di esempi di libertà. Come quello di Benigni. E smettendo di guardarsi l’ombelico e lamentandosi, piuttosto lanciando la sfida di leggere poeticamente il mondo. Sai una cosa ? quando io intervengo pubblicamente su questioni della società anche attraverso la voce mia di poeta o altre voci, mi trovo alcuni critici che si lamentano perché mischio la poesia con altre cose…Come se la poesia fosse una specie di quintessenza del mondo. Ma che razza di esperienza asfittica (e a-storica) della poesia hanno costoro ? E poi si lamentano della marginalità? Ma cosa credono che la gente che vive in mezzo a mille casini, a tanti drammi a tante questioni di vita, non veda l’ora di sentire un bel dibattito sulla sesta generazione di poesia italiana ? O desidera che la poesia parli – con una lingua propria, che tiene insieme cuore, mente e anima- delle questioni della vita, scavandone i significati ?

 

8 – È indubbio che i “poeti giovani” che dell’ultimo triennio hanno dato notizia di sé, nascono non dalla fine di un mito, ma da ciò che residua dalla fine di un mito; non dalla speranza di ri-cominciare, ma dalla certezza che ricominciare è impossibile e soprattutto inutile. Questa ‘generazione dopo la Quinta’, ha un’identità di linguaggio nel mondo delle “mutazioni barbariche”, di youtube, degli sms, del facebook?

Sei sicura ? E’ “indubbio”? Di chi parli ? Io vedo parecchi poeti che sentono urgere una necessità di inizio, di ripresa continua, di quel che Heaney chiama “rammagliare” il mondo: Maldini, Italiano, Serragnoli, Stefanini, C. Benigni, Grutt, Fantuzzi, Brullo, Leardini… Ci sono anche gli epigoni degli epigoni, certo, ma non m’interessano e credo che interessino poco anche i lettori e chi ascolta la poesia..

9 – Il poeta messicano Octavio Paz diceva “Non sono preoccupato della salute della poesia quanto del suo posto nella società in cui viviamo”. Quale è il posto della poesia oggi, nell’ “universo delle merci”, come evidenziava Mario Luzi? Di cosa si nutre? E quale tipo di poeta abita il caos, per dirla con Focault, come elemento naturale?

Paz ha ragione. E il poesto della poesia dipende da tante cose e non solo dalla poesia. Però è vero che quando un vero poeta prende la parola, anche gli uomini di oggi ascoltano, e con un desiderio e un rispetto fortissimi. Se uno ha reale autorevolezza, anche nel chiacchiericcio e nel frastuono la sua parola arriva, trova udienza. Perché la fame di autenticità non muore mai tra le persone, anzi oggi è semmai più straziante e per quanto stordita sa che nella poesia può trovare qualcosa…Io vedo molto ricorso alla poesia nella nostra società. Magari questo non avviene nei modi che letterati prevedono (in cui è prevista gloria per loro) ma accade, con una strana furia e fame accade…E’ vero o no che la poesia oggi in Italia gode di più occasioni di condivisione rispetto a trent’anni fa ?

Nessuno abita il caos come elemento naturale. Quella è una bella immagine da filosofo. Ma il poeta sa che abita nella poesia, che per quanto possa attingere e movimentarsi nel caos, è una faccenda di “versi”, di contrario del caos, e di suo contrasto. Perché non il caos genera la vita, ma lo strepitoso ordine misterioso –e più stupefacente del caos- di un amore.

10 – Per Davide Rondoni, la poesia è lo sguardo che si posa sulle cose e viceversa: le cose che vengono guardate. E dunque per te la poesia è un ‘luogo’ fisico, da viaggiatori, in cui tutto questo accade?

Sì, è il luogo o il viaggio (la differenza non conta) dove con parole accese si mette a fuoco la vita.

11 – Nella tua opera “Non una vita soltanto” hai parlato di “stupore e letizia”, connotazioni d’animo più che evangeliche, in tempi di duro disincanto … Volevi dire che l'arte, come tale, è un antidoto agli scettici, e rende possibile la conoscenza del mondo per stupore, includendo in questo stato d’animo anche l’esperienza del dolore, della miseria e del crollo?

Non solo io ma G. Steiner, critico tanto discutibile quanto interessante, sostiene che l’unico nemico vero dell’arte è lo scetticismo. Non si dà esperienza poetica della lingua e del mondo se si ha una radice dello sguardo che beve lo scetticismo, ovvero il distacco dal reale. La distanza scettica dal mondo è l’inizio della fine dell’arte, o della sua trasformaz, pronto ione in colorito intrattenimento. Il bambino come l’adulto non è naturalmente scettico, è “presto” per usar termine dantesco a seguire l’invito del reale. Se si ferma è per uno scetticismo che viene da un momento dopo nel suo animo. E la poesia è lingua dell’animo naturale dell’uomo, della sua disposizione naturale alla avventura drammatica della vita. Lo stupore è l’inizio questo movimento che ho descritto. La letizia, invece, può essere il fiore ultimo, nei grandi geni, che nasce dall’esperienza senza riparo di incontro con il mondo, vissuto con tutte le sue ferite e con il suo viso bello e la sua intera doglia di partoriente.