Destinazione del sangue

Destinazione del sangue

Se questa scena passasse

Quando dal finestrino del vagone
Paolo vede pianeti e torri negli incendi

e vede uomini che si rubano l’aria
             quando vede
             la rosa
delle nubi sputare ferro
                                piange il suo pianto secco
di ebreo convertito, e tutti i suoi nervi
implorano qualcosa –
              quando dal treno infreddolito
con occhi stretti nel vetro rigato
dove pende una stella
vede il ragazzetto solo sugli altipiani
a pascolare la magrezza,
la fila per le fabbriche, i cinema
scrive nel suo cuore con la punta di dura felicità
le parole da mandare
ai pochi della comunità.
       La speranza
non diventi retorica
e la fede un gingillo tra le dita,
      vanità.

***

Nel vagone ci sono ragazzi
innocenti come il niente,
      non sanno
niente, lanciano
bouquet di risate, domande giavellotti
e di chiacchiere in ogni direzione
ma non sulla destinazione del sangue, ed è
vario di niente il loro dialetto, spogliati
da secolari e improvvise vendemmie.
                    Bellissimi
non sanno niente di Dio, di Gesù solo
mezze bestemmie.
                 Paolo guarda e non guarda.
Le lastre d’oro del tempio
gli appaiono in un lampo, i bianchi
occhi dei sacerdoti, la folla della sua
Gerusalemme,
      il niente
che soffia sulle pietre…
                   In quali vetri o ripide
piogge dei giorni, anni
si riflettono per un istante,
li cerca con le dita, vorrebbe
fermarli nella visione che trema,
ultima luce scema…
Fissa lungo le strade le reti verdi di metallo coperte di gomma
quei disegni all’infinito di croci, quadretti, reti,
croci ancora, minuscoli, correnti…

***

Il viaggio è lungo, viene il sonno che teme.
Vede l’oscillante statua
con la gran croce sulle spalle
entrare così sola, così sola
in una enorme chiesa tra la folla.
          Era Nicaragua,
Asia, o cosa…Paolo vola.
Può venire il nemico amaranto,  la bocca bavosa,
il tremare del petto, della testa.
La spina nella carne, l’artiglio, la viola furiosa.
Va il treno – sereno e tempesta.
Decide di non dormire, fissa il fiore inverso
dell’impotenza convertita in forza.
Rompe un pacchetto di craeckers e ne mangia
frammenti.
Il treno lo porta dopo mille venti
fino al viso di ramarro dell’imperatore –
colpo di genio o di umiltà
l’accusa che lo riguarda
riguarda tutti
perché riguarda l’amore.
Le briciole gli cadono sui calzoni, fa freddo
ingigantiscono nei tunnel le ombre dei vagoni…

***

Vede i filari, la terra lavorata,
    è bella
nel tormento
l’opera del mondo, l’opera di cosa,
                              che rosa
grida recisa  
o fiorisce nel profondo.
Si fa cenere e amore,
             fuoco, fossili stelle, fuoco
di sorriso sempre ulteriore.

***

Poi sente tutto farsi teso.
       Paolo vede
le mani aperte degli alberi
le grida mute dei precipizi, la perfezione
inquieta dei puledri e dei puledri
d’uomo.
i volti dei ragazzi che svaniscono
d’improvviso nel buio dei tunnel.
Sa che tutto è bellezza e travaglio –

ma se questa scena passasse…
se dopo la galleria
la luce dal mare esplodesse…

Una dura felicità

Materia, corpo…Fiato. Vita,
dice o non gli esce in quella luce rocciosa
e azzurra.
Corpo, spirito, oscuro
spartito
del fiato
carne, legame
mai evitato, nodo, sospensione.
        Spirito, movimento
che dai vita, la tensione
del corpo a vivere
secondo la vita infinita,
corpo, legame, dono del
fiato
dal primo giorno o notte o cos’era
quando Dio ha lasciato su un’altra bocca
il suo respiro
come di un amante si cerca nei baci
il fiato.
Corpo, vuoto, durata bianca
delle ossa, cuore, fossa
tutto da rammagliare, slogato,
lo spirito è il filo
del fiato.
       Fiato, fiato…

Corre il treno, rompe
le curve, i monti, i precipizi
sul mare.
Gli altri passeggeri vedono Paolo
sorridere lieve, tremare.

***

Le stazioni di provincia, i bar tabacchi
dove ci si sente nessuno.

E vivere è come vivere e morire.

“Non sono io che vivo
ma tu che vivi in me” lo fulmina alla cassa,
lo arde questo non pensiero,
lo trapassa
il suo meditato e ferito amore.

Sei con me, Gesù ? supplica in lui
qualcosa mentre paga il caffè
e il barista lo guarda pensando a cosa
può avere quell’uomo,
    che sembra in sé
e fuori di sé, avvolto
e bruciante in una dura
felicità…

Fantasmi o che cosa nel mondo

I treni nella notte si perdono, gli uomini
nella notte si perdono, i treni
     svaniscono,
cercano tra le montagne
o lungo le rive dei mari, e che segni
scrivono nelle migrazioni, desideri
desideri, movimenti di popoli,
       sentieri
e deserti,
                cuori binari

***

Fratelli, dice, o forse
nei barbagli del sonno mormora
fratelli di Corinto,
        nei lampi
di luce nei vagoni dalle gole e dai boschi
o come fosse ancora sul mare
verso Salonicco,
     amici, ripete
quasi supplicando, e svaniscono
quei volti, o dove saranno andati
quei sorrisi, gli abbracci e amici,
amici…

Lo guardano nello scompartimento,
dicono: com’è solo quest’uomo
che ha gli occhi tristi ma in fondo
pieni di entusiasmi,
è solo ma ha molti con lui,
          fantasmi,
o che cosa nel mondo ?

***

A Settebagni,
o poco prima
che appaia la farfalla di marmo, la incantata
ragna, la dolce serpe addormentata,
    la regina
di oblio, luci e violenza,
Paolo si alza a guardare, viene mattina,
con il suo
vecchio nome addosso, e Gerusalemme
in corpo come un sogno
un vuoto nella pancia, l’alleanza
di fuoco e pietre cieche nel sole, mentre qui
in una luce bianca di fiacco polmone
dormono i ragazzi buttati
uno sull’altro, la bocca tra impasto
e impazienza.
        Arriva a Termini
o Tiburtina ? chiede uno, aperto
un poco l’occhio
di prima torbida smania
sguardo gelatina

La carità deve bruciare ancora

Poi si entra in lei e Paolo
entra in lei,
       gran Termini
vetrata alta bianca, semideserta,
uomini che si cancellano, sacchetti, mucchi
di stracci, piccoli drappelli, luce
che piove dall’alba, vuoto
sbalordito come quello del tempio.
                      Termini
è l’atrio dei primi gesti muti, suppliche, giorni
ripetuti nell’aria,
     dolce colosso,
bianca fauce e dita protese
dei binari, filattéri nella veste scucita,
                              termini demente
urlo calcificato di un dio partito, e mai
sceso a comprare da fumare,
               solitudini discese
sulle scale mobili, e
annunci, réclame, video accesi al niente…

***

Era qui che doveva arrivare.
   Guarda la grande
città orientale e occidentale,
la brulicante tana
del dio imperatore,
era qui nella rosa lontana
che doveva, nella splendida e vociante,
nella ferita incurabile
del mondo.    
            Esce con la sua poca valigia
il cittadino romano e non romano
dovendo morire per Roma e non per Roma.
Era qui che doveva.
Perché il sangue deve sciogliere la tensione
e l’argento greco, l’eleganza latina
e la verticale tenerezza ebrea.
E del sangue dovranno essere imbevute
l’erbetta dolce e la terra dura delle parole.

La carità deve bruciare ancora e diventare città.

Paolo ha mille anni e mille addosso
guarda il cielo aperto, in su
il volo a picco
e a precipizio degli stormi –

cadrà nel nero fosso dell’oblio
il nome di Gesù ?
o si passerà
di mano in mano, di bocca
in bocca nelle case, nei baci, nei bar
il suo viso colpito e dolce,
il pane del racconto
della vita che no,
      non muore più ?

Passare delicatamente la mano

PASSARE DELICATAMENTE LA MANO
(per E e per tutti)

Opera in versi
di Davide Rondoni

Passare la mano delicatamente.

Perché la polvere è invisibile, ma resistente.
E dopo che si è passato l’aspiratore,
lo straccio
occorre mettersi giù, di fino
arcuando l’occhio, tendendo il braccio

e passare delicatamente la mano.
Come per fermare tutti i temporali del mondo.

Per proteggere dalla lenta, lievissima invasione.
Dal deposito invisibile e tremendo.
Non un gesto di difesa, ma di futura
protezione.

Lo faccio tutti i giorni, qui,
in questo silenzio che c’è.
O meglio, che c’era.
Perché silenzioso era, e fatto d’ombre profonde e di luci
gentili, di rapidi scambi di voci.
E potevi sentire i sottili battiti
d’ali, cadere le foglie,
E dalle finestre sui cortili vedere cambiare lentamente
il colore degli alberi, le luci delle stagioni
e anche dentro le stanze
dove sembra non succedere niente…

Ma ora questo luogo dove le giornate
erano scandite da poche visite fedeli d’amore
-i parenti, i medici, il volo rapido
delle suore,
ecco si è animato. Ho visto
gente di ogni tipo.
Giornalisti, avvocati, uomini della tv
con la faccia smarrita – soprattutto loro
i tecnici, i macchinisti…
Ho sentito bruciare di dolore le rose
per le chiacchiere che si sono fatte qui,
fuori nei piazzali, schiacciando la cicca
delle sigarette sulla ghiaia
prima di risalire in auto e andare via,
e poi quante chissà dove…

Io non ci bado più tanto, faccio
il mio lavoro,
quasi sempre
taccio.

So che tutti sono qui per lei, la ragazza
della stanza al numero…

E’ lei, che senza fare niente, ha attirato tutta questa gente.
Che strano il gran movimento si è creato
intorno a una che è immobile, e nella sua ombra
giace. Di cosa la sua nuda presenza
è stata  capace.
Dicono: è finita. Dicono: non ha vera
vita.
Io non so, sono solo
un uomo delle pulizie. Ma se non è vita
cosa è
questa presenza che tanto movimenta, inquieta,
tormenta ? Lei
sta là nella stanza che la separa.
se non è vita cosa è
che avviene tra quei muri ?

La malattia
la ha allontanata, o la ha avvicinata alla nostra vita…
Nell’ombra che la cattura non avviene
niente ? Ne siamo
davvero sicuri ?

– Sono pensieri che mi perdono la mente. Io
non sono niente…

E’ il momento
in cui parlano tutti, giudici, filosofi e familiari. Io
non dovrei pensare, solo pulire, solo
accontentarmi di qualche superficiale
sentimento…
E passare il panno
per la polvere e poi, delicatamente
la mano, per accompagnare
il giro dei pianeti intorno al grido del sole…
Ma quando ho visto che un giornale
ha messo la sua foto e ha scritto che ora è libera,
libera di morire,
sono andato su, con il magone,
a guardarla dormire.
Per lei viene notte e giorno, estate
e inverno, e ai medici
ho sentito dire
che sulla profonda attività cerebrale
non abbiamo ancora le idee chiare.
Forse fioriscono rose
misteriose nel suo cervello, e immagini
che a noi sfuggono, radiose.
Avrei voluto prenderlo in braccio
povero corpo abbandonato dal mondo,
portarlo, in giardino.
O al mare. Farle
sentire, se ancora lo sente, il mare
e tenerlo così,
in braccio tra le onde, dicendo al suo viso
silenzioso:
non avere paura, non ti lascio andare.

Ma cosa mi metto a pensare…
Pulire, chinare la testa, non farsi
venire idee strane.
Se i giudici hanno deciso…
Se il filo va reciso…

E però io non capisco, io qui mentre la polvere
dei giorni e dei pensieri pulisco,
e forse per questo sto troppo attaccato a terra
e mi viene da chiamare le cose
con nomi soliti, normali, con lo sfarzo
dei nomi quotidiani, rose
le rose e viole le viole di marzo,
bacio il bacio, guerra
la guerra, e cagna la morte, e vita
la vita, io mi chiedo perché
non la lasciate qui, che fastidio
vi dà ? non la vedete, è là
nel suo silenzio infinito, respira…

ma non vola, non gira
più, è sola come un uccelletto stordito
le si dà un filo d’acqua, un poco di miglio.
La malattia l’ha messa in una gabbia
tremenda. Un misterioso artiglio
l’ha cacciata in una reclusione feroce.
E ora vogliono soffocarla
sulla sua croce…
 

Dicono che non ha più nessuna abilità.
Né pensiero, né azione. Tronco
morto, zero espressione, nessuna
volontà. Un alberetto monco, una rosa
finita, come una cosa
già morta.
Io lo so cosa, anzi io dico
chi è. Io lo vedo. Ogni mattina da anni
sollevo i panni, cambio i vasi
sporchi dalla stanza. Io la vedo
quella ferocissima immobilità. E il corpo
che cambia senza cambiare, questo
strano senza tempo invecchiare…

Io vedo questo corpo
e tutto il suo silenzio
che fa venire da gridare.

E’ vita questa cosa tutta
storta ? Questa curva impazzita del tempo ?
E’ viva, è gia morta ?
Se è quasi vita, ed è quasi morte
da quale parte la spingeremo
muovendo leggermente la mano ?
O si confondono i confini, e dove pare
vita è morte, e dove ci pare piantato
il drappo della morte
è per lei finalmente vita ?
Oh misteriosità infinita
dell’esistenza umana…
se anche finissero di stupirci le stelle
ecco che stupisce la mente
davanti al mistero delle nostre medesime
particelle…

Si appannano gli occhi, come fare a vedere bene ?
Tu dormi, e sul tuo corpo indifeso
la mia mente sviene…

****

Io i giornali li uso per pulire i vetri.

Con il Vetril.  

Però prima li leggo.

Servissero almeno a pulire gli occhi
appannati…
Invece vedo titoli gridati, dibattiti
infiniti…E uomini in camici bianchi
che si dicono medici, scienziati
affermare sicuri che lei è solo
un simulacro, ormai un pupazzo, solo
di carne morta un pezzo.
Da lasciare andare finalmente
a riposare.
Non dicono “marcire”. Non chiamano,
stranamente, la morte con il suo nome,
con il suo volto orrendo. Dicono:
riposare. Come fossero diventati tutti
preti. O come se il niente
fosse più desiderabile dell’ultimo
filo di vita.
Dicono: lasciamola andare.
Ma non dicono dove. Non dicono le parole
crude: a morire. Non dicono:
le togliamo il respiro. Non dicono: disidratazione.
Come se questa presente sofferenza
fosse il posto peggiore dove stare.
Solo una valle di lacrime. Da dove
nemmeno pregare.
E dunque sia desiderabile andare, persino
nella morte, nel niente siderale
nel mancamento corporale.
Ma non usano queste parole. Dicono:
lasciamola andare. Forse
sono tutti diventati cristiani
e credono al paradiso.
O forse ritengono in un preciso
ma nascosto pensiero
che vivere e morire
in fondo sia uguale.
Non dicono: a marcire.
Parlano della morte occultandola.
La evocano, ma tacendola.
Non chiamano con il suo nome la matta
falciatrice di vita, la sfatta
baciatrice di tutti.
La rendono astratta.

Il vetril è una grande invenzione.
I giornali lo potrebbero essere.
Per pulire gli sguardi, leggendo
tra le righe.

Prima di arrotolarli
per pulire i vetri leggo che non c’è
tra gli scienziati unanimità.  
Pochi sono che giurano di sapere
tutto sulla attività del cervello.
In questo duro
periodo confuso
si parla di scoperte nuove, di attività
cerebrali registrate là
dove pareva solo silenziosa vacuità.

Un uomo in camice
di fronte a un filo di vita
e al viso marcio della morte
che fa ?
non aggancia il filo
al sostegno fragile di nuove
scoperte, ai ganci di sorte
incerta che trova ?
E’ strana, nuova
questa maschera di medico
che non la morte oppone alla vita
ma gradazioni della stessa vita.
Che oppone non più la morte
ma gradazioni di infelicità alla vita.
E’ strano è duro questo pensiero
che oppone alla vita non più
il volto smangiato della morte
ma la sofferenza.
Come se dove fossi tu
dolore,
non potesse
esserci più
dignità di vita.
Fino a preferire
di baciare il volto
della morte, il nero.
Ma non era il dottore
qualcuno a cui aggrapparsi nelle ore
più estreme ?
E’ strano, oscuro
questo medico che chiede al giudice
o a una carta firmata chissà quando:
dimmi tu da che lato spingere
il mio paziente, che è vivo ed è
morente…
E’ cosa nuova, strana
questo medico che non ha più due sole cose
a cui obbedire, la coscienza e la vita, sperando
contro ogni vana
speranza, ma cerca tante regole,
sentenze, appelli e i mille
tribunali alternanti, e i filosofi
e i parlamenti…

Non è solo biologia la vita, ma pensiero
volontà. Quando sono sotto la soglia della dignità
dice il filosofo
si stacchi il sondino
si lasci, se lo chiede, crepare.
Ma chi deciderà, signor filosofo
cosa è sopra o sotto la linea
della dignità ? Lei, coi suoi
ragionamenti
e non ci sarà più necessaria la pietà ?

E’ come se volessero tutti evitare
di sentire il magone. E di posare
il passo del proprio civile ragionare
su di lei, l’antica fraternità umana, sulla pietà.
Ma chi deciderà a che punto sarai da buttare.
Tu, nel pieno del dolore ?
Sai, filosofo, quanti si butterebbero via in questo
istante, se non li tenesse in vita
la pietà degli altri, la pietà
che sola, ultima, fa riscoprire
la dignità ?

Ma nel regno dell’astrazione filosofica
e giurisdizionale si fa finta che
da una parte c’è, sola, la vita ferita di un uomo
e da qualche parte un signor giudice
nell’ombra delle grandi aule.
C’è sempre un signor giudice che vorrebbe
potere giudicare tutto.
Dalle aule di marmo. Dalle volte fredde
dei palazzi. Lo cercano, lo trovano
uno che dica: si può morire.
Uno che dia ragione alla disperazione.
Anche se quel giudice, vile, non trova il coraggio
di chiamare il morire morire,
o forse ha la doppiezza dello stratega
nel non chiamare condanna a morte
il giuridico sì
a sospendere l’alimentazione.
Lavorano sulle parole, diceva il poeta
che prese la via dell’esilio dall’inferno.
Han lavorato sulla parola figlio.
E poi sulla parola madre, sulla parola
padre.
Le hanno violate, offese, e infine
camuffate, fatte sparire.
Poiché la realtà è più forte
si sono accaniti allora sulle parole.
Sulla parola: figlio, sulla parola: madre,
sulla parola matrice
di tutte le parole: vita e sulla parola che
orienta e disorienta le altre parole:
la parola morte.
Sulle parole che sono come le bambine
che ci prendono per mano per condurci
alla realtà.
Le hanno confuse, le hanno bendate,
le hanno fatte girare su se stesse,
le hanno drogate.
Perché non conducessero
più da nessuna parte.
E rimanessero sospese, infelici,
la parola figlio, la parola morte,
ormai incapaci
di dire qualcosa,
e la parola morire, e la parola io ti amo,
accetta questa rosa…

Il tiranno non muove più le corazzate,
e non ha bisogno delle occhiute
polizie. Muove, paga intellettuali
dalle menti lucide, parolai
che svuotano le parole, il tiranno
muove gente d’immagine e senza
anima che convinca
che tutto è solo apparenza.

Il tiranno divora le parole dentro di noi
per poter divorare la terra
intorno a noi.

Lavorano sulle parole
non solo per coprire il fatto
ma anche per deviare l’emozione.

Non la chiamano esecuzione.

E l’amore è diventata un’idea,
invece che la paziente, la segretamente
festosa comunicazione reale e la reale
custodia della vita,
l’amore è diventata un’idea sentimentale –

e così si può uccidere in nome delle idee,
delle idee buone, si è ucciso,
si uccide, si ucciderà
in nome delle idee piene di bontà…

E si può deviare l’emozione
non piangendo per la morte
ma gioendo per la liberazione…

Non la chiamano condanna a morte.
Ma non possono dire
che lei è già morta.
E allora dicono che è quasi
viva.
Solo perché non si alza, non graffia
non grida…
Tolgono vita alla vita
prima attraverso le parole,
tolgono il senso, il sale alle parole
poi a lei tolgono l’acqua, il pane

e spengono il sole…

Solo perché lei non grida, non si agita
non graffia ?
Solo perché non ha vitalità di opporsi ?
No di certo, dite.
Non ci state
a fare la  parte d’assassini…
Ma se si fosse mossa, anche solo alzata
un istante in piedi nel letto,
se si fosse mostrata
più viva, l’avreste condannata ?
E’ la sua debolezza a condannarla…
Avete mosso tutta la potenza
dei giornali, del pensiero dominante,
dei tribunali
tutta la potenza della deviazione
di un sentimento,
tutto il duro portento
di una campagna per la sua morte
contro la sua debolezza…
Invece di avere pietà, che è la parola
più felice, più colorata
di ogni sentimento, di ogni
attenzione, invece
di sostenerle
il capo, di darle da bere…
La tecnica, dicono, non si accanisca.
Lei sarebbe già morta se la tecnica…
Come se la tecnica fosse impersonale.
Se un uomo si accanisce, un altro lo fermi,
se un medico esagera un altro medico
lo corregga, e sia la responsabilità di un uomo
a portare fino in fondo la vicenda,
sentendo tremore e pietà , immischiandosi
nel magone e nella terra del dolore.
Non si deleghi al giudice
di dare illusorio splendore di legalità…
Si è mosso un esercito di luoghi comuni, di mezzi
scienziati, di filosofi in cerca
di gloria, di politici interessati
più che alla vita alla morte
e tutta la corte
dei giornali più venduti
contro il poco argine della sua
debolezza. 
Per convincere tutti che era solo
una sottigliezza, una pura
formalità ed era meglio
che la fine arrivasse,
che l’argine lieve della cura
si togliesse.
Come se quella debolezza estrema
l’avesse già cancellata,
e la vita in lei fosse ridotta
come neve già sciolta, o annerita
da togliere da in mezzo alla strada,
come un fastidio,
come se in lei la vita fosse
un rimasuglio.

Ma chiedo e supplico chi, che cosa
decide quanto vale
quel rimasuglio,
quel minimo giglio
di vita ?

E’ niente ?
E’ davvero niente ?

Voi che giustamente non condannate a morire
nemmeno il più animalesco criminale,
colui la cui vita
è annerita dal più fosco e sanguinoso male,
e chiamate vita da preservare
anche quella di chi ha stuprato e ucciso donne
e bambini,  e onorate
negli assassini
il loro rotto ventaglio
di dignità coperta di ombre
non volete onorare il rimasuglio, il timidissimo
giglio
di vita che è in lei ?

****

Ma chi sei, vita e cosa
è il tuo germinare ?
esplosione radiale e minima
concentrazione chimica
imprendibile furiosa
particella o sale ?

Miccia verde e accensione mondiale
delle rose, primizia della fisica
o liquida muta
effrazione di molecole e di meno
ancora, aurora, sì, di sperdutissime
rose
nelle materie o soffio
di bacio amato
tiepido sul viso addormentato?

ti conoscerò, bambina, per i movimenti che susciti,
per gli assalti degli eserciti,
il brillare tra i rami dell’oro dei limoni ?
o per la solitudine
degli stormi che volano e creano
i disegni che ti divertono in cielo, sulle lontane
rose ?

Tutti parlano di te, ragazza
discreta, e dicono di sapere
cosa sei e quale sia
la tua giustizia…Io
non saprei, vedo solo
che ti sleghi i capelli
e osservi stupita, in una oscura
letizia
la nostra naturale voglia di sperare…

****

Vaneggio ? o con chi parlo
mentre passo leggermente la mano
sulle grandi vetrate…
Ci sono solo fantasmi
o ancora uomini qui
di carne e ossa, di inquiete
menti e di cuori feriti ?
Con chi divido i miei poveri
pensieri mentre tolgo
le lenzuola di ieri, le offro
al sole spalancate ?

Sono a vanvera le mie parole ?

Offendo lei, che mi guarda
e non mi guarda silenziosa,
rapitissima rosa ? E’ ingiuriosa
della sua già lunga pena
il mio lamento che si svena ?
Eppure non posso che chiamarti
poveracrista, non posso che chiamarti
così, lavandomi la bocca, o forse
dovendo bruciarmela con la chimica
detergente dei prodotti, e dire:
nel senso povero di questi
giorni, poveracrista che soffri e ci imponi
di pensare, di guardare i visi
dei nostri figli, i loro
sorrisi, il bene raro  
delle vite lievi e fragili e brevi.
Poveracrista della vita che ci sfugge,
dell’amore che a mani aperte
d’impotenza si strugge, poveracrista
dei giorni fatti di passaggi d’ombre
sulle nevi…

vita tua, vera vita, rimasuglio e giglio,
povero nascondiglio
della ricchezza della nostra vita
intera.

Forse non sanno cosa stanno
facendo, se dicono che il tuo
giglio di luce è zero, se lo spazzano via –
Rimarremo appesi a un vento…

****

Ma lei avrebbe voluto così.
Dicono, sfoderando
l’argomento finale.
Da tanti anni è sempre così, devono
inventare parole nuove
per coprire l’antico male
e ripetere menzogne.
Autodeterminazione. Dicono.
Non più una parola filosofica.
Ma sindacale.
Come se la vita fosse l’esito di una
trattativa.
Tra gli uomini e il mistero da cui viene.
E come se il mistero fosse un agguato
del male.
E il bene cos’è ?
Io non lo so, io pulisco le stanze,
combatto la polvere, cerco di fare
posto alla vita…

Non è questo forse il bene ?

Invece è come se
il bene non fosse più preparare il luogo, aderire alla vita
ma decidere se accettarla o no.
Non importa perché,
il bene è solo nella scelta compiuta.
In sé.
Come dire che tutto è uguale,
vivere o morire, poter scegliere è bene
non poter scegliere è male.
Io ci capisco niente…So
che molte cose nella vita
non le ho scelte, e sono state un bene.
E altre che pur ho scelto
sono state un male.
Non dico solo alle elezioni…

Quando viene un amore, a volte
un figlio, o il vino che ti è offerto,
non lo scegli, ma ti ride nelle vene.
E a volte, nella penombra oscura
della mente e del cuore, si sceglie
di fare cose per un bene e si rivelano
sbagliate…e di noi stessi
o di storiche dementi stragi
perpetrate in nome del bene ci vien paura…
Il totem, lo spettrale dio
dell’autodeterminazione è l’idolo
più falso che ci sia. Più astratto,
e inutile di fatto.
Non ci autodeterminiamo in quasi niente
-nemmeno nel colore degli occhi
o se passare o no al semaforo
se avere o no un cuore matto-
e vogliono farci credere che valga per nascere
e morire.
La libertà di un uomo solitario,
illusorio. Un uomo astratto.
Senza pietà intorno, senza luce
del giorno nella disperazione.
La libertà non è fare una scelta
ma aderire con mille e mille
scelte alla vita che ci è data
e servire non da soli la sua rosa,
la fioritura che sia più viva
là dove la terra è più segnata.
E cosa è l’autodeterminazione, quando
si fissa ? Da un notaio a che età
si deciderà
quando e come morire ?
in che momento della vita, in che
psicofisica tensione ? prevedendo quale
evoluzione delle scienze medicali ?
E prevedendo d’esser solo o tra le ali
di un amore
che toglie la disperazione che avvelena
anche alla più oscura pena ?

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E’ duro stare nella tua stanza.
Come stare su un precipizio immenso.
Ci vuole senso dell’equilibrio
e anche il senso dell’immensità.

Potessi muoverei leggermente la mano
toglierei il velo
silenzioso, leggerei i segni
del respiro, e:
se si potesse sentire il mare.
O forse se ascolto lo sento, sale
nel chiarore dei monitor accesi un riflesso
di luce di fondale,
e nei ronzii medicali
si accordano i perpetui sciacquii
tra gli scogli o nei porto, tra gli scafi navali…
c’è un mare qui, e ti vorrei sollevare
sulle onde, tenerti in braccio, e farci
insieme cullare.

E’ delirio o forse è l’unica visione
vitale?

Mi perdoni,
se qualcuno mi ascolta,
l’avanzare fino a questo punto
con gli stracci delle mie parole, dove nessuno
ha voluto osare…

Non siamo soli, sai, piccola, vedo
altri, come in azzurre pietà marine,
inoltràti nell’oceano, tra le schiume bianche
dell’onda, come padri
e madri tenendo i loro figli
i loro amati feriti, tenendoli
per le braccia e per gli occhi
non lasciandoli
all’acqua se non quando il mare
sale e decide di prenderli nel suo grande
abbracciare…

Stiamo qui, mia piccola santa
della stanza numero…
se ora finalmente taccio
tra queste pareti che si fanno strana
raccolta conchiglia
si sentirà la sua voce –
viene a rompere il ghiaccio
che circonda le nostre menti e il cuore,

così vasto e pieno di echi
qui, sì, il mare…