Ah la fiducia, dicono…

Ah la fiducia, dicono… Votare la sfiducia…Non fidarsi è meglio, dice un proverbio corrente e banale. Ma un uomo senza fiducia, uno che non si fida e di cui non ti puoi fidare non è più un uomo. Non si tratta di essere senza difetti. Meritare fiducia non è questione di perfezione, è questione di cuore. Di saper riprendere, di tenacia. Di desiderare sempre. L’uomo che si fida è un uomo forte, perché chi desidera è forte. Ma è anche per così dire uno che accetta di mettersi in stato di debolezza, perché si espone a un rischio. Mette il suo desiderio nelle mani di un altro. E se lo si tradisce, fa bene Dante a cacciarci in fondo all’inferno. Perché tradire la fiducia è tradire il desiderio. Che è la cosa più sacra che abbiamo. La cosa più umana. La nostra luce nativa. La poesia sa che cosa delicata e suprema sia fidarsi. E meritare la fiducia, non per presunta perfezione, ma per ardore. Quando un poeta di lungo corso come Alberto Nessi, nel suo libro antologico con inediti “Ladro di minuzie” (Casagrande) scrive, rivolgendosi alla moglie: “Come no, qualcosa resta di noi, l’eco di un’ora/ sui prati scompigliati, lo stupore/ davanti l’alba, l’albero che rassicura/ come una mano intorno alla mano del bambino/ sulla strada di casa (…)” significa che ha accettato la sfida: ha fiducia che non sia vano il vivere, desiderio senza traccia. La fiducia del poeta non è mai babbea. Nessi non chiude gli occhi di fronte agli orrori di cui siamo capaci. E di cui la società soffre. Anzi li sa scovare e ce ne fa sentire il sale sulle ferite. Sa che la vita è esposta a “maltempo” che travolge. Ma se ruba minuzie in giro, sguardi di lavoratori, erbe, panorami di lago, alberi selvatici è perché sa –con la irrefutabile chiarezza del suo sguardo- che la vita merita fiducia, che fidarsi è meglio. Da un uomo che festeggia i suoi 70 passati con alacre impegno e cortesia di poeta possiamo imparare, meglio che da tanti affannati letterati o uomini pubblici, cosa sia la fiducia. Se solo tendiamo l’orecchio e il cuore all’ascolto della sua voce. Le è riservato il prodigio che accade in non molti uomini e artisti: andare, voce ormai carica d’anni, verso una giovinezza non più individuale, verso la condivisione di un desiderio che si rinnova.

Sulla traduzione

   
Un problema d’amore.

Davide Rondoni

Le mie poche riflessioni affondano le loro radici in un lavorìo disordinato, a tratti casuale, che mi ha portato spesso a confrontarmi con i problemi di cui ho sentito parlare qui. Non uno studio sistematico, dunque, ma un fare i conti con i problemi che via via mi si sono presentati sia nel mio lavoro di scrivere poesie, sia nel provare a dare una versione poetica dei Salmi  o nel tradurre Rimbaud, o Baudelaire, o Péguy.
In altre occasioni, l’urgenza a riflettere è venuta dalla conversazione con alcuni, come Luzi o Bonnefoy (quest’ultimo, ad esempio, lo invitai a Bologna a parlare di alcune sue traduzioni da Leopardi) o con Testori. Tutta gente, lo sapete bene, che il problema della lingua, del ritmo e della sua versione lo ha vissuto e vive al livello profondo della propria personalità creativa.
Ho sentito stamattina con piacere che l’entità fondamentale, il ritmo, è tanto precisamente ravvisabile, sia nel lavoro dei musicisti che in quello dei poeti, ma anche indefinibile. Se ne possono vedere e anche misurare certi effetti, si può riconoscerne la diversa presenza in un autore o in un altro, ma non si riesce a definirne la natura.  Allora mi è tornato in mente quel che diceva Ungareti, quando sosteneva che il miracolo della poesia non è il linguaggio, ma la tensione che lo anima. Probabilmente è questa tensione, questo tendersi del linguaggio il nostro mistero, e la nostra unica virtù.
Chi non consoce cosa sia l’esperienza della poesia (che non è solo quella dello scrivente, ma è quella che avviene nell’incontro con il testo da parte del lettore, poeta egli stesso dunque) può ritenere queste cose generiche. Credo invece che occorra continuamente tornare a riflettere, anche nel senso di riflettersi, su questo livello del problema.  Il quale, evidentemente, trascina ogni discussione letteraria a un livello potremmo dire antropologico o religioso, o comuque gnoseologico. Astenersi da tale livello significa per la letteratura chiudersi in uno schedario, affidarsi alla erudizione specialistica, e, infine, costruire la propria marginalità.  Del resto, gli specialisti ci avvertono che il dibattito intorno alla traduzione è da sempre simile, e il fatto che in esso si siano misurati intelletti di primo ordine, sia in campo letterario che filosofico, ci mostra non tanto l’inessenzialità del dibattito, quanto la sua inesauribilità.  Dunque, il suo radicamento entro una congerie di problemi che mal sopporta la schedatura o i presunti chiarmenti  eruditi o dottrinali.
Nel lavoro di versione poetica dei Salmi, ad esempio, condotto sui testi greci e latini e seguendo il consiglio di un Leopardi recensore di una versione del 1816 di quei capolavori amati sopra ogni cosa da Dante, da Petrarca e da altri, fino a Nietsczhe – consiglio di esser libero, di non cadere nella tentazione di replicare, ho toccato una delle questioni che mi paiono riilevanti. Cosa significa, per dirla con Bachtin, che la letteratura si è secolarizzata ? Evidentemente non si tratta di una scomparsa di temi legati al sacro o alla religione nei testi letterari: questo probabilmente non avverrà mai.  E’ però vero che il re e salmista aveva chiaramente la coscienza di comporre i suoi testi di fronte a Dio, dinanzi all’infinito  Mistero che fa tutte le cose. Oggi siamo pieni di scrittori e di poeti che compongono di fronte alle tribune (e ai tribunali, peraltro fallaci) della Storia della letteratura.
C.S. Lewis ammoniva a non trattare la Bibbia come letteratura, poiché in essa ci sono solo eccezioni, poiché è una Scrittura di eventi, ovvero non è dato stabilire normative. Se la Scrittura è un grande codice per ogni gesto poetico lo è non in quanto serbatoio o ipotesto, ma come invito a che la parola poetica costituisca un evento.
La tensione è il segnale che la parola poetica cerca di non essere solo lingua.
Eppure dei Salmi possiamo dire che non sono presenti nella nostra letteratura. E’ vero, come ho evidenziato in un saggetto per quella edizione, che molte sono le tracce e i rifacimenti nella poesia del Novecento, ma la concezione del gesto poetico è del tutto cambiata.
    Nel tentare quella impossibile versione ho scelto di leggerli e di ridarli innanzitutto attraverso una immedesimazione.  Intedo che ho affrontato i numerosi problemi ritmici, lessicali,  di trasposizione metaforica e di comprensibilità attraverso il riscriverli come scrivo io.
Operazione discutibile certo, ma forse meno arbitraria di altre apparentemente più fedeli. Del resto, Pound richiamava il fatto che ogni poeta ha un proprio ritmo interpretativo.

Un ritornello degli Analecta hymnica suona così: In hac verbi copula stupet omnis regula.
Credo che sia una buona definizione di cosa succede nella poesia.
Dove affonda le proprie radici quello stupore di ogni regola, cosa è quella copula della parola ?
La riflessione sulla poesia e sulle sue proprietà è, per me, l’approfondire queste inquiete domande.
Dante, che illustra quel paradosso che scombina le arti e la logica
-l’incarnazione del Verbo: vergine madre, figlia del tuo figlio (!)- riteneva che la poesia fosse parole per legame musaico armonizzate. Alla sua canonizzazione dell’endecasillabo come misura adeguata al respiro dell’italiano e alla sua eloquenza, si rifà appunto Ungaretti, che nota la sigolare coincidenza per cui Amore è il trisillabo nucleare dell’enedcasillabo perfetto nonché parola-tema chiave della poesia italiana. Ed è, lo sappiamo, colui che ditta dentro.
Dante sceglie il volgare, sapendo di essere così uno sperimentatore estremo, poiché essa è la lingua della normalità, dei suoi genitori, e la chiama  concausa del suo essere.
    Credo che il legame da indagare (un’indagine che non risolve il proprio oggetto, ma vi sprofonda) è quello tra amore e ritmo, tra amore e farsi, tendersi della lingua poetica.
Credo che avesse questo come tormento uno come Pasolini, la sua risalita ai movimenti da cui si originava il suo primo balbettio poetico: teta veleta. Ma questa stessa tensione si può ravvisare anche in un poeta che fu per Pasolini un alter polemico, Mario Luzi. Il quale nelle sue riflessioni intorno all’endecasillabo, richiama il fatto che la metrica si riforma sempre su elementi già operanti e, per così dire, segue una urgenza di adesione alla forma. Ma che cosa è questa urgenza, e questo aderire ?…
Uno scrittore americano, narratore e poeta di talento notevolissimo, Raymond Carver sembra apparentemente lontano da questo genere di questioni. Eppure, in un suo seminario raccomanda agli studenti una strana frase di Santa Caterina: in essa si afferma che le parole preparano l’anima alla tenerezza verso le cose. Qualcosa del genere doveva avere in mente anche Giovanni Testori, quando parlava del magone e del protendersi della parola, specie teatrale, a qualcosa d’altro da se stessa. E non era forse qualcosa di questa stessa natura che spingeva il pavese alla ricerca dell’immagine poetica a ricordare la nascita del suo verso come da un mormorare interiore ?
In questo movimento (e non il movimento, a tutti i livelli inteso, il vero tema della Commedia? ) si comprende come il cosiddetto significato non sia opponibile a quel che Bigongiari chiamava la aleatorietà del senso, o che S. Avernicev, ottimo lettore di Mandel’stam, chiama rapporto con l’ oscurità.
    Amare questo movimento significa amare la propria lingua, il suo patrimonio, inteso non come repertorio ma come energia. L’ha richiamato  in alcune pagine recenti di autobiografia poetica e culturale un grande poeta, vissuto nella duplicità della patria e della lingua come C. Milosz.
Così la differenza, la avvincente differenza che segna il rapporto tra il testo di una lingua e il suo tradursi, così come, analogamente il rapporto tra un “io” e un “tu”, entità infinite e mai esaurientemente traducibili, non è il motivo di un impotente sconforto, ma materia eccitante per l’avvicinamento, per il rapporto infinito anch’esso.
    Vorrei concludere leggendo una poesia di un buon poeta francese contemporaneo, Jean Pierre Lemaire, in una mia traduzione in corso di lavoro.

Ombre di uccelli dietro le imposte
Nella sua camera, il bambino malato
sente le tappezzerie cinguettare dolcemente
sillabe che passano di camera in camera
il bicchiere che uno sciacqua in cucina
e dagli interstizi della finestra
la valanga sorda, imponderabile delle nuvole :
i  rumori del mondo quasi riconciliati
dal biascicare della poesia
Ma la grande musica è fuori
dove si spezza prima di essere percepita
perché l’uomo canti se la vuol sentire


Breve bibliografia:

Stefano Arduni, Retorica e traduzione, in Quaderni dell’Istituto di linguistica dell’Università di Urbino, supplemento a studi Urbinati,  Urbino, 1996
 Serghey Avernicev, Dieci poeti, Bergamo, La casa di Matriona, 2000
Charles Baudelaire, I fiori del male, (trad. di Davide Rondoni) Rimini, Guaraldi, 1995.

Piero Bigongiari, La poesia pensa, Firenze, Olschki, 2000

Yves Bonnefoy, Tradurre Leopardi, in Stagione di poesia, almanacco del Centro di
poesia contemporanea dell’Univesrità di Bologna, Venezia, Marsilio 2001-06-11

Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Torino, Einaudi 1997

Luca Doninelli, Conversazione con Giovanni Testori, Milano, Guanda, 1988

Mario Luzi, L’endecasillabo in Lezioni di poesia (a c. di Francesco Stella),
Firenze, Le lettere, 2000.

Ceslaw Milosz, La terra di Ulro, Milano, Adelphi, 2000

Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno, (trad. di Davide Rondoni) Rimini, Guaraldi, 1995

Davide RondoniPoesia dell’uomo e di Dio. I salmi nella versione poetica di D.R. , Genova, Marietti, 1998

Davide Rondoni, Il bar del tempo, Milano, Guanda 1999

Davide Rondoni, Non sei morto, amore Porretta terme, Duadreni del Battello ebbro 2001.

G.Ungaretti, Introduzione alla metrica, in Vita di un uomo. Viaggi e lezioni, Milano, Mondadori 2000

Sul Futurismo

DAVIDE RONDONI
MANIFESTO DEL FUTURISMO
20 febbraio 1909
Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità

Centro Asteria, 23 marzo 2009

INTRODUZIONE

Parlare del futurismo, tanto più nell’anno che ne sta celebrando il centenario di fondazione, è difficile, anche perché, nonostante siano passati 100 anni dal Manifesto che ha dato origine al movimento futurista, la riflessione, la discussione intorno a questo è tutt’altro che ferma. Si scoprono continuamente e si rivalutano alcuni aspetti, si cambiano le considerazioni, per cui è difficile, per la natura stessa di un movimento come il futurismo, averne un’idea definita, stabile.
Un movimento continua a generare nel tempo delle cose, non è concluso. Chi avesse visto due o tre anni fa un’importante mostra su Boccioni, si sarebbe accorto dall’omaggio che alcuni artisti americani della Pop Arte, degli anni ’50, ’60 hanno continuato, e continuano tuttora, a dare al futurismo. O se guardate anche certe pubblicità che ancora oggi corrono, potreste vedere che la citazione del futurismo è fortissima.

Provo a parlare del  futurismo e della personalità del suo fondatore, perché il futurismo è innanzi tutto Filippo Tommaso Marinetti, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, morto a Bellagio nel 1944. Leggerò il Manifesto che fu pubblicato 100 anni fa. Lo leggo anche perché se ne parla tanto, ma molti non lo conoscono. Lo leggo insieme a voi e lo commento, quel poco che si può, magari collegandolo a altre cose.

100 anni fa, nel febbraio 1909, sul Figaro, che è un quotidiano francese, viene pubblicato questo testo di un autore non così noto da apparire qui in prima pagina.
In realtà, recentemente, è stato visto che Marinetti, era tutt’altro che uno sconosciuto, anzi era già un uomo molto importante per la letteratura italiana. Girava tutti i teatri italiani a fare conoscere le poesie di Baudelaire, Mallarmé, Rimbeaud: era un attivista della cultura italiana già molto conosciuto e dirigeva  una rivista importante, “Poesia”. Nel 1909 aveva provato a pubblicare questo Manifesto su alcuni giornali italiani. Un paio di giornali minori lo aveva pubblicato senza grande considerazione o addirittura di riverbero. E lui fa il colpo grosso. Va a pubblicarlo a Parigi, anche perché lui era di cultura francese essendo nato in Egitto, e Le Figaro era un grande quotidiano della Francia.
Racconto un episodio anche per farvi capire qualche cosa della personalità di questo soggetto. In quel momento tende a movimentare la vita in Italia e nel mondo intero in nome del futurismo. Ma
come ha fatto Marinetti a pubblicare il Manifesto su Le Figaro? Era importante per la letteratura italiana e già pubblicava in Italia, conosceva la letteratura francese, scriveva  in francese. Ma da qui a pubblicare sulla prima pagina di un quotidiano importante di Parigi, ce ne passa. Non era così semplice. Uno dei motivi perché è riuscito, è perché Le Figaro condivideva in parte gli obiettivi del futurismo. Ma uno dei motivi fu che lui corteggiò furiosamente  la figlia di un azionista, di uno dei proprietari del Le Figaro, che era anche lui di origine egiziana.  Corteggiò la figlia,  tra l’altro bruttina (e non era solito corteggiare una bruttina, perché sceglieva bene le sue prede). E lui, che nel suo Manifesto se la prende con tutti i passatismi, e che parla di Venezia come emblema  del romanticismo più vieto,  per conquistare la pulzella che gli avrebbe fatto in qualche modo pubblicare su Le Figaro il Manifesto, le fa trovare una gondola sulla Senna. Con questo stratagemma molto romantico , molto démodé, al contrario di quello che avrebbe poi professato, conquista la signorina e subito conquista la prima pagina su Le Figaro.
Racconto questo perché, come è stato messo in luce giustamente  da alcuni studiosi, c’è un figura pubblica di Marinetti che passa nei suoi manifesti, nella sua opera, nella sua straripante attività letteraria di fondatore di quaderni, di riviste,  di letture pubbliche nei teatri che finivano poi in zuffe,
nella sua energia e provocazione. E c’è una sua figura “privata”, invece, non contraddittoria, ma che presenta caratteristiche che occorre tener presenti nel momento  in cui si legge Marinetti. Ci dicono delle sue caratteristiche di finezza, di capacità di rapporti, di relazioni, di cortesia, che chi lo frequentava ha conosciuto.  Per esempio: Marinetti nei suoi scritti se la prende molto violentemente  con un certo clericalismo dell’Italia di quegli anni ’20, quando c’era una situazione molto diversa da quella di adesso, in cui era più facile (non dico più giusto) essere anticlericali, soprattutto nel mondo culturale  (e se la prendeva con tutte le suore d’Italia). Ma contemporaneamente tiene il Sacro Cuore di Gesù tessuto sul petto.

Lo dico perché, quando si considerano grandi fenomeni culturali, occorre sempre fuggire dalle semplificazioni. Per troppi anni il futurismo è stato letto in maniera semplificatoria. Così la figura di Marinetti. Si parla dei futuristi come se si trattasse di un branco di fascistoidi  che volevano fare della confusione e che si inventavano bizzarramente delle cose. Per molti anni nella cultura italiana  su questo che è l’unico grande movimento internazionale che si è avuto in Italia  nel ’900, è stata messa una cappa di pregiudizio e di giudizio sommario, senza stare attenti alle articolazioni  e alle questioni molto profonde che invece questo movimento ha suscitato.
Qualche mese fa ero in Brasile e in Venezuela; lì ci sono artisti che ancora oggi , dall’altra parte del mondo, si rifanno al nostro futurismo. E quando si va a New York nel più grande museo di arte contemporanea, e si vede che c’è Boccioni, ci si sente orgogliosi di essere italiani, perché capiamo che quell’opera lì è un capolavoro in modo assoluto. E non molti altri artisti italiani  hanno avuto questa forza e questo destino. Lo dico perché dobbiamo fare i conti, e il Centenario ci aiuta,  con una idea più complicata, più ricca, più rispettosa di un fenomeno culturale e di una persona che hanno sicuramente dato  lustro e profondità alla cultura italiana.

’900: TUTTO CAMBIA

Detto questo, volevo farvi attenti innanzi tutto alle date.
Ho detto che questo Manifesto viene pubblicato nel 1909. In quegli anni lì, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ci sono formidabili rivoluzioni in tutti i  campi.
Non si può pensare al futurismo, e alla serie di rivoluzioni tra le diverse estetiche che il futurismo propone, separandolo dalla sua epoca in cui stanno avvenendo in tutti i campi delle rivoluzioni, dei cambiamenti di prospettiva enormi.  Giustamente un grande poeta moderno, Piero Bigongiari, tutt’altro che futurista, uno dei poeti ermetici più profondi, che si definiva un bradico, un animale lentissimo, in un suo saggio sul futurismo, che è il movimento della velocità, dalla sua grandissima distanza, lo leggeva come una cosa importante. Faceva notare: guardiamo le date prima di classificare i futuristi come degli ingenui fascistoidi: 1909, pubblicazione del Manifesto fondativo del Futurismo.  1905, Einstein pubblica la teoria della relatività  Nel 1900 Max Frank è andato negli Stati Uniti a spiegare la teoria dei quanti. Era un momento in cui scienza, tecnica, e quindi anche letteratura, per virtù dei futuristi, stavano cambiando il modo di vedere il mondo. E Bigongiari, nel suo saggio, dice, che in quegli anni lì stava cambiando la percezione della realtà. La scienza ci stava facendo vedere che lo spazio, il tempo non erano quello che pensavamo, che la materia non era una cosa ferma, ma che c’erano i quanti: la materia è fatta di energia.
In quel momento, tra gli altri spunta un uomo che conosceva benissimo la letteratura prima di quel momento e che professa una letteratura nuova: nel momento in cui sta cambiando anche lo sguardo della scienza alla realtà, alla materia. Nel ’900 muore  Nietzske. In quegli anni comincia la sua attività Freud. E’ il momento in cui l’uomo sta cambiando lo sguardo fuori di sé e dentro di sé, e da Milano spunta Marinetti che dice: qui bisogna cambiare tutto.
E’ importante tenere presenti queste date per non isolare il fenomeno e ridurlo a una nuova stramberia.


INTRODUZONE AL MANIFESTO

Vediamo come Marinetti scrive introducendo il suo Manifesto.

Avevamo vegliato tutta la notte, i miei amici ed io. Sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforate, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgore  di
un cuore  elettrico.

Faccio notare una cosa. Il movimento subito si propone come un gruppo di amici. Va tenuto in mente perché tutta l’azione del futurismo sarà segnata dal fatto che Marinetti si metteva sotto la galleria Barbara Savini di Milano e lì, lui e gli altri, tenevano cartoline, come si usa nelle mostre, e si mettevano in relazione con un sacco di amici sparsi per l’Italia. E molti Manifesti sono firmati da più persone. Era un modo per rompere uno dei grandi tabù che ci portiamo dietro che è l’idea dell’autore, come del personalismo assoluto, dell’io dell’autore come un mammut, imbattibile.
Marinetti fin da subito dice: “io e i miei amici”. E sono veramente amici. Ci sono storie che sarebbe interessante riprendere se ne avessimo il tempo. Bisognerebbe, per esempio, vedere quando arriva la notizia della morte in guerra di uno di questi. C’era un legame vero tra loro. Questi giovani futuristi si muovevano per l’Italia con i treni di allora, che erano molto peggio di adesso, e si trovavano per le varie letture. Era una sorta di consorteria amicale: io e i miei amici.
Marinetti parla subito dopo di lampade di moschea. Si potrebbe dire: esotica questa immagine: si parla di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime perché come queste irradiate  dal chiuso fulgore di un cuore elettrico… Ma Marinetti, come Ungaretti, è nato ad Alessandria d’Egitto. Appartiene a quella razza di italiani che ebbero vita e fortuna in queste zone dell’Africa. Quindi parlare di moschea per Marinetti non era esotico. Le lampade sono quelle che lui aveva visto, come racconta in vari brani sulla sua infanzia e delle passeggiate con la madre…
Il cuore è detto già elettrico fin dalle prime righe. L’elettricità era allora una cosa stupenda, stupefacente. A noi adesso non fa nessun effetto entrare in camera, accendere la luce. Ma all’inizio del ’900  non era così. Scrivere il “cuore elettrico” era un omaggio a una invenzione  recentissima come uso normale. Noi oggi forse diremmo “elettronico”.

avevamo lungamente calpestato su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia
 
L’accidia è un crogiolarsi nell’inutilità, è lo stabilirsi inutili, magari anche soffrendone. E’ uno dei grandi peccati che Dante fustiga nell’uomo. L’accidia è la cosa peggiore per l’uomo, perché è il primo tradimento della sua dignità, è il primo modo con cui uno tradisce se stesso. E oggi credo che sia uno degli atteggiamenti più diffusi nel mondo.

discutendo davanti ai confini estremi della logica  e annerendo molta carta di frenetiche scritture.

Sono amici che stanno discutendo fino ai confini estremi della logica, calpestando l’accidia.

Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli in quell’ora ad essere desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate di fronte all’esercito delle stelle nemiche occhieggianti nei loro celesti accampamenti

C’è subito un’immagine guerriera, di veglia.
I futuristi si sentono orgogliosi di essere soli, non gli unici:

soli con i fuochisti che si agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi  che frugano nelle pance arroventate delle locomotive  lanciate a pazza corsa, soli con gli ubriachi annaspanti con incerto batter d’ali lungo  i muri della città.

L’immagine è tipicamente baudelairiana: ubriachi lungo i muri della città: è Boudelaire.
Marinetti è l’autore che sta per negare tutto quello che viene dalla tradizione simbolista, ma lo fa usando quel materiale lì. Vuole andare oltre la poesia e la letteratura del suo tempo, ma lo fa utilizzandone le immagini, le allegorie. E non può che essere così.

Sussultammo ad un tratto all’udire il rumore formidabile degli enormi tranvai a due piani che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come villaggi in festa che il posto abitato
scuote e sradica all’improvviso per trascinare fino al mare sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio.
(Siamo a Milano: con i tram che passano).
Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbottio di preghiera del vecchio canale, lo scricchiolar delle ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.
(“gli automobili”: al maschile, Perché non può essere maschile una cosa che si automovimenta?)
“Andiamo,  – dissi io – partiamo,  finalmente. La mitologia e l’ideale mistico sono superati. Andiamo, andiamo”.

Non molti anni dopo, quaranta, quarantacinque, uno scrittore,  Kerouac, disse: “Andiamo. Dove? Non lo so. L’importante è andare”.
La necessità di andare in Marinetti anticipa moltissimo quanto percepiscono tutti coloro che si sentono avanguardia: è la necessità di non stare dove si è. E’ un andare in cui magari non è chiaro dove si sta andando, ma che muove dalla necessità di non stare dove si è. E’ un andare che muove da una insoddisfazione più che da un’idea, da uno scopo.
Il futurismo, e Marinetti stesso, è tutt’altro che una sorta di blocco monolitico  che aveva già deciso di andare da “a” a “b”. Le stesso percorso di Marinetti è tutt’altro che lineare: non solo in campo politico.

Faccio solo una piccola parentesi sull’aspetto politico, perché non è questo il punto del tema di oggi.
Marinetti ha aderito  al fascismo nascente, qui a Milano, negli anni ’10/’20. Lui aderisce formalmente al fascismo tra il ’13 e il ’20. Poi esce dai Fasci.
Martinetti con i suoi amici del futurismo aderisce al fascismo in fase nascente, quando era ancora un movimento socialista. Tanto è vero che molti studiosi anche di allora dicono : “Ma chi sono questi fascisti e anche questi futuristi? Sono gente di destra , di sinistra, sono comunisti, sono socialisti? Cosa sono?”.
Voi sapete che la genesi del fascismo, che oggi viene fatto passare come un movimento di destra, invece, secondo le categorie che usiamo oggi, fu di sinistra.
Marinetti aderisce  a Mussolini che aveva conosciuto a Milano  dove dirigeva l’”Avanti”, il giornale socialista. Aderisce al fascismo nella prima fase sorgiva di tipo socialistico, per poi abbandonarlo, di fatto, nella fase intermedia, quando si consolidarono le linee più reazionarie e più pericolose del fascismo, più classicheggianti, romaneggianti dal punto di vista estetico. A questo punto  Marinetti, insieme  ai suoi amici, si distacca e si dimette dai Fasci. Continua una attività fiancheggiatrice di tipo nazionalista. Amava l’Italia.  Per questo amore all’Italia, sul finire della vita, soprattutto, dopo le varie delusioni che il fascismo gli aveva riservato, aderisce  alla Repubblica Sociale di Salò. Questo organismo nacque nella grande confusione della seconda guerra mondiale, quando Mussolini si ritirò lì e fondò la repubblica. Per quanto fosse piccola e scalcagnata, Marinetti vi vede un germe possibile di una Italia non più monarchica e forse di tipo socialistico utopico.
Il percorso di Marinetti rispetto al fascismo, e oggi gli studi l’hanno esplorato, è tutt’altro che di adesione meccanica e scontata. Se mai fu un entusiasmo iniziale, una delusione mantenuta negli argini di una osservazione, di una adesione patriottica, e un riavvicinamento verso la fine quando Marinetti decide di andare, oltre la normale età, volontario in Russia. Lì si ammala di quella malattia che lo fa morire nel ’44. Questo per dire che il suo rapporto con il fascismo è tutt’altro che ideale.  Sorel, Del Noce hanno degli scritti interessanti su questo.

Andiamo, – dico io – andiamo. Partiamo. La mitologia e l’ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del centauro e presto vedremo volare i primi angeli. Bisogna scuotere le porte della vita (è una affermazione molto bella) per provarne i cardini e i chiavistelli. Partiamo. Ecco, sulla terra la primissima aurora. Non c’è cosa che agguagli lo splendore della rossa spada del sole che schermeggia per la prima volta nelle nostre tenebre millenarie.

Non c’è niente di più bello che l’alba. La moglie di Marinetti, Benedetta, nota il fatto che Marinetti all’alba si svegliava sempre o che aveva comunque una predilezione per l’alba.
Marinetti scrive perché, mentre è a casa con i suoi amici, mentre sente passare i tram, a un certo punto sente passare le automobili.

Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti per palparne affettuosamente i motori ed i petti. Io mi stesi nella mia macchina come un cadavere in una bara ( immagine strana, tipica della scapigliatura e di tutta  la poesia tardo simbolista, da prendere positivamente, nel senso di ‘alla perfezione’), ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco.  La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie (sta raccontando in modo molto roboante e molto allegorico che partono in macchina) scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i vetri di una finestra, ci insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi perituri.

E’ il momento in cui la scienza sta insegnando a guardare le cose in un altro modo. La materia non è quella cosa che vediamo disposta apparentemente in modo chiaro ai nostri occhi.  Le cose non sono quelle che si vedono, non sono matematicamente quello che appaiono agli occhi. La realtà non è fatta di quello che vediamo appena con gli occhi. E’ fallace la matematica dell’occhio che vede. L’apparenza inganna, si potrebbe dire in maniera più banale.
Se uno va a vedere le opere dei maestri futuristi  vede che “donna con finestra” di Boccioni è un quadro  in cui la fallacia matematica dei nostri occhi è messa alla prova perché la percezione che noi abbiamo della presenza alla finestra della donna non è una percezione puramente fisica, puramente geometrica. Così le figure dei cavalli o dell’uomo che corre, le figure in movimento, non sono più viste da scultori e pittori futuristi nella loro esatta ginnastica, ma vengono visti contemporaneamente con tutti i movimenti. E’ un problema di simultaneità che poi verrà teorizzato. In questo raccontino della gita in macchina vediamo che vengono toccati aspetti profondi: “la fallace matematica ai nostri occhi”. Il futurismo fa una lotta fortissima contro la fallace matematica dello sguardo. Se vedi un uomo che cammina, non vedi solo l’uomo che cammina, ma tutti i suoi movimenti contemporaneamente.

Io gridai: “Il fiuto, il fiuto solo basta alle belve”.

C’è uno scardinamento della genealogia dei sensi. Non è lo sguardo, ma il fiuto che ci fa cogliere le cose.
In questo raccontino stiamo già muovendoci in direzione di un’arte totale. Non ci sarebbe la video arte, non ci sarebbero i video clip o il video music-hall senza i futuristi. Sono i primi che hanno dato avvio a un’opera d’arte totale in cui non ci sia la pittura che è per gli occhi, la poesia che è per le parole, la musica che è per le orecchie, ma una simultaneità e un confondersi delle gerarchie delle arti. Non a caso la pop arte ha mischiato le forme di espressione.
Tutto questo non ci sarebbe se Marinetti non avesse scombinato il campo in quel momento.

E noi, come giovani leoni, inseguivamo la morte dal pelame nero maculato di pallide croci che correva via per il cielo alto e violaceo, vivo e palpitante.

Tutto questo è un inseguire la morte.

Eppure non avevamo  un’ amante ideale che ergesse fino alle nuvole la sua sublime figura, né una regina crudele a cui offrire le nostre salme contorte a guisa di anelli. Nulla per voler morire se non il desiderio di liberarci finalmente dal nostro coraggio troppo pesante.

Questa è una frase micidiale. Dice: inseguivamo la morte e, a differenza dei poeti simbolisti, romantici, non facciamo tutto questo perché abbiamo un’amante ideale a cui offrirci, una regina
a cui dedicarci in tutte le poesie, in tutte le canzoni. Non abbiamo un idolo femminile a cui dedicarci: “morirò per te…”. Non c’è questo, non c’è l’omaggio alla donna fino alla morte. C’è l’omaggio alla morte per il desiderio di liberarsi del nostro coraggio troppo pesante.
Per definire questo non c’è altra parola, ed è stata usata per questo, che “mistica”. Prima si dice che è finito il tempo della mitologia e dell’ideale mistico: basta con l’ideale. E’ il tempo dell’azione, non del sogno. Ciò che è azione diventa mistica.
Marinetti  è un uomo che sente il suo stesso coraggio troppo pesante. Si vuole liberare di quello e perciò sta inseguendo ciò che lo libera dalla gravità di se stesso.

E noi correvamo schiacciando sulle soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano sotto i nostri pneumatici scottanti come solini (colletti inamidati) sotto il ferro da stirare. La morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolta per porgermi la zampa con grazia e quando a quando si stendeva per terra con rumore di mascelle stridenti, mandandomi da ogni pozzanghera sguardi vellutati e carezzevoli.

La morte addomesticata: questo è il grande tema non solo di Marinetti, ma di tutti i grandi intellettuali del Novecento. Che cosa vuol dire “addomesticata”? Vuol dire: che la morte non sarà il grande avversario, ma amica.

Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio

Questo è il grido di tutti i grandi filosofi, scrittori del Novecento: da Nietzche a Kafka: uscire dalla saggezza come da un orribile guscio.

 e gettiamoci come frutti pigmentati d’orgoglio

L’orgoglio fa riferimento, a parte che a Nietzche, a una dimensione volontaristica fortissima. L’orgoglio del volontarismo, di incarnare un nuovo tipo di uomo, o superuomo per Nietzche, o di uomo nuovo secondo l’ideologia del tempo, è veramente una volontà, uno sforzo grandissimo.
Gli studiosi dicono: “E’ mai possibile che quest’uomo, che nel 1905 sta girando i teatri professando e facendo conoscere la poesia simbolista, due anni dopo  fa un Manifesto che vuole essere tutto il contrario?” Evidentemente c’è una decisione, c’è una volontà fortissima di dire: “Ecco, quello è diventato vecchio, io faccio il nuovo”. E’ un atto di volontà. Questo in Marinetti si è concretato non solo con parole scritte, ma anche con una azione straordinaria: di editore, di educatore di giovani, di valorizzatore di energie altrui. Ha dilapidato il patrimonio paterno che era molto cospicuo spendendo  molti soldi per pubblicare lavori di gente sconosciuta, per permettere a musicisti di provare il loro talento. Era un grande imprenditore della cultura non solo per la propria promozione letteraria, ma anche per una grande promozione di altri.

entro la bocca immensa e torta del vento. Diamoci in pasto all’Ignoto (questa parola è nell’ultimo verso de I Fiori del Male) per trovare il nuovo. Non per disperazione, ma soltanto per colmare i pozzi profondi dell’Assurdo.      

La parola “Assurdo” è parola chiave. Pensate al dadaismo. Io credo, anche per aver letto le altre cose che ha scritto Marinetti, che l’Assurdo non è quello che l’uomo inventa, ma ciò che l’uomo stana nella vita. Lo chiama Assurdo perché non lo comprende nella misura dei comportamenti, passando dal piano dell’arte al piano della vita. Pensiamo a quanto è successo pochi giorni fa in Germania ove uno entra in un’aula e ammazza 17 persone. Si dice: “E’ assurdo!”. Si può fare il tentativo di capire perché un ragazzo ha fatto queste cose. Ma a un punto ci si deve fermare  e dire: “C’è dell’assurdo in questo”.
L’arte del Novecento ha presunto di potere e ha voluto allargare i propri confini fino a comprendere l’assurdo. E non ha avuto bisogno di inventare l’assurdo. L’assurdo fa parte del reale. Questi artisti l’hanno capito e lo hanno portato in evidenza, non l’hanno lasciato fuori dei territori dell’arte.
Invece sembrava che nel territorio dell’arte l’assurdo dovesse scomparire  perché c’è la forma che deve tornare sempre, come il sentimento. Qui invece si dice che l’assurdo fa parte di tutto il reale.

Avevo appena pronunciato queste parole che girai improvvisamente su me stesso con l’ ebrietà folle dei cani che vogliono mordersi la coda. Ed ecco a un tratto venirmi incontro due ciclisti che mi diedero torto, titubando innanzi a me come due ragionamenti , entrambi persuasivi e non di meno contraddittori. Il loro stupido dilemma discutevano sul mio terreno.

In questo prologo al Manifesto, Marinetti sta raccontando che uscendo di casa lui e gli amici vanno in macchina. Vengono loro incontro due ciclisti che (bellissima immagine), come i ragionamenti, procedono e vanno poi indietro. Con il loro stupido dilemma, discutevano sul mio terreno e mi davano noia. Lui che guida non capisce dove vanno.

Che noia! Auff! tagliai corto e per disgusto mi scaraventai con le ruote all’aria in un fossato.

Questo incidente è avvenuto effettivamente. Lui sta raccontando una cosa che è successa, ma traveste l’incidente del suo essere andato fuori strada per due ciclisti per dire tante altre cose. Ẻ evidentemente un uomo che ama il teatro.

Oh, materno fossato (Nessuno di noi avrebbe detto così. Ce la saremmo presa con il sindaco), quasi pieno d’acqua fangosa, bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante (siccome doveva rovesciare il mondo, rovescia anche l’incidente, il fossato, la melma) e mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese. Quando mi sollevai, cencio sozzo e puzzolente, (chiama le cose con il suo nome) di sotto la macchina capovolta, mi sentii attraversare il cuore deliziosamente dal ferro arroventato della gioia (come gioia?). Una folla di pescatori armati di lenza, di naturalisti puntagrosi, tumultuava già intorno al prodigio (aveva dato spettacolo, no?).
Con cura paziente e meticolosa quella gente dispose alte armature di enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile a un gran pescecane arenato.

Bellissimo! Nel 1909 non è che ci fossero tante automobili in giro come adesso, quindi è chiaro che l’automobile nel fosso era uno spettacolo epico: il mio pescecane arenato!

La macchina emerse lentamente dal fosso abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso, le sue morbide imbottiture di comodità.

Marinetti sta parlando di sé. La macchina è emersa dal fossato e lasciò lì le borghese comodità: a questo spirito sempre si attenne Marinetti nella sua vita militante e lasciò le comodità borghesi che poteva avere. Lasciò lì il buon senso. L’incidente sta diventando il racconto della uscita dalla selva oscura, dantescamente la sua rinascita.

Credevano che fosse morto il mio bel pescecane, ma una mia carezza riuscì ad animarlo ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa di nuovo sulle sue pinne possenti. Col volto coperto della buona melma delle officine (quindi con questa maschera), impasto di scorie metalliche che di sudori inutili, di fuliggini celesti, noi, confusi e fasciati le braccia, ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra.

L’ uomo che riemerge da questo grande cambiamento come da una grande rivoluzione, con la maschera nera, dà l’idea che è successo, è cambiato qualcosa. Quindi Marinetti riappare con la maschera nera.
Sono gli anni in cui Picasso dipinge le maschere africane. Teniamo presente che l’arte non avviene mai nel niente. In quindici anni Pablo Picasso cambierà la pittura contemporanea perché va a vedere in un museo una mostra di maschere africane. Allora comincia a disegnare anche la maschera umana in un altro modo. E pensiamo i volti di Modigliani: come sembrano, alle volte, maschere africane, lunghe come si rappresentano nei paesi africani.
Con la maschera nera Martinetti detta le sue volontà agli uomini, pur con le braccia fasciate.

Da questo punto inizia il vero Manifesto del Futurismo. Fino ad adesso c’è il prologo che racconta la genesi di questa rivoluzione

IL MANIFESTO

I. Noi vogliamo cantare la morte e il pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.

Vorrei fermarmi un attimo sulla parola “pericolo” che suscita subito l’idea del mettersi a repentaglio.
Amare il pericolo significa fare cose strane per cui magari ci lasci le penne. Abbiamo così una considerazione povera del pericolo.
Vorrei ricordare che la parola “pericolo” fa parte, dal punto di vista della radice linguistica, della parola “esperienza”. Usiamo spesso questa parola: “fare un’esperienza”, “salvarsi per esperienza”, “avere esperienza”. Questa parola è importantissima, capitale nell’esperienza di ciascuno. Porta dentro di sé la radice di “pericolo”. Ogni esperienza, qualsiasi essa sia: di innamorarsi, di crescere, di iniziare un lavoro, è una vera esperienza se non è un solo passare delle cose sulla pelle, ma se è anche un pericolo, se c’è qualche cosa in gioco, se c’è un correre un rischio. Se non si corre un rischio, in cui si acquista qualcosa e si perde qualcos’altro, l’esperienza non è vera. Per questo è esperienza solo quella in cui in qualche modo uno sta giudicando cosa perde e cosa acquista. Se mentre vivi una qualsiasi cosa, che può essere una gita scolastica, come un grande amore, come la bevuta con gli amici, come la scoperta dell’Himalaya, se mentre vivi questa esperienza non stai comprendendo, non stai giudicando che cosa stai acquistando o perdendo nel rischio che vivi, non fai un’esperienza, ma passi il tempo con qualche cosa che non ti lascia niente in realtà.
Marinetti aveva ben chiara questo, e quando parla del pericolo, lo fa provocatoriamente. Ma parlando così delle cose estreme, sta richiamando l’idea dell’esperienza come qualcosa in cui si rischia. Il pericolo di cui parla Marinetti è tutto un pericolo morale e intellettuale.
I futuristi giravano tutti i teatri d’Italia e alla fine tiravano calci, ma non è che rischiavano qualche cosa. Poi alcuni andando in guerra rischiarono (non erano però terroristi, non erano le B.R.), non erano di quelli che solo teorizzavano il pericolo, lo seguivano. Non erano però un movimento di avanguardia politico, violento. Affrontavano un pericolo morale e intellettuale.
Marinetti parla poi di abitudine all’energia, come fatto abituale. Questa abitudine all’energia e alla temerità vuole combattere.

II. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia .

Parla della poesia, ma di una poesia che diventa azione.   

III.  La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno.

La poesia fino ad oggi ha pensato il poeta un immobile pensoso che sta lì e pensa. Da lì nascono come partorite le poesie. L’estasi, o il sonno come luogo dei sogni, è come il compimento dell’esperienza poetica, sia per il poeta come per il lettore.

Noi invece vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia  febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.

Infatti i testi che il futurismo produrrà avranno l’effetto dello schiaffo e del pugno rispetto alla letteratura precedente.

IV. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo sia arricchita di una bellezza nuova, la bellezza della velocità.

Per noi oggi non è strana questa affermazione, ma dovete pensare come lo era per allora, per il mondo che poco prima era andato a cavallo, poi in bicicletta. Poi spuntano le automobili, gli aeroplani. E’ un cambiamento straordinario. Ma non si può ridurre questo amore per la velocità a un puro amore tecnologico, a una specie di innamoramento di queste nuove forme. E’ semmai un’accentuazione di un altro tipo di metodo, di movimento intorno all’arte.

Un’ automobile da corsa con il suo cofano adorno (questo termine fece arrabbiare molti) di grossi tubi simili a serpenti, dall’alito esplosivo… un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia,  è più bella della Vittoria di Samotracia  (la famosa Nike di Samotracia).

Questo era un andare a demolire l’omaggio abitudinario all’arte, all’opera bella per eccellenza. Un’automobile, si dice, una nuova cosa, può essere più bella di quella.

V. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante (uomo che guida: la storia, la propria vita) la cui asta ideale (il volante) attraversa la Terra,lanciata a corsa, esse pure, sul circuito della sua orbita.

E’ straordinaria l’immagine del volante che perfora la terra che, lei stessa, è in movimento.

VI. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.

Non importa niente l’interiorità del poeta: che versi le sue lacrime, i suoi sentimenti e lamenti.  Interessa che l’opera del poeta aumenti l’entusiastico fervore degli elementi primordiali della natura e della vita. Non c’è bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.
Questa affermazione può sembrare quasi paradossale. Il  carattere aggressivo di un’opera d’arte! Dobbiamo aiutarci a capire, perché stiamo parlando di estetica. Troppo facilmente Marinetti dice che qualsiasi capolavoro ha un carattere aggressivo?.
La Divina Commedia ha un carattere aggressivo perché è assolutamente contraria a quanto riassume tradizioni precedenti, all’estetica del suo momento. Gli accademici di Bologna, i più importanti del Trecento, sconsigliano a Dante di scrivere in volgare. E Dante invece aggressivamente segue la sua direzione, sperimentalmente va dall’altra parte. Un capolavoro ha sempre un aspetto aggressivo in questo senso. Ha ragione Marinetti.

VII.  Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.

Qui Marinetti è dentro l’ipotesi di quell’epoca: stiamo scoprendo l’elettricità. Stiamo scoprendo i quanti. L’uomo si illude molto fortemente in quel momento di poter ridurre tutto il potere della natura: posso imbrigliare l’elettricità, come adesso molti si illudono di potere imbrigliare il cervello, il DNA. L’illusione scientista, di cui Marinetti fa in qualche modo parte, prende molti uomini nel momento in cui vedono le possibilità di certe scoperte. Poi succede, come è successo recentemente in Italia, un fatto come quello di Eluana Englaro in cui si dimostra che la vita è un mistero. E se cerchi di comprenderla solamente a livello di DNA, non la comprendi.

VIII. Noi siamo sul promontorio più estremo dei secoli !…

Era un’epoca in cui si sentiva così. C’era stata la rivoluzione bolscevica nel ’17, e tanti si sentivano in un momento di svolta.

Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri.

Questa affermazione che Marinetti fa in ambito estetico letterario  è una cosa che Einstein aveva scoperto e scritto  venti anni prima dicendo che il tempo e lo spazio come erano stati concepiti fino a un momento prima, non erano così. I rapporti erano diversi.

Noi viviamo già nell’Assoluto, perché abbiamo già creato l’eterna velocità onnipresente.

IX. Noi vogliamo glorificare la guerra –  sola igiene del mondo –  (Queste sono le frasi più famose e incriminate del Manifesto), il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

Su questo punto IX si è concentrata tutta la polemica antifuturista perché  Marinetti vuole la guerra igiene del mondo, la distruzione, il disprezzo della donna.
E’ il peggio del peggio: guerrafondaio e contro la dignità umana.
Bisognerebbe leggere altri brani, ma adesso non c’è tempo. Sulla questione della guerra come igiene del mondo, Marinetti sta dando un giudizio storico, come tanti altri ideologi del tempo, per cui le forze, i movimenti  messi in campo dalla società di massa possono trovare momenti di soluzione  e di ricomposizione solamente attraverso la guerra.
Tutte le cose sono messe in gioco: il mercato, le ideologie, i grandi mutamenti, i grandi disagi psicologici. Molti pensavano e pensano che possono avere un momento di rinnovamento o di igiene, di riposizionamento, solo attraverso una guerra. Quante volte sentite per la strada gente che dice: “Ci vorrebbe la guerra!”. Non perché amano la violenza, la morte, la distruzione,  ma perché si ritiene da loro che a un certo punto le pulsioni presenti nella società, i dissidi tra interessi e anche i disagi tra le varie classi sociali, tutte queste cose che sono parte di una società di massa, non riuscendo a comporsi in altro modo, abbiano “bisogno” (diciamo così ) di una guerra per risistemarsi.
Questo è il motivo per cui in molti casi sono nate le guerre. I potenti di quel momento, non riuscendo più a governare le dinamiche delle società, le hanno risolte portandole in guerra.
Marinetti non sta parlando differentemente da quello che hanno fatto i  presidenti degli Stati Uniti, della Russia, della Germania suoi coetanei. Non è un matto che va pensando che la guerra faccia bene alla gente. Sta ragionando dal punto di vista della sociologia sul fatto, probabilmente, che sembra che la società di massa non sia in grado di tenersi, di comporsi e che ogni tanto un conflitto debba rimettere a posto le cose.
E’ un pensiero terribile, ma meno irrealistico di quello che sembra, o, meglio, meno violento di quello che sembra.
Marinetti era fondamentalmente un anarchico libertario, patriottico ma libertario, anarchico, e si augura un gesto distruttore dei libertari.
Così è contro il moralismo e vuole il disprezzo della donna. Qui le signore si sentono disprezzate. In realtà, se andate a vedere gli scritti che approfondiscono queste cose,  Marinetti, che non disprezzava le donne, anzi, tutt’altro se mai, non intende qui parlare di disprezzo della donna. Ha disprezzo contro l’immagine della donna  che in quel momento era stata data.
Se andate a vedere il suo scritto più importante, che è quello contro il Parlamentarismo, trovate alcune frasi in cui Marinetti addirittura è uno dei primi che si programma per il suffragio universale. Altro che disprezzo della donna! L’immagine della donna che fino a questo punto era stata data della donna era deleteria. E’ contro quella donna che va. Non solo tante donne furono futuriste e c’è pure un Manifesto delle donne futuriste,  ma Marinetti vuole anche operare per una donna che abbia la stessa educazione degli uomini, la stessa dignità, lo stesso voto.
Lui dice: “E’ della donna trattata come fino a adesso che non ci possiamo fidare, della donna come l’hanno confezionata con una certa retorica, con una certa ipocrisia”. Su questo Marinetti ha delle pagine molto acute. Lui ce l’ha con i femministi perché dice che vogliono fare i femministi, ma mantenere la famiglia. Va a braccare un certo femminismo facile, per fare un discorso sulla donna più forte di quello che stava facendo il femminismo in quel momento.
Poi continua con un altro punto controverso.

X. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.

In genere viene messo l’accento su alcune cose del futurismo. Marinetti dice: “vogliamo andare contro ogni viltà opportunistica e utilitaria”. E’ un grande impegno morale. Di opportunismo e utilitarismo l’Italia è ammalata ancora oggi.
Dice: “vogliamo distruggere i musei e le biblioteche”. Chi dice così è un editore, non è uno che odia i libri. Evidentemente ce l’ha contro una certa museificazione della cultura, una certa sistemazione della cultura in schedari che la uccidono. Perché quando anche hai schedato tutti i libri non serve se non hai più nessun motivo per leggerli; non serve una bella biblioteca, se non c’è più letteratura. E’ inutile avere  infiniti libri nelle biblioteche e nessuno più che leggendo un libro si appassioni a leggerlo. Ed è il rischio che oggi corriamo molte volte. Hai un bel museo, ma più nessuna educazione all’arte.
Questa morte nella conservazione della cultura faceva imbestialire Marinetti ed era esattamente il contrario di quello che stava facendo lui. Certamente il futurismo non fu né museale, né bibliografico in senso deleterio, ma era essenzialmente un movimento vitale: libri, relazioni, amicizia, critica, tutto coincideva, tutto stava insieme. Marinetti non poteva sopportare che un’opera d’arte fosse conservata in un museo, che non ci fosse un’azione dell’opera d’arte.  In questo senso lui, che sembra distruttivo, è invece assolutamente propositivo.
Pensate al dibattito e al movimento di oggi su arte e musei. Si sente la necessità di rinnovare i musei. Il successo delle grandi mostre alle volte si ottiene con lo spostamento di pochi chilometri di opere che sono nei musei. Questo vuol dire che i musei hanno fallito una certa intenzione e per inventare la fruizione dell’arte bisogna inventarsi delle soluzioni per invitare alle mostre. Per il fatto che all’Accademia di Brera sono stati esposti due o tre quadri di Caravaggio, che è un nome che attira, la gente ha scoperto che cos’è l’Accademia di Brera dove ci sono dei capolavori straordinari. Ma hanno dovuto demuseificare il museo per renderlo vivo. Quindi Marinetti aveva ragione. Oggi ce ne accorgiamo molto di più. Pensate al successo dell’arte performance. Qualche volta bisogna andare dove c’è la gente e non aspettare il contrario.

XI. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi;

Pensate a quanta lettura delle metropoli è nata, a quanto cinema che ha a che fare con queste cose qui.

i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. E’ dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi IL FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese  dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari.

Questo accento sull’Italia, va detto subito, è tutt’altro che un nazionalismo bieco e gretto. E’ l’amore di un uomo italiano, nato all’estero, che ritiene l’Italia la cosa più bella che ci sia, l’Italia sempre ferita, ma sempre viva.
Gli italiani che girano il mondo in ambito culturale, se uno non è scemo o utopico ideologico, comprendono l’orgoglio dell’essere italiani vedendo l’arte del Novecento nel mondo, molto legata al futurismo.   Vedi all’estero Boccioni o altri pittori del suo movimento importanti e capisci l’influenza dell’arte futurista.  Pop-Art senza Marinetti non sarebbe esistita. Non siamo noi a dirlo, lo dicono loro.
Possiamo dire con orgoglio serio: l’Italia ha dato qualcosa. Non è vero che l’Italia del Novecento è una cenerentola e basta. E forse l’unico movimento d’arte internazionale nel Novecento è nato da Marinetti. E’ in un giornale francese che si scrive: “E’ dall’Italia che è nato questo movimento. Avete copiato e assunto la paternità di queste idee, ma dall’Italia è cominciato, anche se annunciato da  Le Figaro”.

Già per troppo tempo l’’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli.
Musei e cimiteri identici veramente per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei, dormitori pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti.

Fa effetto questo. Uno va nei musei e trova un artista la cui opera è messa lì, magari accanto a quella di un altro artista che lui non solo odiava, ma che non conosceva per niente. Uno strano destino.

Musei, assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente e colpi di colori e di linee lungo le pareti contese. Che ci si vada in pellegrinaggio una volta all’anno come si va nel camposanto nel giorno dei morti, ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda ve lo concedo. Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine.
Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere in un vecchio quadro se non la faticosa contorsione dell’artista che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere poste al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?

E’ interessante vedere come Marinetti parla di un quadro. Sembra una cosa negativa. Ma pensate: sta parlando di se stesso. Dice che cosa si vede in un quadro se non la contorsione, lo sforzo, di chi provò a infrangere, a superare le barriere? Non è quello che sta facendo lui? Non sta parlando in realtà dell’antico quadro come di quello che sta facendo lui? E perché – dice — guardare il vecchio sforzo; guardiamo il nuovo. Questo non squalifica lo sforzo dell’artista antico, anche se lo sembra.
In realtà c’è una connessine: il suo sforza è il mio sforzo, è lo stesso.

Ammirare un quadro antico equivale  avversare la nostra sensibilità in un’urna funeraria  invece di proiettarla lontano con violenti gesti di creazione e di azione.

Bearsi solo di un quadro antico significa buttare la nostra sensibilità nel passato invece che proiettarla nel futuro.
Questa affermazione può sembrare un denigrare l’arte antica, e in parte lo è, ma c’è l’aspetto di una concezione dell’esperienza estetica che è giusta. Se uno si bea solo nel passato e mette la sua serenità solamente nel passato, vuol dire che non ha futuro. Dico da poetastro: se io mi facessi solamente la lettura di Leopardi, e mi beassi di Leopardi, e non facessi i conti con la poesia che si sta facendo adesso e che sarà la poesia di domani, non mi coltiverei adeguatamente come artista.

Volete dunque sprecare tutte le forze migliori in questa eterna inutile ammirazione del passato da cui uscite talmente esausti, diminuiti e calpestati? In verità vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche, delle accademie, cimiteri di sforzi vani, calvari di sogni crocifissi, registri di slanci stroncati, è per gli artisti altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani, ebbri dei loro ingegni e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gli infermi, per i prigionieri, sia pure. L’ammirabile passato è forse un balsamo per il loro mali poiché per essi l’avvenire è sbarrato. Ma noi non vogliamo più saperne del passato, noi giovani e forti futuristi. E vengano dunque gli allegri incendiari della vita carbonizzata. Eccoli, eccoli!  Impugnate picconi, e scuri, martelli, e demolite senza pietà le città venerate.

C’è una grande enfasi sulla distruzione, evidentemente per una ricostruzione. Il futurismo, a differenza di altri grandi movimenti  artistici e ideologici, ha una grande forza corrosiva, ironica e distruttiva, ma in virtù di una grande forza propositiva che invece ad altri movimenti manca.
Sicuramente Marinetti era un distruttore per costruire, non per annichilire. Non c’è mai cinismo, scetticismo distruttore nella parola di Marinetti. C’è sempre una distruzione feroce, anche sbagliata per certe motivazioni, ma sempre per una costruzione. C’è un credito al futuro, non un discredito e basta del passato.

I più anziani tra noi hanno trent’anni. Ci rimane dunque almeno un decennio (quasi profetico!) per compiere l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi ci gettino pure nel cestino, come i manoscritti inutili. Noi lo desideriamo. Verranno contro di noi i nostri successori  

E’ interessante che un avanguardista, a differenza delle avanguardie a metà del Novecento, sa già che il suo destino non sarà ossificarsi, rimanere avanguardista sempre, come certi personaggi patetici di metà Novecento che si crederanno avanguardisti anche a novant’anni. Lui sente che arriveranno altri giovani che getteranno nel cestino i futuristi. In questo c’è una strana generosità, perché nessun artista dice volentieri : “Quelli che verranno dopo di me mi buttino via”.
C’è in Marinetti una strana generosità che poi la storia ha dimostrato.

cantando sulla cadenza lattea i loro primi canti o tendendo dita adunche di predatori e fiutando caninamente le porte delle accademie dove l’odore delle nostre menti in putrefazione già promesse alle catacombe delle biblioteche.

Sa che anche il suo destino sarà la biblioteca, lo prevede già e dice: “Ci buttino via”.

Ma noi non saremo là. Essi si troveranno alfine, in una notte d’inverno, in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da pioggia monotona e ci troveranno accoccolati davanti ai nostri aeroplani, trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al focherello meschino che daranno i nostri libri di oggi, fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini. Essi tumultueranno intorno a noi ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati al nostro superbo instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto più implacabile in quanto che i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi.

E’ una strana profezia che in realtà si è avverata perché i futuristi hanno avuto tanta canea contro
esattamente da coloro che volevano essere loro la nuova avanguardia. Quindi c’è una sorta di ammirazione – odio.

La forte e sana ingiustizia scoppierà rabbiosa nei loro occhi. L’arte infatti non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia. I più anziani fra noi hanno trent’anni eppure noi abbiamo già sperperato i tesori, mille tesori di forza, di amore, di audacia, d’astuzia, di rude volontà. Li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai: a perdifiato.

E’ una descrizione della sua vita. Marinetti vivrà così, a perdifiato.

Guardateci: non siamo ancora spossati. I nostri cuori non sentono ancora alcuna stanchezza perché sono nutriti di fuoco, di odio, di generosità. Ve ne stupite? E’ logico, perché voi non vi ricordate nemmeno di avere vissuto (è una frase tremenda). Ritti sulla cima del mondo noi scagliamo una volta ancora la nostra sfida alle stelle.

La nostra sfida alle stelle: questo è il leitmotif di tutta la grande poesia e arte. Lo aveva fatto Mallarmè, poi lo diranno altri, lo dirà Nietzsche: l’uomo sfida le stelle.     

Ci opponete delle obbiezioni? Basta, basta: le conosciamo. Abbiamo capito. La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri.
Forse. Sia pure. Ma che importa? Non vogliamo intendere.

Se volete ridurci ad essere solamente un prolungamento dei nostri avi, noi non vogliamo intendere.

Guai a chi ci ripeterà queste parole infami. Alzare la testa: ritti sulla cima del mondo. Noi scagliamo una volta ancora la nostra sfida alle stelle.

E qui finisce il Manifesto. Poi avrà infiniti prolungamenti, infinite rielaborazioni, infinite diramazioni in tantissimi manifesti sui vari tipi di arti: sulla pittura, sulla scultura, sulla letteratura.
Qualcuno ha detto che il futurismo ha inventato l’arte di fare manifesti. Ha prodotto un’enorme quantità di manifesti che sono tutt’altro che degli algidi sentimenti sull’arte, o raccomandazioni tecniche. Sono evidentemente un’antropologia che si esprime. E questi manifesti del futurismo sono, in qualche modo, un’opera d’arte in senso stretto. Non sono solo riflessioni sulla storia dell’arte.

L’ULTIMA PASSEGGIATA

Vorrei leggervi l’ultima cosa scritta da Marinetti.
Sulla questione della donna, per chiarire, serve leggere il Manifesto sul partito antiparlamentare.
Marinetti, come detto, muore nel ’44. La moglie, Benedetta, anche lei artista futurista, parla della morte di Marinetti nella prefazione che fa alla sua ultima opera “Quarto d’ora di poesia della Decima mass”. Decima mass è una formazione militare, legata alla Repubblica sociale. Ne fa parte Marinetti volontario, che ritorna ammalato dalle nevi di Russia della seconda guerra mondiale.
Un uomo che ha predicato l’azione in arte e poi va volontario in guerra vive una coerenza evidente.
Sarebbe stato strano, puramente intellettuale il concepimento dell’arte come azione, se lui non fosse stato anche a fianco dei soldati che combattevano per  il destino della patria.

La moglie scrive.

1° dicembre. L’alba, dietro i monti del nostro Lago di Como, sollevava appena le tenebre. Marinetti fu sveglio (la moglie chiama il marito per cognome, al modo antico). Marinetti rifuggiva da queste ore di trapasso della notte al giorno; così, per abitudine, accendeva molte lampade e parlavamo. Quell’alba parlò a Marinetti. Scagliò contro la fuliggine sporca che opprimeva il cielo d’Italia, rancore, dolore, fede, e il suo dramma.

Siamo in momenti drammatici per l’Italia. Nel ’44 c’è la guerra. Non si capisce dove si stia andando. E Marinetti esprime il suo dolore alla moglie, il giorno prima di morire.

Ritornando dal fronte sul Don dove 30 gradi sotto zero avevano leso il suo cuore, in 23 mesi pazienza, speranza e volontà di guarire avevano potenziato, chiarificato e sublimato al massimo le proprie possibilità spirituali, ma sempre in pericolo mortale per ogni sforzo fisico. Marinetti poteva solo essere pensiero azione. Concluse: “Benedetta, fammi uscire da questo tormento, altrimenti muoio”.
Simili stati d’animo gli nocevano; mi chiese un calmante. Si assopì.
La cima del monte Crocione era già imbevuta d’oro e le pallide nebbie su Cadenabbia vinte quando si svegliò. Marinetti guardò felice al sole, al giorno luminoso, nitido, senza decoro di foglie
ingioiellate dall’aria rigida, cesellate in ogni tono e forma. “Sono contento – disse -: nel dormiveglia ho precisato un poema per l’Italia”.
Quando il sole era alto scese a riva lago, dove l’acqua madreperla, rosa, viola si sforzava di plagiare trasparenze blu caprese. Ricordi di vita solare. Ora la fuga a toni degradanti dolcissimi di promontori portava lo sguardo in alto, al candore delle nevi circonfuse di luce e di azzurro.

E’ la moglie che guarda l’ultima passeggiata del marito.

Marinetti fu a lungo assorto. Costruiva un suo nuovo libro sul paesaggio manzoniano. Lo stupì e interessò un volo opaco, pesante, cieco: andava e tornava a fior d’acqua, davanti alla nostra ringhiera un piccolo pipistrello fuori tempo e luogo. Segnava forse già la pausa nera del destino.
Poi, scolaro diligente, compito d’esame bene eseguito, volle proprio scrivere lui il Poema della Decima mass e proprio volle, sul quaderno della primogenita vittoria, incitamento, gara, colla esuberante giovinezza tormentata e altalenante tra indolenza  e oriente, tra letteratura e passione, azione e vita, universitaria aspirante ausiliaria.” Come me – diceva – . Sono responsabile. Sei il mio ritratto”. Lesse a lei e a me il suo poema. Finita la breve cena, un libro in mano di una signora belga, scatenò in lui una delle tipiche conversazioni monologo in francese: essenza della poesia, del romanzo, universalità, visione stilistica, psicologia, immaginazione, primato italiano.
All’una e venti del 22 dicembre la sua voce calma mi chiama: “Scusami. Già sveglia. Ho voluto lavorare troppo intensamente e ho un po’ di affanno”. La crisi precipita. Il cuore si bloccava. Mi guardò concentrando nello sguardo la sorprendente potenza di pensiero disperato interrogante, mentre la bocca disegnava un inespresso, un violento canto alla vita. Io mi concessi un sorriso per confortarlo, e fu nel cielo dalla notte lunare. Marinetti, lo hai detto alle stelle conquistate a vent’anni con il tuo primo libro, il tuo ultimo canto. Il tuo pensiero lo hai consegnato al cuore divino, velocemente. Come sapevi tu cancellare le distanze terrestri dal nord al sud, da continente a continente, sei passato oltre il fronte della vita. Lottando per l’Italia con la tua arma che crea e non uccide.

Il sentimento della violenza futurista è un’arma che  crea e non uccide.

E la sapevi mirabilmente usare, vincendo per la poesia una nuova quota.

E’ bellissima questa immagine come di scalatori che vanno sopra gli 8.000: hai vinto la nuova quota per la poesia.

Sei partito da noi, come partivi in guerra, per agire. “Finalmente – dirai – posso senza divieti e limiti, ispirare, proteggere e  guarire la nostra adorata Italia, ferita, ma immortale”. Gli avevi dato fantasia, idea, sentimenti, volontà, obbedienza, sofferenza, disperazione, non potendole dare sul campo di battaglia, soldato, il tuo sangue; il tuo cuore si è fermato. Ma adesso il tuo sangue ha seminato i campi del cielo il 2 gennaio, per i fiori della primavera italiana L’hai promesso con questo poema ai sodati della nostra Italia repubblicana.

E’ poi riportato, in due paginette che leggo,  questo ultimo poema che si chiama “Quarto d’ora di poesia  della Decima mass”. Lo leggo anche come esempio di questa prosa poetica futurista che ha influenzato tutta la letteratura italiana: Palazzeschi, Covoni, lo stesso Ungaretti.
Tutta la grande poesia del Novecento deve fare i conti con questo mettere le parole in libertà, con tutte le tecniche marinettiane di creazione della poesia: la simultaneità, lo slegare i nessi. Tutte cose che, come ha osservato la critica, i poeti avevano fatto anche prima. Mallarmé aveva già rotto i legami normali nella poesia, e Boudelaire aveva parlato di certe cose violentemente in poesia. Marinetti non  inventa molto da questo punto di vista. Lui inventa l’invenzione di se stesso, di un poeta che mette in secondo piano totalmente il proprio io lirico e parla a omaggio della realtà. Parla a omaggio delle cose e del movimento delle cose. Questo il poeta che in qualche modo Marinetti fa emergere assolutamente, oltre le invenzioni formali.


QUARTO D’ORA DI POESIA DELLA DECIMA MASS

Saliti nel tuo carro aereo poeti, e via si va finalmente a farsi benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini che dicogamano i lambicchi di ventosi pessimismi. Guasto il motore: fermarsi fra italiani. Ma voi, voi ventenni siete ormai famosi renitenti alla leva dell’ideale. E tengo a dirvi che spesso si tentò assolvervi accusando l’opprimente pedantismo di carta bollata burocrazia e divieti censure formalismi meschinerie e passatismi torturatori con cui impantanarono il ritmo bollente adamantino del vostro volontariato sorgiva a mezzo del campo di battaglia.
Non vi grido “arrivederci in paradiso” che lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio, mentre ora voi smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti.
E perciò: avanti autocarri. Urbanismo, officine, banche e campi arati andare andate a scuola da questi solenni professori di sociologia, formiche, termiti , api, castori.

Qui Marinetti sta dicendo che le banche, le officine, le città, i campi devono obbedire, imparare, andare a scuola da questi ragazzi.

Io non ho nulla da insegnarvi, mondo come sono da ogni quotidianismo e faro di un aereo poesia fuori tempo e spazio.

Parla di sé e dice: “Io sono ormai fuori della mischia. Sono un faro di un aereo poesia fuori tempo spazio”.

I cimiteri dei grandi italiani slacciano i loro muretti agresti nella viltà dello scirocco e danno iraconde scintille crepitano impazienti di polveriera senza dubbi esploderanno esplodono morti unghiuti; dunque autocarri, avanti. Voi, ponchieresti, franatori del passo calcolato, voi becchini cocciuti nello sforzo di seppellire le primavere, entusiasti di gloria, ditemi: siete soddisfatti di aver potuto cacciare in fondo fondo al vostro letamaio ideologico la fragile deliziosa Italia ferita che non muore? Autocarri avanti. E tu non distrarti dal gomitolo del tuo corpo ardito a brandelli che la rapidità crudele vuol sbalestrarti in cielo prima del tempo. Scoppia un cimitero di grandi italiani e chiama: fermatevi volontisti  italiani: fermatevi, fermatevi, avete bisogno di tritolo.

Qui è come una grande eco a Foscolo, a I Sepolcri.
     
Ve lo regaliamo noi, noi, ottimo tritolo estratto dal midollo dello scheletro. E sia quel che sia: la parola ossa si sposi con la parola fossa che la rima vetusta frusti le froge dell’avvenire accese del biondeggiante fine di un primato. Ci siamo finalmente, e si scende in terra quasi santa. Beatitudine scabrosa di colline inferocite sparano. Libera lunghe corde tese che i proiettili strimpellano la voluttuosa prima linea di combattimento ed è una tuonante cattedrale coricata a implorare Gesù con schianti di petti lacerati (sono i volontari morti). Saremo, siamo, inginocchiate mitragliatrici accanto a carni palpitanti di preghiera. Bacio, ribacio le armi chiodate di mille, di mille cuori, tutti traforati dal veemente oblio eterno.

Questa è l’ultima opera che scrive Marinetti, la notte prima di morire: un omaggio a qualche cosa di futuro che non deve essere fermato e che è capace anche del sacrificio di morire in guerra, cattedrale distesa che prega con i petti squarciati. Immagine poetica stupenda.
Marinetti, salvo come in punti come questo, non è stato un eccelso poeta, un eccelso scrittore. In molte opere è cascante, ridondante, ripetitivo, come un po’ gli imponeva la figura di agitatore. Non badava troppo alla qualità per agitare con le opere.

CONCLUSIONE

Il futurismo, almeno per le cose che abbiamo letto oggi, è sicuramente un dei grandi movimenti culturali italiani che ha prodotto e che cerca ancora di movimentare un certo orgoglio propositivo nel guardare al futuro dell’Italia.
Oggi, in questi tempi in cui sul futuro grava una specie di ipoteca strana, la voce di questi uomini, per quanto da filtrare con giudizio critico storico, è senz’altro qualche cosa di salutare, mentre sul futuro sembra gravare una noia lamentosa.

NEL DIALOGO CON GLI STUDENTI

Rondoni

Immagino che per tutti le cose dette sono nuove. O c’è qualcuno che le ha studiate a scuola?
Immagino che ne avete sentito parlare qui per la prima volta e questo crea un disagio per porre domande.
A volte capita nelle scuole che per seguire programmi di taglio storicistico non si esaurisce l’arco della conoscenza né si approfondiscono i temi maggiori. Non ha senso farlo. E’ meglio fare poche opere bene piuttosto che un percorso fatto male e anche incompiuto.

Marinetti fu interventista. Voleva che l’Italia entrasse in guerra, nella prima guerra mondiale, come la maggior parte degli italiani. Noi oggi ragioniamo sempre della guerra con una distanza storico critica per cui ci sembra che chi ha voluto la guerra è sempre dalla parte del torto. Non è sempre così. Io stesso penso che la guerra sia un male tremendo, ma non me la sento di giudicare come tutti malvagi gli italiani, ed erano la maggioranza, che allora vollero entrare in guerra. Comunque non siamo in paradiso e le guerre succedono.
Marinetti fu interventista e girava a fare conferenze interventiste per favorire l’entrata in guerra perché riteneva che per l’aspetto politico internazionale quella guerra fosse necessaria all’Italia.
Ma sappiamo che la prima guerra mondiale fu un’ecatombe.  C’è una responsabilità, negli interventisti di allora, che vollero comunque una guerra che per l’Italia si rivelò tragica.
C’è una responsabilità morale e politica in Marinetti come in tanti altri, indubbiamente.
La pubblicità fatta da Marinetti  non fu solamente uno strumento politico,
tanto è vero che molti studiosi hanno notato che negli scritti di Marinetti ci sono molte anticipazioni. E’ stato il primo ad applicare la comunicazione di massa non solo alla guerra, ma anche all’arte e alla letteratura. Questo ha scardinato i ben pensanti. Ma Marinetti ha vinto. Sapeva che la pubblicità era uno strumento della società borghese che lui accusava, ma l’ha usata contro, per una svolta della cultura, con  grande capacità espressiva.
Sulla promozione della prima guerra mondiale sarebbe interessante fare approfondimenti. E’ uno dei più grandi snodi della storia europea e credo che non basti per giudicarla l’unico criterio di essere a favore o contro la guerra. Una volta assodato che siamo contro, perché è meglio non fare la guerra, possiamo riconoscere che per giudicare una guerra del passato non basta una categoria solamente ideale. Va tenuta viva e accesa, ma anche da usare con altre categorie di lettura storica, altrimenti dovremmo sempre ridurre la storia al nostro giudizio morale. Questo rischia di essere se non altro impreciso. La comprensione dei fenomeni storici è più complicata di quanto può dare un criterio solo di tipo morale.
Marinetti ebbe una responsabilità in quanto interventista alla prima guerra mondiale, ma giudicare l’interventismo italiano in quel momento, siccome non si può fare solamente a partire dal fatto che siamo contro la guerra,  ci impone un approfondimento maggiore.
 
Si è detto della responsabilità del futurismo di avere appoggiato il fascismo che d’altra parte si è fatto una bandiera del futurismo.
Anche dai dibattiti contemporanei si comprende che questa discussione è molto aperta. Su quanto Mussolini fu marinettiano e Martinetti fu mussoliniano  c’è ancora da capire. Il futurismo ebbe carattere libertario e anarchico, ma poi si è sposato al fascismo. Questo fino a quando non si è affermata la tendenza di tipo autoritario nell fascismo. La radice libertaria di tipo socialisteggiante alla Sorel che Marinetti aveva dall’inizio, lo dissocia più tardi dal fascismo. Inizialmente il fascismo è di matrice socialista, solo più tardi si definirà di destra  e totalitario. Marinetti aderirà alla fine alla Repubblica di Salò credendo di vedervi la possibilità di un’Italia repubblicana.

Su Pavese

RONDONI/PAVESE

CESARE PAVESE
Presentazione di
DAVIDE RONDONI poeta
Voce recitante
RUGGERO DONDI attore

CENTRO ASTERIA-MILANO, 1 febbraio 2008
Progetto Culturale per Istituti Superiori
“E IO CHE SONO?”

INTRODUZIONE

Credo che affrontare un autore come Pavese, non tanto per me che parlo come per voi che ascoltate e avete letto o leggerete le sue pagine, sia una delle letture più interessanti che possano capitare, perché è uno di quegli autori che non sta mai fermo, che non riesci a bloccare, a mettere dentro uno schema, e a presentarlo non riesci a cavartela con poco.
Già questo è un indizio importante, perché le cose più belle, più dure, più forti della vita, quelle che contano, non riesci a liquidarle con due parole. Lo sappiamo tutti. Le esperienze più importanti che si fanno nella vita: l’amore, il dolore, gli incontri decisivi, non sono cose che si possono descrivere e sistemare; ti scappano dalle mani, non riesci a definirle: per fortuna! Vuol dire che sono esorbitanti, esagerate rispetto alla schematizzazione che possiamo farne.
Pavese è uno di quegli autori che hanno grandezza. Questo non vuol dire che i grandi autori scrivono sempre cose grandi. Scrivono cose belle, cose meno belle, cose più significative, che dureranno di più. Sono grandi gli autori che pongono a te una questione che non è riducile in poche parole da niente. Non te la cavi dicendo “è un romantico”, “è un realista”, “è un autore impegnato”.  Se vuoi parlare di grandi autori non te la cavi con poco.

GUARDARE I GRANDI

Pavese ha il grande destino di portare alcune delle grandi questioni che sono espresse nella letteratura di sempre (e lui lo sapeva), ma ad un livello di frangente storico, umano, anche dal punto di vista della comprensibilità della lingua, che ancora ci riguarda molto. Certe cose che troviamo in Paese, le troveremmo in Leopardi, in Dante Alighieri, ma Pavese ha il destino di portarle in una lingua che oggi comprendiamo molto bene. E’ una lingua vicina a noi, è l’italiano che ancora parliamo. Non è casuale, questo.
Pavese è un autore che concepì la propria vita e la propria opera sempre in relazione con i grandi classici, in relazione con la grande letteratura del passato. E’ tutt’altro che l’autore ingenuo e moderno, nel senso che si stacca dalla tradizione. Anzi, se mai, è uno che dialogava continuamente con i classici , al punto che l’opera a cui teneva di più, quella che teneva sul comodino quando si suicidò, nella notte del 26 agosto del ’50 a Torino, che si intitola “Dialoghi con Leucò”, è una sorta di dialoghetto morale tra personaggi del mito. Lui, quando ne parla, li mette nella grande tradizione della letteratura italiana. Ha provato a metterli al piano di Boccaccio, Petrarca, Dante. Di Pavese si dice che ha la capacità di parlare con tutti. Ma questa capacità non nasce da una genialità spontanea, per il carattere, perché era un personaggio strambo. Gli viene dal fatto che ha impegnato tutta la sua vita con grandi autori, con persone e opere che continuavano a porgli grandi questioni.
Non si diventa grandi se non guardando ciò che è grande. Non si diventa portatori di qualche cosa che riguarda profondamente  se stessi e gli altri, se non accettando di conversare, dialogare, incontrarsi e anche scontrarsi con quelli che vengono chiamati in modo banale i classici, cioè con i grandi. Lui questo ha fatto e facendo così è diventato così. Pavese è ormai uno dei classici, non solo del Novecento, è un autore molto noto in tutto il mondo. Ma parte da questo suo lavoro, da questa scelta di diventare grande, non a forza di scrupoli (non fare questo, non fare quest’altro, non sporcare, non accelerare troppo, non, non…), non a forza di “non”, ma con il confronto con la grandezza.

NOTE BIOGRAFICHE
 
Faccio solo qualche cenno biografico sull’autore.
Pavese nasce nel 1908, cent’anni fa, da una famiglia molto agiata della Torino bene. Nasce per caso nelle colline delle Langhe perché la famiglia andava nelle vacanze in questi posti. Perde molto precocemente il padre. La vita si complica, anche perché arriva la prima guerra mondiale, nel ’14.  Per lui è già segnata forte dalla morte del padre, anche per l’ambiente piemontese in cui vive, molto rigido, borghese nel senso deleterio del termine, molto attento alle forme. La madre, non avendo più l’appoggio del marito presente, stringe i freni anche per gli altri figli che aveva.
Il giovane Pavese rivela subito un talento molto precoce per gli studi. Si immerge nella lettura dei libri. Ha l’incontro con alcuni buoni maestri, in particolare con un maestro (Augusto Monti) che segnerà molto la sua vita e che in qualche modo lo introdurrà al mondo della letteratura e dei libri. Così Pavese, fin da ragazzo,  dal liceo, capisce e dice più volte che la sua vita sarà molto segnata dai libri. Questo non va inteso nel senso che diventerà un erudito, ma che la sua vita passerà molto attraverso i libri. Da ragazzo comincerà a scrivere poesie e poi altro.
Già in quel momento, e questo potrà sembrare una profezia gelida, due suoi amici, ragazzi come lui, si suicidano, e lui stesso pensa al suicidio fin da giovane.
Potremmo dire, forse con un’ingiusta violenza alla vita che rimane sempre un mistero, che la sua vita è segnata, subito, da una parte dalla percezione di un grande vuoto ( la morte del padre, il fatto che gli amici se ne vanno in modo violento), ma anche dalla presenza di grandi maestri, di figure a cui attaccarsi, che in qualche modo ti danno una possibilità. In questo senso la vita e l’opera di questo uomo, che scriverà poesie,  romanzi, sarà celebrato dalla critica, diventerà un caso letterario,  diventerà anche un caso politico, saranno segnati dalla ricerca di una simpatia totale, di qualcuno che di fronte a te si dimostri simpatetico totalmente.
La vita di Pavese è segnata alla fine da un evento tragico. Un giorno prende la sua valigia e sembra che parta da Torino, la su città, e invece se ne va in un albergo di Torino dove sta due giorni. Fa alcune telefonate, probabilmente agli amici, cercandoli come un’unica possibilità di relazione, dopo che l’ultima storia d’amore è finita male come tutte le sue. Prende un sacco di sonniferi, quelli che usava di solito, ne prende in maniera esagerata, proprio per suicidarsi, e muore in questa notte del 28 agosto 1950.

Era l’anno in cui era stato consacrato come grande scrittore. Aveva raggiunto il successo. Aveva vinto i maggiori premi, era celebrato dalla critica italiana e non solo. Era sbocciata quella grande promessa di scrittore che era. In quell’anno si fa fuori.
Dice, pochi mesi prima di questo fatto: “Bada bene, tutti lo cercano uno che scrive, tutti gli vogliono parlare, tutti vogliono poter dire domani:’So come sei fatto’, ma nessuno gli fa credito di un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo”.
Nessuno ti fa credito di un giorno di simpatia totale: con questo pensiero Pavese sceglie di entrare nelle tenebre, di lasciare il mondo.
Potremmo dire che tutta la sua opera, in fondo, è la ricerca di questa simpatia totale.
Per simpatia totale non è da intendersi un leggero frizzare del sentimento, ma, secondo la radice stessa della parola simpatia, è un “pathos insieme”, un consentire, un patire insieme non solo del dolore, ma anche del dolore, un patire assieme tutto, totalmente la realtà. La “simpatia totale” è il sogno di questo uomo, il suo desiderio, quello che, in qualche modo, in tante forme,  correnti e scelte stilistiche, nella sua opera  si insegue.

GRANDI DOMANDE

La simpatia totale: questo è già un primo problema che  Pavese a noi lettori pone. E’ una ricerca giusta? E’ adeguata? Cerco anch’io una cosa così? E’ illusione? E’ un’attesa destinata a sconfitta? E’ la cosa che veramente bisogna cercare? Una simpatia totale: tu sei fatto per questo? L’uomo è fatto per questo?
I grandi autori sono quelli che ci buttano addosso queste domande. Attraverso la loro opera, e il lavoro immenso, il lavorio di anni, da cui escono queste espressioni sintetiche, Pavese ci dice: “Ma tu, la simpatia la stai giocando, con una risatina, o pensi che sia una cosa illusoria, o non te ne importa niente? Credi che non ci sarà mai nessuno che ha per te una simpatia totale?”  Totale. Non una simpatia per un motivo o un altro: perché sei simpatico, sei carino, sei intelligente. Una simpatia totale. Di chi sente con te perché tu ci sei.  E tu puoi sentire totalmente, perché senti in te il mondo intero.

E qui si introduce un altro tema di Pavese che è il luogo, l’appartenere a un luogo: le langhe, il paese. L’uomo, per introdursi nella simpatia totale, per sentire con la vita, deva partire dall’appartenenza al proprio luogo. Le opere di Pavese sono piene di riferimenti a questo.
Le langhe, le colline, sono la grande figura della sua pena. Le colline diventano l’ambiente dei suoi romanzi, la collina è metafora della donna. Il primo luogo a cui aderire, in cui l’uomo può provare a sentire totalmente una simpatia con la realtà, è il luogo dove è nato.

Leggiamo ora una poesia dell’Autore.

LO STEDAZZU

Stedazzu vuol dire “uno stellone”, “stellaccia”. È un parola dialettale del posto in cui Pavese, da giovane antifascista, fu mandato in confino, perché coinvolto in questioni politiche. Aveva accettato di ricevere lettere a casa sua per conto di una donna di cui si era innamorato, che era stata il suo primo vero grande amore: “la donna dalla voce rauca”. Questa certa Pina era una militante comunista. Lui accettò di ricevere al suo domicilio delle lettere per lei che era controllata dalla polizia. Non era impegnato politicamente, se non per il legame con suoi amici che erano molto impegnati. Era impegnato più per amore che per scelta politica. In seguito per questo ebbe problemi con il partito comunista.  In quel momento fu coinvolto in una retata e fu mandato al confino. Lì scrive anche questa poesia, prendendo da Brancaleone questo grande spettacolo della stella del mattino.

L’uomo solo…

E’ una poesia forte e anche tremenda.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà, non c’è cosa più amara che l’inutilità.
Sono versi tremendi, però come sono veri! Entrano nella rosa chiusa che abbiamo nel petto a strappare una questione importante.
In fondo, quante volte viviamo un’alba tremenda, amara, perché da quel giorno non ci aspettiamo niente. E non è solo la condizione dell’esiliato, dell’uomo solo che sulla riva del mare si alza, e vede, in questa occasione in cui nulla può accadere, una pipa che pende tra i denti, e anche una stella che pende, stanca. Quella che dovrebbe essere annuncio del giorno, pende già stanca. L’uomo che non attende nulla, vede tutto pendere, come una cosa scontata, come una cosa solita, una stella verdognola, del colore della malattia: una stella con l’influenza; spenta, il contrario della luce quasi.

La lentezza dell’ora è spietata perché non aspettiamo nulla.
Questa  del tempo che diventa lungo perché non aspettiamo niente è una esperienza che facciamo tutti, non la fanno solo i poeti. Se hai un appuntamento con lei alle cinque, dalle quattro alle cinque il tempo è lento nel senso che non vedi l’ora che arrivi lei, ma senti che il tempo passa . Invece, se non aspetti nessuno la lentezza dell’ora è spietata.
Questa poesia è del 36, del Pavese già maturo, e fotografa una situazione che Pavese poi  riprende, ridice in molti modi, in altre sue opere.

Come abbiamo detto,  Pavese scrive poesie, romanzi, ed è anche autore di uno straordinario zibaldone, famosissimo: “Il mestiere di vivere”. Questo uomo vi annota , un po’ come faceva Leopardi, quasi quotidianamente, osservazioni che vanno dalla sua vita privata a questioni letterarie, a cose che succedono. Questo zibaldone è quindi un diario straordinario, di un’anima e del suo lavoro.
Nel “Mestiere di vivere” l’autore riprende il pensiero dell’attesa, che sembra assurda, di una cosa che non c’è, che non viene, per cui niente è così triste come l’alba di un giorno in cui niente avverrà.
“Come è grande il pensiero che nulla a noi è dovuto!” scrive Pavese,  perché è come dire: “Non devi pretendere: non ti è dovuto nulla”. L’uomo non si può alzare la mattina pretendendo.
La pretesa, anche nei rapporti personali, è il contrario dell’attesa, perché l’attesa ha dentro una domanda piena di rispetto, la pretesa, invece, è irriguardosa: “Voglio da te qualcosa, comunque. Pretendo che tu sia così.”
Ma “qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora, perché attendiamo?”
In questa domanda c’è l’inquietudine di questo uomo. La mattina ci alziamo e comunque, in qualche modo, anche se non ti è chiaro, da quel giorno ti aspetti qualcosa.
Perché la mattina una ragazza si trucca, raccoglie i capelli in una treccia, perché si sistema come si deve? Perché anche gli uomini fanno similmente (ormai i cosmetici sono usati più dai maschietti, ed è preoccupante; ma i giornali ne fanno pubblicità perché si vendano i prodotti). Ci si sistema e si esce fuori  come a dire: “Be’,  esco fuori, perché qualche cosa succederà”. Ci si tira su dal letto: va bene, perché si deve andare a scuola, ecc. E Pavese dice: “E’ strano, Qualcuno ci ha promesso qualcosa? Allora, perché attendiamo?” L’uomo è questo strano marchingegno che attende per cui sente terribile l’alba in cui nulla accadrà. Noi coscientemente non ci pensiamo. Gli autori sembrano avere più coscienza della vita. Ma se noi ci fermassimo coscientemente, accendendo tutto il motore della nostra ragione e del nostro cuore, e pensassimo: “Domani non mi accadrà nulla di interessante”, per noi che viviamo di attesa, di incontri affettivamente vivaci, segnalati, importanti,
sono decisivi. Per un muomo che vive di “Che cosa attendo”  innamorarsi: è una partita decisiva. Quando l’”eccomi”, visto nei campi di granoturco, nei rami… diventa una persona che ti attrae e ti promette una simpatia totale, allora si accende una faccenda grave, importante. E per Pavese le faccende di amore sono sempre state importantissime, drammatiche. Non è solo problema di biografia. Le vicende d’amore hanno contato moltissimo nell’opera, non solo perché delle sue donne parla, sono destinatarie di sue poesie, ma perché il suo rapporto con la donna, non a caso raffigurata nella collina, è il segno supremo del rapporto che l’uomo ha con la realtà. Da come vivi il senso d’amore si capisce come vivi tutta la realtà perché il senso d’amore è il culmine  del rapporto con il reale, è il punto più acceso più vivo, più esposto, pi rischioso, anche, più bello, più più. E questo viene banalizzato, vi viene così buttato addosso con mezzi di comunicazione potenti per fare soldi: perché questo è lo schifo di questa faccenda: del vostro amore non gliene importa niente ai produttori, a loro importano solo i vostri soldi.
Pavese comprende che l’esperienza d’amore è il punto in cui si gioca di più la dinamica d’attesa di simpatia totale, in cui si gioca un po’ il destino.

INCONTRO

Vi leggo una poesia,
INCONTRO

Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vico e non riesco a comprenderla.

E’ la descrizione dell’amore: la vivo e non riesco a comprenderla, la vivo e non la esaurisco, non la definisco. Non è mia.
Sentite che questi sono versi lunghi. Non come quelli di Ungaretti. Pavese non fa versi brevi, icastici, scavati nel silenzio, come faceva Ungaretti. Pavese ricava la lunghezza del suo verso dal rapporto soprattutto con un grande poeta americano,  WaltWhitman, e da un altro poeta francese, Paul Claudel, che fanno versi lunghi. Ma non solo dalla letteratura ricava questo modo di scrivere
così narrativo, ma ancora dal rapporto con il suo luogo, con i cantari popolari delle langhe, della sua terra. Essendo scritti in ottave questi grandi poemi popolari hanno versi lunghi. Pavese,
lo dice lui, ha questi cantari nelle orecchie. “Mi è nato un verso che è così”. Nell’ autocommento al suo libro di poesie dice: “Mentre tutti scrivono in un altro modo, io scrivo così”.
Fu una scrittura abbastanza strana la sua; appare in Italia negli anni ’30 quando tutti gli altri, Montale, Ungaretti, avevano un altro modo di scrivere. Non è comunque il solo che ha questo stile narrativo.
E’ la descrizione dell’amore: la vivo e non riesco a comprenderla, la vivo e non la esaurisco, non la definisco. Non è mia.
E’ prodigio!  Bello! E’ la stessa frase che usa Dante. “Colei che è venuta da cielo in terra a miracol mostrare”. Un uomo para della sua donna come un prodigio, come un miracolo. Non c’è dovuto nulla, eppure lei arriva. Un miracolo, un prodigio.

L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
Sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.

La stella non è più verdognola. Siccome c’è un incontro, la stella non più pende. E’ ambigua, è una luce ambivalente. Nell’esperienza d’amore uno si accorge che la realtà diventa un teatro rischioso, un’avventura che può andare così, ma può andare cosà.
Descrive l’amore come una macchia più chiara, una voce, un “eccomi”.

Qualche volta la vedo, e mi viene dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: a sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.

Questo è importante per Pavese: io non ho mai potuto afferrarla.

Se sei bella non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. E’ come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.

Prima c’era l’alba del giorno in cui nulla accadrà, poi incontra lei e dice: “E’ come il mattino”. Ogni incontro di amore è come una promessa. Non è più un’alba in cui nulla accadrà, ma è un mattino è qualcosa che può succedere. Accenna tutti i cieli lontani di quei mattini remoti. L’incontro che accade è come se portasse con sé tutto quello che c’era prima, se svelasse tutto quello che c’era prima. Ogni incontro veramente significativo, questo lo sappiamo, non è qualcosa che censura o annulla tutto quello che c’era prima, ma lo risignifica, lo riporta, lo fa riparlare, gli dà voce e luce.

E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
Cha abbia avuto mai l’alba su queste coline.

L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, a non riesco a comprenderla.

E’ bello e tremendo: questo incontro, bello come l’alba in collina, l’ho creato io oppure c’è? E’ un sogno, un’illusione, come dice Pirandello?  Mi sembra di non riuscire mai ad afferrarla. Tu che mi sei venuta incontro, mi hai promesso qualcosa, ma poi sei stata una ìllusione. Pavese fece molte esperienze d’amore. Ce n’è molto segno nelle sue opere.
Anche Leopardi fa questa esperienza. Prometti che sarai la simpatia piena, totale per me, poi, sia che ti afferri, fisicamente, sia che non ti afferri, questa promessa sembra andare delusa. Allora l’amante si arrabbia con l’amata. Se la prende con lei perché non ha soddisfatto pienamente, completamente, il suo cuore, il suo desiderio. Ha soddisfatto magari il piacere momentaneo, ma non ha soddisfatto la vita.

I MARI DEL SUD

Sentiamo ora un’altra poesia della raccolta “Lavorare stanca” :

I MARI DEL SUD

Alla fine ascolteremo un riferimento molto chiaro a Moby Dick, il romanzo dove tutti si aspettano alla fine di prendere questa balena. Pavese l’aveva tradotto. Dalla letteratura americana aveva tradotto non solo Whitman, ma anche Edgar Lee Masters, Herman Melville,  Emerson. E’ lui che ha portato in Italia l’antologia Spoon River di Masters.
Questa poesia “I mari del sud” parla di uno che era tornato al paese, alle langhe. Vi era nato. Era via, aveva cercato una certa avventura economica, ma era tornato.


I MARI DEL SUD

Camminiamo una sera…

Avete sentito una poesia “epica”. Ha dentro un ritmo nascosto: Sembra quasi prosa, un racconto.
Pavese dice che lui cercava nella sua opera delle immagini da racconto. Voleva, nella sua poesia, riuscire a creare, a trovare, delle immagini che avessero dentro un racconto in nuce.
Qui, questo zio, un omone vestito di bianco che gira per le colline e che cerca di persuadere tutti a vendere i cavalli perché lui portava le automobili, è come un grande racconto sintetizzato in pochissime figure. Cerca di fare una poesia narrativa in questo senso, non nel senso che sia come un romanzo.
In questa poesia, come accennavo inizialmente,  c’è un grande cetaceo che appare alla fine. Questo zio ormai disincantato, che si definisce asino perché ha pensato di convincere i contadini a vendere animali per servirsi di macchine, alla fine dice: “Però io ho visto tra a schiume un grande cetaceo”.
E’ come uno che dicesse: “Ho visto nel volto di questa donna l’amore, la simpatia totale. L?ho visto… L’ ho passato”.
E’ come un sospetto che lavora dentro Pavese e nei suoi racconti, è una specie di visione fugace.
C’è una cosa che promette simpatia totale  e poi invece va via.
Troviamo nei suoi scritti precedenti: “Siccome ciò che l’uomo cerca nei suoi piaceri (di tutti i tipi), è l’infinito (anche nel sesso: c’è uno sperimento d’infinito che uno cerca), nessuno rinuncerebbe mai a fare questa esperienza, nella speranza di conseguire  l’infinità “. Questo anche ascoltando un brano di musica classica in cui sembra che il tempo si perda, si fermi, in qualunque piacere e non solo fisico ma anche spirituale, mentale, estetico, in cui il tempo sembra non avere il suo aspetto corrosivo come avesse dentro una sospensione, una sorta di infinito.
E poi il poeta dice: “Ed ecco che succede che tutti i piaceri finiscono nel disgusto”. E’un’espressione violentissima che ha una sua strana logica che occorre comprendere.
E dice: “Poi, perché cerchi l’infinito nei piaceri, succede che i piaceri si mutano in disgusto”.
Questo è fortissimo. Dà l’idea del disincanto: alla fine ti senti più amaro dopo certi piaceri conseguiti, e dico di tutti i tipi di piacere, anche di quello estetico che è il più alto. Poiché cerchi l’infinito, e non lo ottieni, non rinunci a cercarlo. E non lo ottieni, E non rinunci a cercarlo. Tutti i piaceri è come avessero dentro il veleno di una delusione, il veleno di un disgusto.
Sembra una logica tremenda, ma è la logica con cui la maggior parte della gente vive. Uno nei piaceri cerca l’infinito, ma i piaceri non mantengono la promessa che sembrano dare, finiscono per lasciare qualcosa di amaro. Lasciano l’amaro in bocca. Cerchi di mandarlo via attraverso un altro piacere. E la vita sembra questo continuo e un po’ ansioso e defatigante alternare piacere e amaro in bocca, piacere e amaro in bocca.
Allora puoi dire: vedi Mobi Dik, l’infinito, lo vedi tra le schiume e l’insegui. Ma che cos’è che potrà darmi veramente l’esperienza dell’infinito? Non i così detti piaceri.
C’è una frase molto bella, e anche un po’ difficile, che però stimola l’attenzione: “L’amore è veramente la grande affermazione (la simpatia totale, il grande sì. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole morire con valore, con clamore, e stare, insomma. Eppure è sempre allacciato alla volontà di morire (gli antichi dicevano. Eros e morte, come un binomio inscindibile, massimo apice e e infinito abisso) E Pavese dice: come mai, attaccata alla volontà d’amore sembra esserci nell’uomo sempre la morte? In tutti grandi romanzi troviamo amore e morte, come se nell’uomo questo binomio fosse inscindibile, come fossero inseparabili la grande negazione e la grande affermazione .
E Pavese dice: come è possibile che sia così? Forse perché l’amore è tanto prepotentemente vita che, sparendo lui, la vita se si negasse nell’amore sarebbe affermata di più ?
Si toccano i vertici dell’esperienza umana: che cosa c’è di più vita che una vita data per amore? Perché noi siamo colpiti, attratti, da certe figure che sembrano negare la propria vita perché fanno sacrifici, perché offrono la vita per amore a qualcuno? Perché ci sembrano la vera realizzazione dell’umano?  Perché ci sembra che affermino la vita più di quanto facciamo noi?
Anche il vangelo dice che non c’è niente di più grande che una vita data per amore a un altro. Ma lasciamo stare i riferimenti al cristianesimo.
Perché ci colpisce uno che passa la vita accanto alla figlia malata, perché ci colpisce quella vita che sembra negarsi? C’è come un’affermazione superiore di vita nel negarsi, o più precisamente nell’offrirsi per amore.
Pavese arriva a pensare queste cose. Dice: vorrei un giorno di simpatia totale.  La vita è un’attesa illusoria, negata, ambigua, fino a un “eccomi!”, a un incontro, che riempia il desiderio d’infinito, questa attesa di simpatia totale, con l’ amore , la grande affermazione. Io aspetto questo: la grande affermazione. Pavese sa che accanto a questa affermazione nell’amore,  è come ci fosse sempre anche la morte, la grande negazione, perché  intuisce che la verità dell’amore è il dare la vita. La natura dell’amore non è prendere un altro, impossessarsi di qualcuno. La natura dell’amore è dare la vita.
Questa intuizione è di un uomo che ha fatto l’esperienza di amori infelici e che avrà per sigla la morte. Ha fatto l’esperienza di una nebbia vitale fortissima e drammatica. In una poesia che dedica a una donna che amava, un’attricetta, una ballerina americana, Costans, a cui lui si era legato, le dice: tu sei la vita, sei la morte. “Tu, vento di marzo, sei la vita e sei la morte. Sei venuta di marzo, sulla terra nuda. Il tuo brivido dura, sangue i primavera, anemone o nube, il tuo passo leggero ha violato la terra. Ricomincia il dolore”.  Non c’è il verso lungo, raccontato. E’ una poesia rappresa, concentratissima in questo dolore.
E’ un’esperienza tragica per lui questo amore impotente, che non si realizzava, né con la Costanza, né con la Pina, né con la Costans. Ma aveva intuito, toccato le cose più importanti.

DUE NOTA BENE

Il primo nota bene riguarda la politica. Pavese è stato un intellettuale molto importante all’interno della casa editrice Einaudi, fondata a Torino. Vi ha svolto un lavoro formidabile. E si è trovato a un certo punto, nel suo percorso, con molti amici impegnati nella resistenza.
Pavese però dice: “io non mai sono occupato di politica, è la politica che si è occupata di me”,
anche per le polemiche che ebbe a un certo punto con il Partito Comunista.
Pavese dedica un romanzo, La casa in collina, all’ambiente della seconda guerra mondiale, della resistenza, dei partigiani. Scrive questo romanzo mentre c’era introrno a lui, nel ‘50, una grande retorica intorno all’impegno dei partigiani che hanno fatto l’Italia, dei comunisti che hanno fatto l’Italia. Anche adesso c’è la retorica intorno alla resistenza partigiana. Nel romanzo, a un certo punto, dice: “i morti sono uguali”, e parla anche dei morti di quella parte che aveva perso quella guerra, dei fascisti. Per noi l’affermazione “i morti sono uguali” sembra quasi scontata.  Sì, alla fine i morti sono uguali: sono morti. C’è una pietà di fronte ai morti che vale per tutti: per i vincitori e per i vinti. Ma allora questa affermazione sembrò un delitto di lesa maestà. “Come? No! I morti partigiani valgono di più dei morti fascisti. Non puoi fare questa equiparazione”. Invece Pavese insisteva su una pietas  umana che guarda con lo stesso dolore e con lo stesso sconcerto i morti  dei vinti e i morti dei vincitori. Provava pietà per entrambi, non per le idee di entrambi. Pavese fa questo “peccato”, per il partito comunista di allora, di far prevalere le persone sull’ideologia, di far valere più il fatto umano, la persona, più che l’ideologia della rivoluzione, del sol dell’avvenire ecc.
Allora questa cosa non si doveva fare e Pavese fu attaccato violentemente  dalla stampa.
L’impegno politico di Pavese, che fu impegnato, era legato a questa pietà per l’uomo, per la condizione dell’uomo, che gli interessava più di tutto.

Facciamo poi un secondo rilievo.
Nel ‘45 Pavese, come altri, era sfollato sulle colline del Piemonte vicino Torino, dove è stato per molto tempo rifugiato in un Istituto. Qui lo chiamano “il professore” perché è un uomo colto. Nell’Istituto c’era una cappelletta dove ogni tanto Pavese va.  Pavese è ateo, non è credente, ma in quel momento decide di recarsi spesso in quella cappella.
Un giorno lo incontra il sacerdote che era lì, morto da poco tempo, padre Baravalle, che racconta questo fatto. Lo leggo non per battezzare Pavese, ma per dare l’idea della ampiezza dell’inquietudine e della ricerca di quest’uomo che guardando un campo di grano, o entrando in una chiesetta, aveva lo steso livello di domanda, di attesa. E’ questo che lo rende grande.
Padre Baravalle scrive: “Mi si sedette accanto, senza dirmi nulla. Ma io capii subito che aveva bisogno di me, che voleva parlarmi. Affrettai allora la recita e chiusi il breviario. Pavese mi disse subito (siamo nel ’45): “Padre, mi aiuti. Ho bisogno di lei”. Alla mia risposta di disponibilità seguirono due ore fitte in cui Pavese mi raccontò, senza celarmi nulla, a storia dela sua vita. Alla fine mi disse ancora: “Adesso, Padre, che cosa può fare per me?” (Ricordate che è uno che cerca un giorno di simpatia totale). Io gli risposi che, essendo sacerdote, come tale gli avrei potuto dare il perdono di Dio. Ebbi in risposta un sì, che veniva dal cuore, dall’anima di un uomo che inseguiva
Quella pace interiore che improvvisamente si trovava a portata di mano. La mattina dopo, nella cappella deserta, fece la Comunione e ammise che era la prima volta che la faceva dopo gli anni in cui fece la prima Comunione”.
Perché vi ho letto questo piccolo brano biografico. Non tanto per presentare la fede in Pavese. Sono fatti suoi e di Dio. Ma per farvi capire che l’ampiezza del problema umano che Paese pone tocca tutto. Parlava dell’amore. Parlava di Dio. Perché riguarda la natura dell’uomo e quindi tutte le esperienze che l’uomo si ritrova a fare, quindi la domanda intorno a Dio. Ed è per me interessantissimo questo fatto, che tutti capiamo per esperienza, che  i rari momenti in cui uno fa esperienza veramente di simpatia umana totale sono i momenti in cui uno viene perdonato. Siccome non hai nulla, sei indifeso, hai la tua ferita, il fatto che ci sia un altro che ti abbraccia o stesso ti fa vivere un atto di simpatia totale.

I DIALOGHI CON LEUCO’

Finisco con un’opera che Pavese amava, Dialoghi con Leucò, di cui vi invito a leggere qualche pagina a scuola.
Sono dialoghetti tra figure della mitologia antica che oggi a noi potrebbero sembrare molto lontane. Allora, invece, erano più comprensibili per il lettore medio, perché era più diffusa, popolare,  una letteratura mitologica.
Pavese scrive questi dialoghetti tra figure mitiche pochi anni prima della morte e dice: “Potendo, si sarebbe fatto a meno di tanta mitologia, ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo. Non è qualcosa di arbitrario, ma un vivaio di simboli a cui si appartiene”. Certe figure parlano a tutti, sono un linguaggio a cui si appartiene tutti. Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un improvviso antico, esprimiamo in poche righe, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, “un midollo di realtà”.
Perché questo uomo, che ha fatto poesia dell’uomo che torna in campagna, che ha scritto poesie d’amore, perché questo uomo che da sempre ha fatto opere in cui parla della sua biografia nella maniera più minuta, più semplice, facendo riferimento alla vita normale che ha intorno, a un certo punto fa un’opera in cui fa parlare Achille con Patroclo ecc. Perché per parlare della giovinezza e della morte mette in bocca le cose sulla vita a dei personaggi mitologici?
Perché – dice – facendo così posso toccare un midollo di realtà. Che cosa è un midollo ? E’ una possibilità di vita. Se sei offeso nel midollo, le cose si mettono male. Parlare di midollo della realtà è dirne il segreto, entrare nella fucina del reale. Pavese dice che ha fatto ricorso a queste figure perché quando dice Achille,  più o meno tutti (adesso di meno) hanno in mente di che tipo di uomo sta parlando. Se dice Patroclo, tutti hanno in mente di che giovane sta parlando. E in questo modo può accedere di più a un midollo di realtà.
Nei Dialoghi con Leucò ci sono alcune parti straordinarie. Per questo Pavese aveva riposto in quest’opera un po’ tutta la sua speranza, anche di scrittore. Credeva di aver fatto una cosa che poteva durare molto più nel tempo. Qualche cosa di straordinario. Riprende tutti i temi: l’attesa,
l’amore, l’amore e la morte, l’illusione, la speranza, gli incontri.
Ma  un certo giorno Pavese prende la valigia e invece di andare alla stazione, si ferma 150 metri prima, all’hotel Roma, e si ferma in una stanza e muore nella notte, lasciando solo un biglietto dove dice: “Chiedo perdono a tutti e perdono a tutti. Non fate troppi pettegolezzi”. E’ un biglietto tremendo per certi aspetti e straordinario. Con la parola perdono, anche facendo l’ultimo passo, è come ancora desiderasse la simpatia totale che aveva cercato per tutta la vita. Non avendo trovato un giorno di simpatia totale va verso il niente, dove non sappiamo che cosa c’è, dove l’ombra prevale.
E dice di non fare troppi pettegolezzi.
Non bisogna fare troppi pettegolezzi su nessuno, anche se si tratta di un uomo pubblico famoso come uno scrittore. Il pettegolezzo è una delle cose più violente, perché riduce la persona a un pettegolezzo. Chi lo subisce, ne capisce la gravità. Finché lo fa, lo legge sugli altri, va bene. Ma quando tu ti senti ridotto al pettegolezzo che fanno su di te, ricevi una ferita violentissima e ti senti sfregiato.
Non dobbiamo fare pettegolezzi non solo sulla biografia, ma neanche, e ancora di più, sull’opera. Noi troppo spesso ci mettiamo a fare su poesia e letteratura come un pettegolezzo, una chiacchiera senza peso, come se fosse una cosa secondaria. Per fortuna ogni tanto insegnanti, professori, le monache, provvedono a creare dei punti in cui la letteratura, la grande letteratura, come in questo caso, diventa qualcosa con cui paragonare totalmente la tua vita. Non è qualcosa da studiare per andare bene a scuola (e può essere anche), ma diventa qualche cosa, come studiando Pavese, in cui impari a mettere a fuoco meglio la tua vita. Mettere a fuoco: non è risolvere come se fosse un problema matematico. Mettere a fuoco vuol dire amare, soffrire, attendere, per capire cosa è essere uomo . A questi autori è bello, per quanto a volte è faticoso, rimanere legati.

DIALOGO CON GLI STUDENTI

Vorrei approfondisse il tema del luogo, della radice come appartenenza.

Ci sono due aspetti da tenere presenti.
C’è un aspetto di legame naturale. E’ il legame che un uomo come Pavese, come uomini di quell’epoca, sviluppavano con la propria terra. Di questo nella poesia di Pvese c’è continuamente segno, come nella sua opera tutta. Lui conversa con artigiani, contadini, sabbiatori, operai e mette semplicemente, nei suoi romanzi, gente della sua terra.
Poi c’è un altro aspetto che posso solo indicare per il limite del tempo. E’ quello del rapporto di Pavese con la letteratura americana. Come gli scrittori americani parlavano dei ranchos e delle campagne americane, così lui parlava delle langhe. Nel prendere sul serio il proprio luogo, un uomo è chiamato ad andare fino in fondo alle apparenze. Il sapere che la tua radice è in un luogo, ti obbliga a fare i conti con quel luogo, non più come mero scenario, scenografia del teatro in cui ti sei mosso, ma per affrontare il luogo, il campo di grano, il cielo, le colline, i personaggi, le strade, cercando di chiedere che cosa c’è che riguarda la tua radice. E’ il problema dell’appartenenza. L’uomo sente di appartenere a un posto e si chiede che cosa c’è che riguarda il suo appartenere, che cosa c’è che nutre la sua radice? Che cosa si annuncia a me di questo posto che mi è familiare?
Da qui il luogo diventa mitico, la donna diventa collina.
Pavese ha delle pagine molto importanti su questo.
Del resto, l’appartenenza a un luogo, che è una delle esperienze fondamentali della vita, è fondamentale. Una delle violenze più grandi che hanno avuto i totalitarismi  contro gli uomini, è stata spostarli, deportarli. Portare via dalla casa è uno dei modi migliori per indebolire. Nell’esule la radice si indebolisce e allora lo posso comprare meglio, può essere più facilmente mio. Per questo nella nostra società l’insistenza nel creare luoghi anonimi, in cui non c’è nessuna radice, nessuna appartenenza. I  non luoghi, dove tutto è uguale, che sia la strada di NewYork o di Milano o di Barletta, è tutto uguale, vengono passati come una possibilità di essere tutti uguali,  ma sono invece una grande operazione di potere, perché se tu non hai radice sei più facilmente di chi è più forte, di chi comanda. L’azzeramento dei luoghi di provenienza, è un’operazione straordinaria di massificazione. Questo l’ha capito anche Pisolini. E Pavese per questo dice: io sono di questi luoghi.
Finché sono di questi luoghi non sono mai di nessun potere, perché io sono della mia terra, nella radice che c’è nella mia terra, nel mio cielo, nel mio campo di granoturco. Non sono della divisa che tu mi dai perché mi fai comprare le cose alla moda, e mi fai usare certe cose, e mi fai vedere certi film. Sarò tuo, ma sarò sempre di qualcun altro. Per questo i grandi narratori americani, sono i narratori della libertà.

Sentire il luogo come simbolo dell’essenziale, fa parte di questo discorso?

Fa parte

(dalla registrazione, in ultimo incompleta, senza possibilità di confrontare i vari testi che sono stati letti)

Su Flannery O’Connor

Cattolico, cioé artista

di Davide Rondoni.

    Qualcuno la paragona a James Joyce, qualcun altro ha scritto che la sua opera va oltre quella di Dostoevskij, Poe e Kafka. Lei era orgogliosa di possedere un cospicuo numero di pavoni, un pollo che camminava in avanti a anche all'indietro e di essere nata nella stessa cittadina di Oliver Hardy, il nostro Olio della mitica coppia con Stanlio. Di certo, dalla lettura dei racconti di Flannery O'Connor, nata nel 1923 e morta a soli trentanove anni, non si esce indenni. Una forza originalissima colpisce, uno sperdimento resta sul nostro volto, insieme a una domanda la cui formulazione si fa largo molto lentamente dal fondo del nostro essere.
"Perché sono cattolica non posso permettermi di essere niente di meno che un'artista". In queste parole sono sintetizzati tutti i motivi della forza della O'Connor. Si tratta di parole che entrano nel corpo della nostra epoca con una acutezza e una provocatorietà senza pari.
T.S. Eliot, infatti, già nel 1932 scriveva che si era allora entrati nella terza fase della vita del romanzo per quel che riguarda lo stato dei rapporti tra letteratura e religione. Nella fase, cioè, in cui gli autori di narrativa "tranne James Joyce (…) non hanno ai sentito parlare della Fede Cristiana se non come di un anacronismo." In queste poche pagine introduttive esamineremo quelle succitate parole della O'Connor: in esse vi sono gli elementi della coscienza e del giudizio che agiscono e si rivelano nella sua opera, e che fan di lei una delle scrittrici più "attuali", nel senso della smisurata capacità di essere contemporanea, non certo nel senso della moda.

    Al termine della lettura di questo libro, si troverà, come accade tra i critici che hanno da poco iniziato a studiare la O'Connor, chi apprezzerà (o disprezzerà) l'intensità di realismo delle storie, chi, invece, apprezzerà (o terrà in dispetto) la crudele violenza dei fatti narrati; e ancora, ci sarà chi crederà di ravvisare l'elemento di interesse per un lettore attento al fenomeno cristiano in questa o quella caratteristica dell'opera (i temi, i riferimenti biblici, la visionarietà, l'idea di morale). Io credo che tutto questo cada nel campo delle conseguenze: il cuore dell'arte della O'Connor batte prima, o meglio, sotto. Ed esattamente a quel livello per cui essa non può essere considerata una "scrittrice cattolica" se con questa categoria si intende, per l'ennesima volta, creare un luogo "a parte".
Non si può dire della O'Connor che è una scrittrice cattolica nella misura in cui nessuno si sogna di usare come definizione per Caravaggio o per Michelangelo quella di pittori cattolici. Eppure lo erano, eccome.
Il valore e la forza eversiva, che come ogni grande opera d'arte anche quella della O'Connor porta con sè, somigliano alla forza gratuita di ogni grande evento naturale (non siamo mai così stupiti come quando ci accorgiamo di una cosa spettacolare che esiste in natura) e hanno a che fare con il richiamo di ciò che rende un'opera d'arte tale e della sua funzione nel ri-velamento del mondo.
In altre parole, si tratta di capire perché  un cattolico dei giorni nostri non può che essere un'artista.  

    Un'artista si qualifica come tale per una caratteristica che non pertiene anzitutto alla sua intelligenza o alla sua moralità, almeno nell'accezione con cui correntemente sono impiegati questi due termini. Si può dire che nel grande artista di ogni tempo agiscono un'intelligenza e, quindi, una moralità riconoscibili come piùautentiche  rispetto a quanto in una determinata epoca viene considerato intelligente o buono. Questo vale sicuramente per Omero, come per Dante, ma anche per Baudelaire, per Rimbaud e per Eliot, come per Gaugin e per Shuterland. Un'artista è generalmente altro  da un uomo inteligente e buono. Ma lo è nel senso che costringe chi ne osserva l'opera ad accedere ad una scoperta, ad una esperienza dell'intelligenza e della morale più profonda di quella che l'opinione comune e l'abitudine gli propongono.
In tal senso si comprende bene cosa si intende nell'estetica cristiana quando si afferma che tutti i genii sono in qualche modo "profeti". La loro opera, infatti, costituisce un superamento dell'intelligenza, una inquietudine dell'etica del proprio tempo, poichè essa realizza uno speciale annuncio di cosa sia la realtà.
Le loro opere rivelano il reale.  I corpi michelangioleschi come gli ori di Rublev, le colline del Parmigianino come le ragazze di Modigliani, i felici strazi mozartiani come gli avvi di Beethoven, gli interrogativi leopardiani, l'energia del verso luziano, la madre fidanzata di Pasolini e quella di Caproni: sono tutti esempi di quanto il gesto dell'artista spinga lo sguardo interiore ed esteriore di chiunque a considerare la presenza della vita, il reale con un'attenzione e una passione, tra dedizione e com-passione, maggiori.
In questo senso, per chi come Flannery O'Connor abbia riconosciuto che la realtà è fatta da e quindidi Dio, il gesto artistico è una via alla (ri)scoperta della natura misteriosa della realtà. "La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contato con il mistero" (Natura e scopo della narrativa). Con queste parole la O'Connor descrive il proprio lettore ideale, e ancor di più spiega perché  poche pagine dopo scriva: "San Tommaso chiamava l'arte ragione in atto. E' una definizione molto fredda e molto bella, e se oggigiorno è impopolare, è perché la ragione ha perso terreno fra di noi."
Dal che si comprende che oggi un cattolico non possa che essere un'artista. Oggi come non mai, infatti, agiscono tali e tanti modi di "riduzione" della natura del reale, che chi riconosca nell'esistenza un'esperienza del mistero compie, anche con la sola azione di dare ragione della propria fede, un atto analogo a quello dell'artista. Il mistero incarnato, annuncio stupito dell'avveniento cristiano è vertice e conferma di tale riconoscimento. L'incarnazione, da questo punto di vista, si può considerare l'imprevisto gesto artistico con cui Dio ha rivelato la natura della sua stessa creazione. Traversare e rompere le convinzioni ormai inveterate che la realtà sia frutto e proiezione del proprio sentimento (o del gioco dei propri equilibri interiori), o che sia un niente di niente a cui abbandonarsi casualmente come in una nebbia, o che sia il risultato di quanto l'uomo possa capire e operare su di essa, è un azione che mette in campo la stessa differenza e la stessa intensità di un gesto artistico. In un'epoca in cui la ragione è "impopolare" (mentre, terminata la voga di uno sterile razionalismo, vanno di moda molti indebolimenti della ragione) il gesto dell'uomo di fede, il quale ritiene ragionevole considerare il mistero come realtà utima e non come un'altra dimensione, bensì comereale da cui sorge il reale,  somiglia al gesto artistico autentico, offrendosi come originale contributo alla difesa e alla esaltazione della ragione.

    Flannery O'Connor ha detto e vissuto queste cose con l'intensità e l'ironia che le provenivano da un temperamento umile ma battagliero, arguto e poco incline alle smancierie. E con la urgenza che la dura situazione esistenziale in cui la malattia l'ha gettata. Soprattutto con la integralità che proviene da un giudizio chiaro e che si accompagna ad un agire libero e disinvolto.
Per lei può valere quanto Pavese scriveva nel 1934 a proposito di certe pagine di W. Faulkner: "Non è (…) né il campione nazionale dell'igienica moralità, né il sovvertitore, altrettanto puritano, degli schemi moralisti nazionali, come sono nel Nordamerica quasi tutti i ribelli da trent'anni a questa parte."
Una giovane e valevole scrittrice italiana, Carola Susani, ammettendo recentemente che "condividiamo con lei più di quanto non vorremmo", ha scritto che a Flannery O' Connor interessano i momenti "in cui Dio si manifesta, dove lo trovi di sicuro proprio quando ne avresti fatto a meno volentieri. Io li chiamo miracoli. Quando, cioé, dalla tua vita, organizzata come un'apologia di te, ti risvegli al timore."
I suoi racconti scioccano il lettore afflitto da una fede che ha il gusto dello svenevole, disorientano chi si attende storie edificanti.
"Esito dello studio corretto di un romanzo dovrebbe essere la contemplazione del mistero in esso incarnato, ma si tratta di una contemplazione del mistero dell'intera opera e non in qualche proposizione o parafrasi. Non si tratta di scovare una morale esprimibile o una dichiarazione sulla vita."
Per la O'Connor, il romanzo o il racconto di cui si possano in poche parole riassumere tema e morale sono opere morte.
Nello straordinario scritto "La Chiesa e lo scrittore di narrativa" che qui ripresentiamo, ella afferma che per tale scrittore "tutto trova verifica nell'occhio, organo che, alla fin fine implica l'intera personalità e quanto più mondo riesca a contenere. Mons. Romano Guardini ha scritto che le radici dell'occhio sono nel cuore. Comunque sia, per il cattolico si diramano addirittura fino a quelle profondità del mistero rispetto alle quali il mondo oderno è diviso: da una parte cercando di rimuovere il mistero, mentre l'altra cerca di riscoprirlo in discipline che, dalla persona, pretendono meno della religione". Per questo motivo, prosegue la O'Connor, "lo scrittore di narrativa così scopre, se mai scoprirà qualcosa, che non spetta a lui modificare la realtà o a modellarla in favore della verità astratta. Lo scrittore imparerà, forse più velocemente del lettore, a essere umile di fronte a ciò che è. Ciò che è, è tutto quello con cui ha a che fare, il concreto è il suo mezzo."
Riprendendo una definizione di Henry James, la O'Connor conclude che la "moralità di un brano di narrativa dipende dall'entità di vita sentita  ivi compresa. Lo scrittore cattolico, nella misura in cui si conforma all'ottica della Chiesa, sentirà la vita dal punto di vista del mistero cristiano centrale: ed è per essa che, a dispetto di tutto il suo orrore, Dio ha ritenuto valesse la pena di morire". Qui vale la pena solo di accennare a quanto si svolgeva in concomitanza nella letteratura americana coeva all'autrice di Wise blood , (la saggezza del sangue, 1952), il romanzo con cui esordì raccontando di un predicatore di una Chiesa senza Cristo il quale impazzisce. Per maggiori considerazioni si veda la post-fazione al presente volume. Basti pensare che negli stessi anni in cui lei scrive, accanto a King Hemingway furoreggiano da un lato W. Faulkner, a cui per certi aspetti stilistici la O'Connor è accostabile con il suo mondo di perduti e Dos Passos con il suo mondo percorso da volontarismo ideologico.
    Il realismo della O'Connor, la sua attenzione ai "costumi" del sud, ai modi di dire, ai dialettismi, il privilegio dato a protagonisti e a figure che oggi si definiscono borderline  , e tutto quanto di lei è stato classificato come "grottesco", non sono l'esito programmatico di una scelta estetica, ma la conseguenza di una valutazione ontologica, anzi la più impressionante valutazione ontologica: "E' per essa -la vita- che Dio ha ritenuto valesse la pena di morire". Citando Conrad, autore amato, la scrittrice affermava che suo scopo era "quello di rendere la maggiore giustizia possibile all'universo visibile". Ovvero, di non dimenticare che "una storia implica sempre in maniera drammatica il mistero della personalità".
"Tutti i romanzieri sono fondamentalmente delle persone che cercano e descrivono il reale. Ma il tipo di realismo di ciascun romanziere dipende dalla sua visione delle estensioni ultime della realtà". E cosa sono tali "estensioni ultime" ? Si tratta della libertà umana, o meglio il dramma che la attraversa.  "Se lo scrittore crede che la nostra vita sia e rimanga essenzialmente misteriosa, se considera tutti noi come esseri esistenti in un ordine creato, alle cui leggi rispondiamo liberamente, allora ciò che egli vede in superficie lo interesserà solo nella misura in cui, attraverso di esso, potrà penetrare in un'esperienza del mistero in quanto tale. (…) Per questo genere di scrittore il significato di una storia non inizia se non ad una profondità in cui le motivazioni adeguate e l'adeguata psicologia e tutte le varie determinazioni sono state esaurite. Un tale scrittore sarà interessato a quello che non comprendiamo piuttosto che a quello che comprendiamo. Sarà interessato alla possibilità piuttosto che alla probabilità." Vale a dire, che la ragione in atto  di un gesto artistico sta nell'affermare come livello ultimo della natura la categoria della possibilità, cioé quell'ambito in cui la ragione e libertà umane si incontrano con l'esistenza e l'azione del Mistero.     Tutto ciò pare un' impresa titanica, in un'epoca che, scrive ancora la O' Connor, "dubita tanto dei fatti quanto dei valori".
Ma quanto parrebbe titanico a qualsiasi altro genere di opera, di natura filosofica, teologica e anche apologetica in senso tradizionale, si attua in modo speciale nella realizzazione artistica. Non credo che sia un caso che il rinnovamento più recente nella vita della Chiesa attraverso l'opera di grandi figure di pastori e di pensatori, nonché attraverso la vita di grandi movimenti, iniziato negli anni '49 e '50 -gli stessi a cui la O' Connor si riferisce- si sia avviato per opera di persone dotate di forte sensibilità artistica.
Del resto, insisteva il Claudel di Positions et  propositions,  il livello di senso estetico nella storia della Chiesa è pari al livello della coscienza che essa ha della propria natura e del proprio scopo. Il poeta dell'Annunzio a Maria perciò si doleva del fatto che sacerdoti i quali ogni mattina recitando il salterio incontrano la grandiosa poesia dei Salmi, propagassero poi nei gesti della catechesi e nella loro stessa eloquenza un'estetica viziata da un gusto dolciastro.
    La Chiesa, ha scritto la O'Connor, "non è una cultura". Vale a dire che essa non è un bacino da cui trarre argomenti, personaggi o idee, possibilmente buoni ed edificanti. O, ancor peggio, una sorta di recinto entro cui a certe figure o a certe esperienze non si dà accesso. "Se si arrivasse a snidare il lettore cattolico attraverso la palude di lettere al Direttore e altri luoghi dove esce per un attimo allo scoperto, ci si accorgerebbe che è più manicheo  di quanto la Chiesa non gli permetta. Separando quanto più possibile la natura e la grazia ha ridotto il soprannaturale a un pio cliché."
Per la O' Connor la Chiesa è "l'unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando", proprio in quanto annunciando l'avvenimento di Cristo che incontra la condizione di "povertà", di "anormalità" e di libertà umana, non permette la separazione tra natura e grazia. Non è questo l'aspirazione profonda di ogni gesto artistico, anzi la sua struttura ? In mezzo a tutto quel che è prevedibile,  l'elemento che fa funzionare il racconto per F. O' Connor è "l'atto libero", "l' accettazione della grazia".
    
    Tra i racconti che seguono, alcuni sono provvisti di grande forza tragica. Leggendo la O'Connor ci si accorge che esiste un tragico  cristiano, un tragico due volte disperante: la libertà umana può decretare la propria chiusura alla grazia, essere il sottilissimo ma invincibile muro contro cui anche la volontà del cielo è impotente. La grazia qui non è una faccenda di coretti angelici o di levità azzurrine: è il lampo con cui un protagonista del racconto comprende il suo destino, il suo vero  destino. Il che non coincide, naturalmente, con un lieto fine.
(Si pensi a "Un brav'uomo è difficile da trovare" e alla figura della nonna che comprende chi è  il Balordo che assale lei e la sua famiglia)
Si tratta di un tragico, per così dire, non più solo dell'uomo ma anche di Dio. Non è più solo la disperazione umana in scena, ma, devastata e imponente, c'è la disperazione divina. Quella disperazione, si badi, che può essere ribaltata solo da una forza che l'uomo non riesce nemmeno ad immaginare, e quindi nemmeno a rappresentare, e che costituisce la forza delle forze di Dio, la sua misericordia.
L'ironia che segna i racconti della O'Connor nasce come una eco di questa "forza delle forze"; non è un paliativo, non è un espediente di gradevolezza. La sua capacità di ridere (e di far ridere) nasce dalle stesse radici dello sguardo che osserva la dura e deforme vita dei suoi  personaggi. Questa convivenza di senso tragico e di ironia, del resto, caatterizzò la sua stessa esistenza. Mentre scriveva racconti "terribili", disegnava, secondo la sua primitiva vocazione, fumetti. E in certe lettere in cui parla della sua mortale malattia…

    Giustamente, Elisa Buzzi in un suo stimolante saggio sulla O'Connor di qualche anno fa, peraltro scritto in anticipo su quanti anche in Italia han dato vita a una sorta di recente "scoperta" della O'Connor, richiama il senso anagogico  che nel Medioevo veniva riconociuto nelle Scritture e che Dante stesso nella enigmatica lettera a Cangrande afferma essere il tipo di senso  da ricercare leggendo la sua Commedia. Con visione anagogica si intende una attitudine del vedere che è grado di accorgersi come in una sola immagine o in una situazione siano in gioco i diversi livelli del reale, collegati al mistero dell'esistenza divina e della nostra partecipazione ad essa. In altre parole, i livelli di significato letterale, morale, esistenziale o drammatico, e teologico convivono in un'unica immagine, ne sono la struttura. Le figure o i simboli significativi  in un racconto (un personaggio, l'auto che usa, certe azioni) sono ricchi di tutti questi livelli in gioco. Non è detto che si arrivi immediatamente a coglierli tutti, né che figure e simboli significativi  siano quelli che più facilmente si pensa lo siano. Ma è certo che la comprensione di un racconto come quelli della O'Connor si arricchisca mano a mano che se ne percepisca la visione anagogica. Il che, sospettiamo rileggendo la Epistola dantesca, vale per ogni grande opera d'arte. Al lettore occorre dunque una disponibilità a uscire dal quadro consueto della propria percezione, a lasciare che le figure e le situazioni che la visione dell'autrice gli propone "lavorino"  dentro di lui, e, infine, a sorprendere i momenti di epifania. Proprio sulla natura epifanica delle loro storie sono stati accostati Joyce e la O'Connor.
    "Io credo che esista una sola Realtà, punto e basta", scrive la O'Connor in una delle lettere presenti in questo volume. e "la realtà ultima è l'Incarnazione". La scrittrice è consapevole di scrivere in un'epoca in cui "nessuno più crede nell'Incarnazione, cioé nessuno del (…) pubblico." Lei sa bene che il suo "pubblico sono le persone che credono che Dio sia morto".
Da questa precisa coscienza nasce nella O'Connor l'insofferenza verso tutto ciò che riduce il cristianesimo ad altro dalla certezza nell'avvenimento dell'Incarnazione. In un'altra lettera qui riportata racconta di come sbottò dinanzi a chi considerava l'eucarestia "soltanto un simbolo, per quanto ben riuscito": "Beh… se è un simbolo che se ne vada pure all'inferno. ". Il valore della visione anagogica si radica in una fede ragionevole, libera e certa.
Questi sono occhi che, secondo le già citate parole di Conrad amate dalla O'Connor, rendono la "maggiore giustizia possibile all'universo visibile". Sono occhi che hanno molto amato e che, raccontando l'esistente, ne tramandano la vita reale contro tutti i grandi spot dell'apparenza.
 

 
 

Su Campana

I grandi poeti sono obbligati all’umiltà. A sparire nella terra, nell’humus, nella terra che li genera, che è misteriosa. Vuoi per ignoranza sulle condizioni della loro reale esistenza (di Dante, in definitiva, sappiamo poco con certezza) o, all’opposto, per esubero e complicarsi di indagini si arriva a non raccapezzarsi più bene. La biografia dei poeti offre lo sgomento di una profonda inafferrabilità. Anche in questo la loro presenza nella storia indica qualcosa di valevole per tutti. Chi mai di noi, infatti, è “afferrabile” completamente dai propri simili ?
Estremo, quasi violento nella sua luce particolarissima è il caso di Dino Campana. La sua vita per nulla piacevole (morì dopo un lungo internamento in manicomio nel marzo del ’32)  è stata destinata ad esser piacevole pasto per la curiosità dei letterati da salotto e materia succosa per le zanzare delle Università. A lui, che a Bologna fece fatica a trovare un letto dove dormire, Bologna ha dedicato nel luogo più prestigioso della città, l’Archiginnasio, un convegno e una mostra, “I portici della poesia ”. Campana pubblicò qui, su alcune riviste goliarde, le prime elaborazioni di quello che sarebbe divenuto un capitale libro della nostra letteratura, I Canti Orfici. La documentazione offerta dal dibattito e dalla mostra bolognesi è ricca e ghiotta per appassionati ed esperti. Il lavoro condotto da Marco Antonio Bazzocchi e da Gabriel Cacho Millet è rigoroso e appassionato. Dopo l’apertura della padrona di casa, l’Assessore Marina Deserti, che ha ricordato la vitalità plurale della presenza della poesia a Bologna, l’intervento introduttivo di Ezio Raimondi ha sottolineato la forza di testimonianza del “luogo” nella poesia di Campana, e il suo contributo alla creazione di un legame tra passato e futuro. Millet ha ripercorso la trama vitalissima e ombrosa dei rapproti con Binazzi, Morandi, Bacchelli e altri.Marco Antonio Bazzocchi, dopo aver ripreso i ritratti che si hanno del Campana bolognese, si è addentrato a cogliere le suggestioni, oltre che di Nietszche, del Faust goethiano e di un’opera come “Sesso e carattere” del Weininger –suicida poco più che vent’enne-. Ma anche in questo caso il Bazzocchi ha chiuso il suo discorso con la domanda, più forte di prima: “Ma chi era, chi è stato Dino Campana ?”
Più volte Mario Luzi, il più veramente campaniano dei nostri poeti –campaniano nella poesia, intendo, dov’è più difficile esserlo, giacché negli atteggiamenti esteriori oggi siamo tutti diventati un po’ Campana- ha avvertito: non soffermiamoci troppo a spulciare la biografia. E ha sottolineato piuttosto la grandezza di quel libro venuto fuori tra mille difficoltà e pieno di emblemi letterari ed artistici del passato presi a prestito per indicare emblemi profondi del vivente. E’ un libro che “reca una vitale proposta di liberazione all’uomo moderno”. Perché ? Leggendo i Canti Orfici si è da subito persuasi che non c’è cosa più falsa della presunzione umana di essere “il centro” dell’universo, di esserne il legislatore, il misuratore. E Campana non ristà, come molta cultura moderna, in una posizione di lamento o di disdegno alla Capaneo, per questa riconosciuta “diminuzione” della presunzione umanistica e romantica. I suoi appunti notturni, di viaggio, le poesie lasciate a mezzo, i versi stupendi che lampeggiano, sono l’alfabeto di una lingua umana spesso dimenticata: non la lingua del presuntuoso che si lagna se il mondo non è fatto come dice lui, ma il balbettare, il gridare, il dare in escandescenze di chi si sente attratto da un andamento infinito, stragrande, da una misura più vasta della sua mente. Il cinema dell’universo lo attrae. Campana non è stato eccessivo come uomo (è stato un povero Cristo come tanti) ma lo è stato veramente come poeta, rispetto a tanti poeti che si sono ripiegati nel lamento della propria presunta centralità perduta, quindi senza più stupore, o con stupori pallidi dinanzi alla soverchiante vita. Eccessiva, felicemente eccessiva, la sua poesia, reca nella pagina iniziale dei “Canti Orfici” le stesse due parole con cui Paul Claudel definiva Rimbaud: mistico, selvaggio. L’umiltà tetra in cui è stata inghiottita la sua esistenza fisica è prodigiosamente restituita – e mi verrebbe da dire: inizialmente risorta- come umiltà luminosa nella sua opera, che sommuove e rilancia. Andrea Zanzotto, con al collo una sgargiante cravatta presa in prestito per l’occasione, è intervenuto al convegno bolognese a ritirare il premio Campana, conferitogli per un libro, “Sovrimpressioni”, che non è il suo più vivo. Il poeta di Pieve di Soligo ha ripercorso sul filo di ricordi il suo rapporto con la lettura dell’autore degli Orfici. Un rapporto segnato anche dalla voglia di litigare, e dalla rabbia che quel poeta non fosse abbastanza “distante”, ma soprattutto dalla certezza che egli evesse sempre “ragione”.
 

Su Calvino

Le cinque lezioni americane di Calvino ci mostrano uno dei maggiori esempi di intelligenza applicati alla letteratura. Scopo del presente testo è di mostrare come Calvino fallisca proprio nello scopo di difesa del proprium della letteratura che si era prefissato. Non fallisce poiché poco esperto o poco documentato, né poiché poco intelligente. Ma perché è viziato da  un difetto tipico degli intellettuali moderni: il pregiudizio. Il quale lo mena fuori strada, anzi all’opposto delle sue buone intenzioni.
Non intendo –né saprei come fare, del resto – mettere in discussione punto per punto Calvino e il suo sincero sforzo di portare e di lasciare alcune cose valevoli dietro di sé come frutto di una matura e dotta riflessione. Ma credo di aver letto queste lezioni con maolta più passione di tanti che le osannano e le riutilizzano nelle aule universitarie e nelle scuole. Perché ho stima assoluta del tentativo di Calvino e della sua sincerità nel perseguirlo. E perché credo che quel che lui ha provato a fare sia un lavoro che ciascuno scrittore dovrebbe fare, in modi diversi. Magari con più ironia, alla Carver. Ma Carver non è Calvino.
Mi limiterò a muovere alcuni appunti di lettura. Ma appunti appuntiti, credo, come la passione sa appuntire.

Dunque: leggerezza. E’ la lezione fondativa, se così si può dire, quella dove l’autore dispone le sue pedine. Quella, si dice, meglio lavorata.
“Ho cercato di togliere peso”. Questa è la dichiarazione di poetica che apre e percorre tutta la riflessione.
L’accorgersi di una “lenta pietrificazione” delle persone e delle cose, che non risparmia “nessun aspetto della vita”: questo è il punto di partenza, e di arrivo, circa il contesto in cui si muove l’opera di creazione e di giudizio.
Lo scrittore parte da un dato che ritiene assodato per sempre, almeno assodato per sempre a partire dall’epoca moderna: il mondo è greve, anzi più precisamente l’esistenza è greve. Il mondo, infatti, è un oggetto che lo scrittore – seguendo i dettati dei philosophes amati: i quali, da Bruno a  Bathes sotto le varie maschere hanno quella finale di Lucrezio e il profilo di Epicuro – potrà rivelare leggerissimo, pulviscolare, illusorio, combinato in infinite possibilità. Ma l’esistenza, la nostra esistenza, quella che scontiamo vivendo, la nostra condizione umana, è irrimediabilmente greve.
C’è qualcosa dell’essere uomo che è grave, da alleggerire. E non è la morte. O almeno Calvino non la chiama mai.
E compito della intelligenza è compiere il salto di Cavalcanti narrato dal Boccaccio, un salto che fugge alla pietrificazione. “Forse solo la vivacità e la mobilità del’intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartiene a un altro universo da quello del vivere.”

Il mio sangue e la mia carne (e la mia intelligenza) si ribellano con tutta la loro forza molecolare a questa sentenza già stilata in anticipo.
Nessuna salvezza per la carne, per i cari sensi, nessuna mobilità della vita tutta intera, decapitazione –la testa da una parte e il corpo da un’altra (almeno gli antichi preti avevano più rispetto: l’anima che se ne andava lasciando, ma provvisoriamente!, il corpo era più che l’intelligenza, era il soffio stesso di Dio, dato a stupidotti e a professori, a ignoranti e a dotti, persino ai dementi).
Calvino inizia a parlare della letteratura a processo concluso: i giudici sono usciti, gli scanni svuotati, anche il pubblico scema, le toghe sono già ripiegate. Bene, ora si parla di letteratura, di poesia etc etc. Ma non più dentro al processo, non più nel vivo del dibattito. Il bello della faccenda è già passato.
I filosofi e gli storici hanno già letto la sentenza. I poeti e gli scrittori possono ora procedere al ricamo. Ora dedichiamoci alle conseguenze letterarie.

La prima questione è la dislettura di Dante. Il che non è poso, visto che queste sono lezioni tenute da un italiano nella terra dove sono sorti i maggiori dantisti contemporanei.
Dovendo sistemare la questione un po’ banalotta di una divisione degli scrittori tra quelli della leggerezza e quelli della pesantezza mette Dante tra i secondi, poi si ricorda della poesia del Paradiso, poi dice che Dante però vuole dare sempre il peso esatto delle cose. Insomma, banalità.
A Calvino sfugge competamente la forza del movimento di Dante.
Gli sfugge la forza di movimento della parola poetica, che in Dante mette in moto tutta la libertà e la varietà dell’umano, allineando nel panorama di un viaggio umano le possibilità dell’inferno, del purgatorio e del paradiso.
Per Calvino tutto questo movimento è sostanzialmente inutile: il giudizio di pietrificazione del mondo è definitivo. Una pietrificazione che è rivelazione dell’inconsistenza, una pietrificazione del nulla. Non c’è altro moto.
“Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che costato nella vita, e a cui cerco di opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura”.
Sembra una frase eroica. Lo è forse nella sua sincerità. Ma è un pregiudizio terribile e banale. Né Dante, né qualsiasi poeta che tenga aperti i conti tra vita e letteratura, tra scoperte della vita e della letteratura sottoscriverebbe questo de profundis per la vita con il relativo collocamento della idea di letteratura su uno strano e improbabile bastione di difesa. Che essa sia “l’unica difesa” che Calvino riesce a “concepire” indica solo il limite della sua concezione.
La stessa idea poco sotto espressa della letteratura come “terra promessa” del linguaggio, poiché nell’azione letteraria è possibile un’opera di correzione continua fino a un certo limite che tenta di soddisfare l’autore delle proprie parole, indica che ci muoviamo in un ambito in cui lo scrittore cerca e può trovare soddisfazione nella letteratura.
W.H. Auden parlava della poesia come l’azione del dare il nome proprio alle cose.
Parlando di Adamo come del proto-poeta, egli indicava la necessaria e inesausta connessione tra la terra della letteratura e la terra del mondo. Così perlatro Auden indicava anche un compito infinito alla letteratura e alla poesia, un compito che ne giustifica la permanenza e che si avvicina a render possibile quel che sognava il Roland Barthes citato da Calvino “allorché si domandava se fosse possibile concepire una scienza dell’unico e dell’irripetibile. (…) Une Mathesis singularis”.
Tale scienza dell’unico ed irripetibile, direbbe Piero Bigongiari, è una scienza nutrita di stupore. Ma lo stupore richiede che nell’oggeto esaminato vi sia “dentro” un punto di fuga, un elemento continuamente fonte di stupore. E’ quell’elemento che ancora Auden indicava quando diceva che in poesia si può trattare di tutto ma “esiste una sola cosa che ogni poesia deve fare: lodare tutto ciò che può, per il fatto che esiste e che accade”. In Calvino questa percezione della lode per l’esistente (altrove Auden parla di ringraziare) manca.
L’elemento continuamente sfuggente ma altrettanto certo che rende la cosa esistente lodabile in quanto esiste si chiama essere o infinito creatore. Averlo preventivamente negato o cacciato nella enciclopedia delle cose già risapute e poco interessanti è l’origine della percezione della pietrificazione del mondo.
Se altrove Calvino è chiaro nel dichiarare che “il simbolismo di un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre” lo è altrettanto nel chiarire che la corsa delle parole e della nostra nominazione è verso il vuoto. Così che la proprietà della letteratura (in narrativa o in poesia) è nel creare una figura, l’unica figura possibile, in un mondo che non ha figure, l’unica forma in un mondo che non ha forme, e anche l’unico organismo o parvenza di esso in un mondo che non ha più esistenza. Il salto di Cavalcanti che Calvino sceglie come emblema della vivacità e della mobilità dell’intelligenza, uniche a sfuggire alla condanna del vivere, è anche l’emblema di chi cerca nella scienza le conferme che la vita è davvero quella leggerezza che la scienza di Pitagora e la filosofia di Epicuro ritengono, poiché “la letteratura non basta ad assicurarmi che on sto solo insegunedo dei sogni”. Quelle dottrine sono espresse nella scrittura. Non a caso Calvino annota che per come ce lo presenta Ovidio, Pitagora “somiglia molto a Budda”.
In queste lezioni Calvino ci fa capire che il vero scrittore contemporaneo deve essere un nuovo Ovidio. Poiché una cosa è certa: oggi chi va per la maggiore sono maestri come Epicuro, Budda e Pitagora. Calvino invita gli scrittori ad accorgersene. In questo è radicale e programmatico, con la stoffa del vero intellettuale di valore ed engagé. Basti vedere l’assoluta ininfluenza della cultura cristiana nell’autoritratto intellettuale che fa di sé questo autore italiano in vsita negli Usa.
Sono lezioni funeree. Tipiche dell’intellettuale moderno: senza esperienza nessuna di letizia, ma con un cupo fondo di tristizia montato da un ghirigori di ironia che non riesce mai ad aprire il sorriso. Non è una colpa, beninteso, ma un fatto.
Da questo punto di vista è comprensibile che per Calvino Dante, come Ignacio di Loyola (e non sarà un caso che si tratti di due autori cristiani) sia interessante in quanto straordinario genio dell’immaginazione e solo come punto di partenza per un’analisi delle idee sulla immaginazione e sulla loro evoluzione storica, con l’ausilio di Starobinskij. La sua difesa del valore della visibilità –peraltro oggi ancor più condivisibile, date le mutazioni da Calvino previste e ora in atto- è però per così dire, sorda al suggerimento dantesco circa la verità di un livello dell’esistente che muove la immaginazione. La difesa dell’immaginazione come “una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessati, piacevoli e divertenti” coincide –ma Calvino se ne accorge ?- proprio con l’apologia di quegli strumenti che dominando oggi il sistema dei media stanno uccidendo il valore della visibilità. Il suo pienamente riconoscersi in una idea di immaginazione come “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò (…) che avrebbe potuto essere” è, in ultima analisi, una adesione al principio di inconsistenza del visibile, di sua pietrificazione, per quanto ricamata e sgargiante, del niente.
Diceva Flannery O’ Connor che nel Novecento si sviluppa un’arte con un grande sviluppo della sensibilità e pochissima visione. Per quanto freda e austera, l’idea di letteratura di Calvino premia la eslatazine della sensiblerie. Egli infatti non affronta il problema della visione, non affronta Dante e il tipo di movimento che il grande poeta riconosce e riattiva nelle parole, nel linguaggio in quanto lo riconosce nell’esistenza.
Per tutto il suo poema Dante ci dice di essere costituito dal rapporto con l’Altro e che non solo la sua tensione morale e la sua virtù di conoscenza, ma anche quel che gli è più proprio come poeta, la parola e l’immaginazione, si costitusicono in quel rapporto con l’Infinito.
Io è un altro, avrebbe scritto Rimbaud che, a mio modesto avviso, smise di scrivere perché nella sua condizione personale e culturale non gli pareva più possibile la stessa esperienza di poesia come azione, come moto vitale, di Dante.
Quando nelle pagine successive difende come valore la “molteplicità”, Calvino indica che “lo scetticismo di Flaubert, insieme con la curiosità per lo scibile umano accumulato nei secoli, sono le doti che verranno fatte proprie dai più grandi scrittori del xx secolo”. La sua previsione si  avverata, con il dubbio che siano essi i più grandi scrittori. Sotto questo profilo, appare un ppo’ stiracchiato il suo stesso tentativo di accostare Gadda e Borges al Perec e al suo iper-romanzo “La vita, istruzioni per l’uso” in cui “per sfuggire all’arbtrarietà dell’esistenza” si ha “bisogno di d’imporsi delle regole rigorose (anche se queste sono a loro volta arbitrarie).”.
Non credo che Gadda né Borges siano riconducibili in questo quadro, così come nemmeno altri grandi scrittori come Kafka o Mutis. E Calvino è poi costretto a eludere nella sua analisi alcuni filoni vitali della modernità che va da Baudelaire a Eliot, da Yeats a Auden, a Frost, a Milosz. Così come non può “prevedere” l’opera di Dostoevskij o di Campana  o di Luzi.
La molteplicità come regola del romanzo inteso come  “grande rete” tende alla moltiplicazione dei possibili e vuole in fondo documentare la risposta che Calvino stesso dà esplicitamente alla domanda”chi siamo noi”: “chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni ?”
E’ paradossale, ma non troppo: questa è la stessa risposta che è implicita nella ultima campagna pubblicitaria di un grande provider internet.
Se la visione antropologica offerta dall’esperienza della letteratura è la medesima della fruizione della virtualità, proprio chi ne promuove la nobile difesa si mostra il maggior alleato della sua inessenzialità.

Su Auden

Credo che il poeta e premio nobel Josif Brodskij parli della poesia di W.H.Auden in modo eccellente ma limitato.
Il che conferma che non basta che un eccellente poeta parli di un altro eccellente poeta perché vengano dette cose eccellenti sulla poesia, su ciò che nella esperienza che chiamiamo poesia conta veramente.
Ma il dialogo a distanza di due poeti permette di inserirsi in quel colloquio e di aprire magari un altro braccio del fiume, lungo il quale a qualcuno convenga avventurarsi e sia proficua la navigazione.

Le analisi di Brodskij delle poesie di Auden, ad esempio di In Memory of W.B. Yeats, sono sicuramente un bell’esempio di come vada commentata in pubblico una poesia, oltre che un esempio di intelligenza. E ogni poeta o lettore di poesia ha qualcosa di imparare da quegli esercizi.
Eppure Brodskij a mio modesto avviso erra quando sembra determinato a dimostrare ai lettori di Auden che essi si trovano finalmente di fronte un “poeta equilibrato”, che “si sentiva a casa propria nel Novecento, “a differenza dei suoi illustri contemporanei (di Yeats in particolare ma anche di Ezra Pound e di T.S. Eliot, il quale gli pubblicò la prima raccolta poetica essendo allora direttore della Faber and Faber) che erano le figure dominanti sulla scena poetica inglese di quel periodo”.
E’ difficile credere a Brodskij leggendo versi come

(…)
Quella che noi chiamiamo Storia
Non è una cosa di cui menar vanto,

fatta com’è
dal criminale che è in noi:
la bontà è senza tempo.

(Archaelogy)

O è ancora difficile credere che Brodskij colga esattamente nel segno quando leggiamo quel che viene riportato da un’intervista di Auden nell’Ottobre del 1971 all’Herald Tribune:

“Quello che ora succede di spaventoso sono gli artisti che si domandano: “cosa è pertinente nel 1971?”. Bene, può essere importante che ciò che io scrivo all’età di 64 anni, ma è assolutamente senza importanza quello che scrivo nel ’71. Questa schiavitù nei riguardi del momento è la più tirannica di ogni altra costrizione che io possa pensare.”
In più punti e nella sua tessitura complessiva il poema, anzi la “ecloga barocca”, “L’età dell’ansia” provvede a mettere in proficua discussione la lettura di Brodskij. Lo stesso vale per la raccolta “Un altro tempo”. Il Novecento è stato un secolo fondato su varie flessioni dello storicismo e, di conseguenza, attraversato dalle reazioni “generate” da quella matrice. Auden, pur essendone informato e formato, non pare a suo agio in quella dialettica.
Ma Brodskij, va detto, dà quel giudizio su Auden come poeta “equilibrato” in opposizione alla figura di due poeti, che dunque dovremmo chiamare “squilibrati”: E. Pound e T.S. Eliot.
Non è qui il luogo in cui si possano nemmeno iniziare a esaminare analiticamente le ragioni che conducono Brodskij a compiere tale opposizione. Viene però il sospetto che Brodskij tema che la poesia del secolo di cui egli è uno degli apici risulti squilibrata. Andando dietro a Eliot e a Pound, sembra dire il recente Nobel, si andrebbe incontro a deprecabili disequilibri. Propone dunque, attraverso Auden, una sorta di possibile canone di equilibrio.
Di tale opposizione mi “servirò” piuttosto per aggredire una questione più importante e, per così dire, precedente.
Di certo, Brodskij non era uno sprovveduto e conosceva molto bene l’opera e la vita di Auden, con i suoi periodi di attraversamento e di transizione, con i movimenti del pensiero e della lingua che portarono questo poeta supremamente dotato a toccare varii paesi e varii registri, a modificare il proprio linguaggio per dare maggiore universalità e a confrontarsi con le teorie marxiste, con la guerra di Spagna, poi con quelle psicoanalitiche e con l’annuncio del cristianesimo.
Dunque, quando Brodskij dice che Auden è un poeta “equilibrato” evidentemente non intende “tranquillo”, pur se, nota il poeta esule dalla Unione Sovietica, egli non alzava mai la voce e offriva “metafisica travestita da senso comune”.

    Pochi poeti come la generazione dei cosiddetti “trentisti”, tra cui Auden e Stephen Spender, hanno subito quel che Brodskij chiamerebbe la tentazione del disequilibrio.
Sotto la potente spinta di eventi storici coinvolgenti e drammatici, essi gettarono la propria giovinezza di aspiranti poeti nel frastuono della cronaca e del dibattito o della lotta ideologica. Alcuni tra loro lasciarono quella giovinezza nelle trincee, contro muri di fucilazione o sotto i bombardamenti. Come loro, milioni di giovani. Nessuno non ebbe tra parenti e amici un aprirsi del vuoto.
E’ naturale che quella poesia, una poesia di sopravvissuti, si misurasse con il volto ideologico e dialettico della storia.
Questo avvenne anche per Eliot e, in modi diversi, anche per Brodskij e per i nostri migliori poeti della seconda metà del ‘900.
Ha recentemente ricordato Mario Luzi che avviene ciclicamente che la poesia trovi dei momenti in cui gli accadimenti della storia sembrano suggerire la sua inutilità, la sua “morte” come qualcuno crede o ha creduto. Allora sembra che la poesia e i poeti debbano lasciare il loror proprio linguaggio per abbracciarne un altro. E’ acaduto negli anni ’30, ricordava Luzi, ma anche negli anni ’70 almeno in Italia.
In realtà si tratta di momenti in cui la poesia deve trovare una sorta di nuovo equilibrio.
Probabilmente Brodskij intende l’opera di Auden come uno dei luoghi –lui ritiene che sia il più importante- in cui tale nuovo equilibrio è stato riconquistato.
Per ora tralasciamo di indagare la grande ambiguità del termine “equilibrio”.
Registriamo che su tale termine, riferito alle questioni interiori del’’uomo, si sono costruite nell’ultima parte del secolo vere e proprie dottrine che ripescano dalle antiche, e, soprattutto, una moda e una vulgata che ne sottolineano il supremo valore. Nella vita quel che conta –dice la moda a gran voce e con molte voci- è l’equilibrio.
Ma come avviene in Auden, se avviene, tale riequilibrio ? Quale la via e il prezzo per tale conquista ?

In uno dei saggi raccolti dall’autore in “La mano del tintore” Auden parla della poesia come di un “rito”. E conclude:

“(…) Ogni poesia trova la sua radice nel timore reverenziale che si addensa nell’immaginazione. La poesia può fare mille cose, deliziare, rattristare, turbare, divertire, istruire; può esprimere tutte le sfumature possibili dell’emozione e descrivere ogni concepibile specie di evento, ma esiste una sola cosa che ogni poesia deve fare: lodare tutto ciò che può, per il fatto che esiste e che accade.”.

E’ una delle cose più belle che abbia mai letto intorno alla poesia.
Altrove egli si raccomanda che la poesia non “giudichi” ma ringrazi.
In altri punti egli parla della poesia come di un organo vivente e quando racconta a certi studenti le peripezie compositive di un suo testo egli suggerisce proprio l’idea di uno che tenga a un guinzaglio troppo lungo (una specie di guinzaglio contraddittorio con la propria natura di guinzaglio) una cosa viva e autonoma. L’esperienza di chi scrive poesia è proprio così. Si tiene un rapporto problematico con qualcosa che considerare proprio è affascinante, difficile e innaturale.
Ciò avviene non solo per quel che riguarda la fase di nascita del testo (come Dante sapeva bene) ma anche in quella fase similmente oscura che sono le ragioni della permanenza di un certo testo nella storia.
Ad esempio, una delle poesie oggi più conosciute di Auden (sempre che si possa utilizzare in qualche maniera la categoria di fama per la poesia, che invece è cosa refrattaria a qualsiasi cosa che non sia l’incontro attuale), è “Funeral blues”.
La ripropongo in una mia traduzione che, a differenza di altre che ho letto in lingua italiana, cerca di mantenere un corpo alla rima così spesso usata da poeti anglosassoni, i quali nella nostra lingua vengono purtroppo trasformati spesso in geniali prosatori che vanno a capo.

FUNERAL BLUES

Ferma tutti gli orologi, stacca il telefono,
anticipa il latrato del cane con un osso adeguato,
in silenzio i pianoforti e con un rullìo moderato
si porti fuori la bara, lascia che chi geme s’avvicini.

Lascia girare aereoplani lamentosi là in alto
scrivendo in cielo il messaggio Lui E’ Morto,
metti nastri al collo bianco dei colombi sulla via
e che abbia guanti neri nel traffico la polizia.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est e l’Ovest,
la mia settimana di lavoro e il riposo che mi resta,
il mio mezzogiorno, la notte, il mio dire, il cantare;
pensavo fosse per sempre l’amore: ed ero in errore.

Le stelle non son più da cercare: siano tutte spente;
imballa la luna e anche il sole si smonti;
l’oceano svuotami e sradica il bosco
poiché nulla conosco che porti nessun bene.  

Questa poesia è stata resa celebre dal suo utilizzo in un film di successo.
L’avrebbe mai immaginato il poeta ?
Voglio dire che la vita della poesia è molto simile alla vita della vita, determinata nel suo svolgersi dagli accidenti più strani.

Credo che l’equilibrio ammirato e forse auspicato più che riscontrato da Brodskij in Auden abbia a che fare con il desiderio del poeta contemporaneo di affermare, ad ogni costo, una sua centralità nella polis. Anzi una sua funzione assoluta. Verrebbe da dire: affermare che la condizione del poeta, per quanto lo possa essere storicamente, non è quella di essere in esilio dai territori importanti della cultura e della civiltà. E’ un’aspirazione nobile, certo.
Solo che essa si fonda su un’idea astratta e ideologica, per quanto camuffata, di letteratura.
Un’idea di letteratura come strumento conoscitivo principe e come bene ideologico da difendere e promuovere, è alla base della costante richiesta avanzata da Brodskij come da tanti poeti –anche di molto minori- a che venga riconosciuto un valore alla letteratura e di una sorta di dimessa ma tenace religiosità delle lettere.
Il poeta vale perché egli detiene, secondo questa idea, l’unica chiave interpretativa ancora utilizzabile sul mondo. Così, lo scrittore può finalmente uscire dalla sua odiosa condizione di eccentricità.
Sembra, la mia, un’affermazione mostruosa, e si potrebbe citare una sfilata interminabile di poeti più o meno famosi che hanno fatto della eccentricità il proprio stemma, e, a volte, il proprio programma etico e di pensiero.
Ora, alla fine di un secolo tormentoso come il Novecento, la eccentricità del poeta, il suo disequilibrio, non potrà di certo essere ricercato nella sua vera o presunta bizzarria nei rapporti sessuali, nelle sue idee sulla politica, o nella sua capacità di autopromozione sui media, tantomeno nell’utilizzo degli stessi.
Brodskij vorrebbe tirare Auden dalla sua parte, dalla parte di quelli che si sono accomodati nel secolo. Sono coloro che hanno ricavato un luogo per la esistenza della loro poesia, lasciando la pura e nuda esistenza della poesia a testimoniare un ordine controcorrente, o, se volete, un caos sotto la superficie. Hanno dato una delega alla Letteratura, al suo sistema, perché sia lei a perpetuarsi come valore.
So di dire cose gravi. C’è chi insorgerà ricordando le censure, le reali sofferenze subite da molti a causa della loro poesia. Ma non è di questo che stiamo parlando. Permettemi, quando si parla di grandi poeti, di affrontare questioni più grandi del solito, e che non vogliono minimamente né screditare né dimenticare la sincerità di tanti e i prezzi pagati per questo.
Scrive Auden:
“Dal secondo capitolo del Genesi apprendiamo che il Signore presentò ad Adamo, ancora in stato di innocenza, tutte le creature perché desse loro un nome, il quale divenne, dopo che Adamo ne ebbe attribuito uno a ciascun essere vivente, il rispettivo Nome Proprio. Adamo riveste qui il ruolo del Proto-poeta, non del Proto-prosatore.”.
Con queste parole Auden sa di essere al cuore del problema.
Poco più avanti nello stesso saggio riflette sulla differenza dell’esperienza della poesia in culture che riconoscano socialmente e pubblicamente una distinzione tra la sfera del sacro e quella del profano. In tali culture, conclude Auden, “il poeta ha un ruolo pubblico, persino uno status professionale, e la sua poesia è pubblica o esoterica”..
Invece, in culture come la nostra, in cui tale distinzione non c’è, o, meglio “è considerata una questione personale di cui la società non si occupa né si deve occupare, lo status del poeta è quello del dilettante, e la sua poesia non è né pubblica né esoterica, bensì intima”.
Non è detto, nota giustamente Auden, che un tipo di poesia sia meglio dell’altra, ma la differenza resta. Anzi, aggiunge più avanti, “i grandi mutamenti nello stile delle arti riflettono sempre alterazioni lungo la frontiera che divide il sacro dal profano nell’immaginario di una società”.
    In quel saggio, Auden si rifà a teorie che qui non è possibile riprendere. Basti dire che è un saggio impegnativo e denso.
Il tema di cosa sia la poesia nell’epoca moderna è affrontato a più riprese da Auden, ad esempio nel saggio su “La poesia americana”.
Vorrei  solo avanzare un’ipotesi: il poeta equilibrato di Brodskij è forse il poeta che pur sapendo che la società in cui vive gli consente una poesia “intima”, fa in modo comunque di avere “uno status professionale” e una “poesia pubblica ed esoterica”.
In altre parole, poiché nella cultura odierna –almeno nelle sue correnti portanti e massivamente dominanti- la distinzione tra sacro e profano è del tutto lasciata alla coscienza individuale, lo spazio pubblico e riconoscibile della poesia sta tutto nel saper ricavare per sé lo statuto di unico luogo comune in cui è visibile e percepibile tale distinzione e la messa in azione dei rapporti tra entità del sacro e del profano. O, detto altrimenti, il rapporto tra assolutamente individuale, gratuito eccezionale e il comune, il sistematico, lo storico.
 In altre parole ancora, il poeta che avverte nella propria natura qualcosa di valore pubblico e di “esoterico” nel senso di eccedente i confini del sapere convenzionale, e che però desidera o non può non stare in equilibrio con questa epoca deve convincersi e convincere che la letteratura è l’unico luogo comune in cui è visibile l’attività del legame con il sacro e il legame tra sacro e profano. Egli dunque da un lato non può che essere consono a quel che la cultura dominante ritiene fondamentale nell’intimo, nel pubblico e nell’eccezionale. Ma dall’altro dovrà affermare il proprio diritto di esistere come luogo privilegiato di tale cultura. Egli non comunicherà intorno alla vita qualcosa di sostanzialmente diverso da quel che le canzoni, i films e la cultura mediamente accettata offrono. Ma dovrà accampare il diritto di potersene occupare in modo speciale.
Non si tratta, anche se può somigliare, del tentativo di fare della poesia una religione, un luogo del “legame” con il sacro e tra sacro e profano. Questo elemento di naturale religiosità dell’esperienza poetica è coerente nei secoli e tantopiù in un’epoca che vive tutta la secolarizzazione e tutti i suoi rimbalzi.
E’ in gioco piuttosto qualcosa di più alto e complesso, che chiamerei la tentazione della poesia di farsi sacramento, ovvero “segno efficace di incontro tra il divino e l’umano”.  
Senza scomodare troppo i teologi, si può semplificare la cosa in questo modo. L’arte nella storia è sempre stata considerata un luogo di incontro tra l’umano e il divino. Ma il problema è “l’efficacia” ontologica e storica insieme di un gesto in cui quell’incontro avviene. Il sacramento è il punto di quell’incontro efficace: unisce, perdona, rigenera, etc.
La letteratura si offre come sacramento del sentimento contemporaneo. Offre il tipo di consolazione che il lettore contemporaneo chiede al sacro, probabilmente avendo poca esperienza di cosa sia il sacro e ritenendo, come nota Harold Bloom nei suoi studi sulla religione americana, che Dio sia un ottimo strumento per realizzare se stessi, per conciliare i propri sentimenti etc. A un Dio siffatto si chiede un “sacramento minore”, poiché è in se stessi che si devono ricomporre le anomalie, e i peccati che, come diceva Péguy, non “sono più cristiani” e quindi sono solo “sentimenti contradditori”.
Si tratta di una missione affascinante e difficilissima: quante seduzioni, quante indigeste mescolanze, quante ambiguità! Si pensi, per dare l’idea, quanto oggi l’aggettivo di poetico e quanto gli stessi meccanismi del linguaggio poetico siano cercati e usati da diverse e più potenti forme di comunicazione.
In aggiunta, il poeta odierno deve ben guardarsi dal proporre questa sua convinzione con l’uso di toni e mezzi che risulterebbero patetici e incomprensibili. Nessuno può più scrivere poesia con la P maiuscola. Anche se, pur nel tono dimesso di saggi e prefazioni, questa illusione della poesia come ricongiungimento alla funzione adamitica del dare il nome proprio è diffusa ed egemone.

Tale missione è tanto più “giustificabile” in un tempo in cui la lingua della pratica ideologica e politica, della pratica religiosa e della stessa pratica appartenenza a luoghi comuni appare in difetto nel saper dare il nome proprio alle esperienze basilari della vita e ai suoi dettagli.

“I vari Sondaggi d’opinione rilevano soddisfatti
che aveva l’opinione giusta al momento giusto;
(…)
Era libero ? Felice ? che domande assurde:
se qualcosa non avesse funzionato, di certo ne saremmo informati”.

(Il cittadino ignoto)

Tale missione sembra raccogliere i suoi frutti: che non sono calcolabili in acquisizioni di status economico o formalmente pubblico del poeta. Ma è una corrente chiara. Mai come oggi la figura del poeta è vista con un misto di ammirazione aprioristica e di accettazione. Mai come oggi la proposta della poesia come luogo di incontro tra sacro e profano è accettata e cercata.
Eppure, a mio modesto avviso, si tratta di una missione sbagliata proprio in quanto “impossible”.
Infatti la relazione tra sacro e profano che si mostra nella poesia, e nell’arte in genere, non è per così dire soddisfacente.
Deve averlo capito il vecchio Auden. Qui inizia il suo disequilibrio rispetto a quel che vorrebbe Brodskij.
Se ha scritto “L’età dell’ansia” ci deve essere stato un motivo del genere.
Egli non ha esitato a cantare un inno in memoria di Freud, il quale

“comandò soltanto
all’infelice Presente di recitare il Passato
come una poesia finché prima
     o poi inciampò nel verso in cui

molto tempo fa erano cominciate le accuse,
e scoprì all’improvviso chi l’aveva giudicato,
quanto ricca era stata la sua vita e quanto sciocca,
e divenne indulgente e più umile,

capace di avvicinare il Futuro da amico
senza un guardaroba di scuse, senza
una maschera fissa di rettitudine o
un imbarazzante gesto d’eccessiva familiarità”

E scrive in un saggio:
“Ogni bella poesia presenta un’analogia con il perdono concesso ai peccati: un’analogia, non un’imitazione. Non sono infatti le cattive intenzioni a suscitare pentimento e a trovare perdono, ma i sentimenti contraddittori, conciliati nella poesia a cui il poeta li ha affidati per la loro remissione.
L’effetto della bellezza è buono, dunque, nella misura in cui grazie alle sue analogie, il bene della creazione, la caduta storica nella mancanza di libertà e nel disordine, e la possibilità di riconquistare il paradiso e il perdono, trovano riconoscimento. Il suo effetto è malvagio nella misura in cui la bellezza viene considerata non analoga, ma identica alla bontà –per cui l’artista si vede o è visto dagli altri come Dio-, il piacere della bellezza viene scambiato per la letizia del Paradiso, e si giunge alla conclusione che, se tutto è bene nell’opera d’arte, tutto è bene nella storia. Ma nella storia non tutto è bene.”
Del resto il suo così amato poeta Robert Frost, scrive nella prefazione ai suoi Collected poems, citata da Auden nel saggio a lui dedicato:
“(Una poesia) inizia nella gioia e finisce nella saggezza…un’illuminazione della vita –non necessariamente una di quelle grandi illuminazioni su cui si fondano religioni e sette, ma un momentaneo equilibrio contro il disordine”.

    I versi finali della poesia segnata con il XXIV nella serie “People and places” dicono:

“…Le nostre lacrime sgorgano da un amore
che non abbiamo mai superato; le nostre città predicono
    più di quanto speriamo; persino ai nostri eserciti
    tocca esprimere il nostro bisogno di perdono.”

    Cosa è il perdono se non lo stabilirsi di una relazione tra sacro e profano che vada a vantaggio del profano così come è, vale a dire che non gli chieda di essere “già” diverso ? Il perdono è quella azione per cui l’errante rimanendo errante non è più votato alla disperazione del cammino. Il legame tra sacro e profano trova nel perdono la sua sintesi più alta e inimmaginabile.
Che cosa è l’ansia se non il perdurare di un disagio, di una situazione in cui un male non trova non già una risoluzione ma una lettura in pace nel bene ?
Nella parte finale di “L’età dell’ansia” si trova una prosetta:

“Alcool, lascivia, fatica e l’ansia di esser buoni avevano a questo punto provocato uno stato di euforia, sicché sembrava loro che soltanto un errore trascurabile e facilmente rettificabile, una dieta sbagliata, un’educazione inadeguata o un codice morale superato tenessero il genere umano fuori dal millenario Paradiso Terrestre. Solo un altro piccolissimo sforzo, forse soltanto l’individuazione dei termini esatti della descrizione, e la gioia totale sarebbe immediatamente discesa sopra le forze armate stupefatte del mondo terreno ad abolire per sempre tutto l’odio e la sofferenza.”

Può accadere di pensare alla poesia oggi come “l’individuazione dei termini esatti”, una riproposizione adamitica e di quella “innocenza” ontologica in cui l’uomo poté dare il nome proprio alle cose. E dunque stabilire per la Letteratura una missione universale.
Quando i poeti, come fece pure Auden, dicono di avere un solo dovere, anche politico, che è “difendere la propria lingua dalla corruzione”, lo fanno con buone intenzioni, riconoscendo che “quando il linguaggio è corrotto la gente perde fede in quel che sente, e ciò conduce alla violenza”. Ma dietro un’affermazione che pare quasi dimessa, si nasconde una presunzione ancora maggiore di chi dicesse che la poesia cambia i destini delle nazioni.
La poesia, secondo i poeti che parlano così della poesia, ha la forza di difendere il linguaggio, di ricomporre la situazione adamitica del linguaggio. Come se la violenza fosse il frutto di un errore nel dare il nome alle cose. No, anche quel che noi possiamo chiamare con più sicurezza “amore” spesso si corrompe tra le nostre mani; anche quel che chiamiamo con più esattezza dolore viene dimenticato.  La poesia, se vuole essere in qualche modo utile, deve riconoscere i fattori dell’esperienza, non travestirli così come fanno le ideologie alte o basse, gridate o a mezza voce. La maggior parte dei poeti di oggi –allo stesso modo dei giornalisti di oggi e dei professori e degli psicologi – sono propensi ad ammettere un difetto di innocenza storica nell’uomo (bisognerebbe esser ciechi, del resto) e, di riflesso, un difetto di forza utopica della poesia. Ma si trovano completamente dentro quel che aveva individuato Baudelaire, quando vedeva nella perdita del senso del peccato originale il segno e la misura della civilizzazione secondo la cultura moderna. Sono in questa stessa corrente.
Tranne rare eccezioni. Auden sta per così dire a cavallo. Il suo traffico con la psicanalisi freudiana e con il cristianesimo è stato probabilmente un serio tentativo di fare i conti con ciò che scrisse, anziano, in “Grazie nebbia”.

    “L’Uomo deve innamorarsi
di Qualcosa o di Qualcuno,
o altrimenti ammalarsi”
    

    Un discorso a parte meriterebbe, a questo punto, quanto Auden ha sostenuto in un “Poscritto” dedicato al tema del rapporto tra cristianesimo e arte. Ma si andrebbe di lungo.
Egli vede bene che “non può esistere un’arte cristiana” definita come tale dal soggetto trattato dall’opera. C’è invece uno “spirito cristiano” entro cui un’artista può operare, dipingendo una natura morta piuttosto che una crocifissione.
Ma il punto più interessante è quando Auden si augura che esista una risposta alla obiezione che, secondo certe interpretazioni, vede inconciliabili il dato della rivelazione cristiana e l’immaginazione artistica.
L’avvenimento di Cristo infatti produce una crisi nella immaginazione che considera ovvio il sacro, così come nella capacità di rappresentazione.
Egli cerca perciò di elaborare una visione che chiama di “materialismo consacrato”, opposta al politeismo. Un materialismo religioso per cui “ogni cosa è fondamentalmente seria”.
Qualcosa, riconosce Auden, che è molto vicini a una sorta di  panteismo, ma che è più consono a lui di un politeismo che divide la realtà in cose sacre e cose profane.
In tale visione l’artista non riesce a tornare ad essere un profeta e rischia di essere solo il comunicatore efficace di una verità stabilita da altri (nel mondo moderno: la scienza). Però ha un esistenza libera.
Auden, probabilmente preso da una urgenza di tipo innanzitutto morale, non arriva quasi mai a sfiorare il problema del rapporto tra arte e cristianesimo dal punto di vista esistenziale o ontologico. Si direbbe che cerca una sorta di vademecum contro gli errori. Come se il cristianesimo fosse una dottrina contro gli errori e non l’avvenimento di un incontro eccezionale con il Dio incarnato.
    Ma su questo, come detto, il discorso si dilungherebbe.

Il dramma della libert

Per una lettura di Shakespeare

di Davide Rondoni


L’imprendibile William

Il primo avvertimento ce lo sbatte sul muso, con la consueta caustica ironia, Thomas Stearn Eliot. Scrive: “So bene com’è difficile far entrare Shakespeare in una teoria, specialmente in una teoria su Shakespeare”. Il secondo ci viene da quella che J.Keats chiamava “negative capability”, la capacità di sottrarsi da ogni definizione, in cui Shakespeare risulta maestro.  Il terzo avvertimento viene dalla natura teatrale di queste opere. Esse furono concepite per il teatro, per il suo evento. Per il teatro e nel teatro esse trovano vita e attualità. E il teatro, luogo della parola in tensione poetica e della presentata incarnazione del dramma umano, è irriducibile ad astrazione alcuna. E tanto basterebbe perché queste poche paginette introduttive a tre delle sue grandi opere, legate insieme da un titolo in questa speciale collana, si guardino bene dall’essere dunque l’esposizione di qualsivoglia teoria su Mr. Shakespeare. Piuttosto la dimostrazione di un affratellamento, una scoperta di consanguineità.  E, soprattutto, la testimonianza di uno sgomento. Poiché Shakespeare ha un segreto. Un segreto terribile. E noi gli siamo fratelli in questo. Non si tratta, diciamolo subito, di uno dei tanti segreti della sua biografia. Né di un segreto che riguarda la storia tortuosa delle edizioni delle sue opere. No, questo segreto è come un abisso, che sta sotto la moltitudine di storie con cui ha tessuto la sua tela. Un abisso che attrae e respinge. E che distintamente avvertiamo, come lo avvertì lui. Lui che trovò milioni di parole e mille storie per dirlo e per non dirlo. Che si confuse con le sue storie, che appare imprendibile. Lui che, come l’artista di cui parla Joyce, sembra stare sopra o sotto l’opera, e in ogni sua parte e in nessuna, quasi che, mentre tutto si svolge e si intreccia, in fondo se ne stia in un angolo a tagliarsi le unghie. Eugenio Montale dice che Shakespeare sembra non aprire mai veramente il suo cuore. O forse è che nel cuore di quel signore descritto dalle cronache come “gentile, arguto, cordiale ma riservato” si agitava proprio un’indefinibile movimento di trovate e di contraddizioni, di marchingegni teatrali e di figure.
Queste tre opere sono una delle possibili vie per accostarsi a quel segreto. Vie godibilissime, piene di scorci di poesia e di pathos, di sorriso e di divertimento. E pur vie che conducono ad una specie di abisso. A quello che anche noi avvertiamo, e per cui a distanza di quattro secoli sentiamo Mr.  Shakespeare vicino. Lo abbiamo chiamato “il dramma della libertà”.

Un segreto che ci cattura

Anche se su molte cose non siamo d’accordo con il critico Harold Bloom, verrebbe da sottoscrivere quel che lui dice: l’arte verbale di Shakespeare è “a tal punto suasiva da sembrare che non sia affatto un’arte ma qualcosa che c’è sempre stato”. E’ vero, riusciremmo oggi a pensare un panorama ove non ci fossero le sue creature e le loro parole ? Può l’uomo di oggi pensare a se stesso facendo a meno di Amleto, di Mcbeth, di Giulietta, di Lear, di Otello, di Falstaff ?
Oggi il mite e discreto “ordinary poet” della compagnia dei King’s man, il buon imprenditore teatrale, l’agiato uomo di campagna William Shakespeare è al centro di un travolgente successo mondiale. E’ lo scrittore indiscusso. Complici i teatri di tutto il mondo e il gran teatro di Hollywood e del cinema mondiale (con le tante “riduzioni”, nel segno di Lawrence Olivier, di Wells, di Zeffirelli, di Kurosawa, di Greeneway, di Polansky, di Al Pacino, fino al film-fotoromanzo sulla sua vita del ‘99 ) il nome di Shakespeare  è ovunque richiesto e onorato. Naturalmente, non è sempre stato così. Ai suoi contemporanei egli dapprima apparve come uno tra i tanti, particolarmente abile ad usare le forme prestabilite del dramma elisabettiano, e di buon successo. Alcuni lo invidiarono e lo accusavano per la sua facilità nel ispirarsi o, peggio, copiare da opere altrui. E gli studi hanno da tempo messo in luce i debiti che ha con  Seneca, con la novellistica italiana e con autori a lui di poco precedenti o coevi, come Kid o Marlowe. In seguito ci furono grossi calibri come Goethe e Tolstoj  che non lo apprezzarono. E i francesi aprirono le porte dei loro teatri alle sue opere molto tardi. La sua lingua ha fatto impazzire molti traduttori che hanno cercato di conservarne la vitalità poetica e la intensità. E con risultati alterni. Basti pensare al tentativo del nostro Ungaretti condotto sui Sonetti. Grande sforzo, e, come appare dalle note accompagnatorie grande perizia. Eppure l’originale, dicono gli esperti, con la sua forza sfugge, sfugge sempre.
Nonostante tutto ora Shekespeare vince su tutto il fronte. E’ lui la star. In popolarità vince anche su Dante. Eppure, come è noto, egli non si preoccupava affatto di garantire la stampa delle sue opere. Non abbiamo un solo originale di suoi copioni firmato o approvato da lui, condividendo un destino misterioso che lo accomuna a Dante, del quale non abbiamo un autografo della Commedia. E anche i suoi meravigliosi e ambigui sonetti d’amore furono stampati senza il suo consenso. Il segreto della sua opera e della sua persona sembrano nutrirsi a vicenda.
Il salutare sgomento a cui accennavamo proviene dal fare i conti con la natura di questo segreto. E non per eliminarlo, bensì per farci “catturare” da esso. Il titolo scelto per questa trilogia, discutibile e parziale ma certo indicativa, ci espone a quel segreto. Shakespeare eccita e nutre il dramma della nostra libertà, perché pare coincidere con esso.

Esser giusti ? esser liberi ?

E’ una cosa strana questo grandioso drammaturgo e poeta. Tutti d’accordo a dire che la sua forza sia nella capacità di rappresentazione dei caratteri umani. Ci sono zone d’ombra che solo noi –e confusamente- conosciamo di noi stessi, ed ecco che lui ce le ripropone. Le aspirazioni, i sensi di colpa, le follie, gli sperdimenti d’amore o di ira. Pare che abbia viaggiato a toccare le terre più nascoste dell’universo umano. E, dicono tutti, senza avere una sua precisa filosofia. Non è un esistenzialista ante litteram, tantomeno un artista che pensava a sé come a un demiurgo romantico. Era un buon artigiano, rivelatosi un genio. E se forse esagera Virginia Woolf quando dice che leggendo Shakespeare noi non ricaviamo notizie circa la vita reale del popolo nella sua epoca, è pur vero che il Nostro non sembra mai animato dall’intenzione di fare arte come cronaca sociale. I suoi personaggi,anche quelli ricalcati da figure storiche o da macchiette trovate nelle bettole o nelle strade, sono sempre personaggi attuali anche per noi. Eppure, visse in un periodo preciso di tempo. In quel passaggio tra cinque e seicento che vede andare in effervescenza o in depressione tutti i motivi filosofici e letterari del rinascimento, e in cui la cultura dominante ha alle spalle l’adesione al cristianesimo ridotto ormai a memoria involontaria o a pallida consuetudine. In lui convivono, come ha scritto l’acuto suo studioso Alessandro Serpieri a proposito dei Sonetti, la tensione a un ideale di tipo neoplatonico, secondo una caratteristica tipica dell’umanesimo, e una sensibilità aperta al fascino della metamorfosi e dell’incertezza conoscitiva sollecitata dai nuovi orizzonti di scoperta tipici dell’epoca delle scienze seicentesche.  L’uomo che, come il pianeta terra, si scopre decentrato nell’universo fisico non avendo più un certo legame metafisico si sente abbandonato al suo destino, è preso da una febbrile ansia di analizzare se stesso, e di trovare i modi per governare la sua natura di passioni e incontrollabile. La perdita in termini di giudizio razionale e di affezione del senso di quel legame trasformerà la coscienza di essere una creatura libera da dramma a sgomento, se non a incubo.  Per esser se stessi si tratterà di aderire alla legge ? o la salvezza verrà dalla moralità personale ? o piuttosto dal raggiungimento del potere ? o dell’amore ? A cosa destinare, a cosa offrire l’adesione della propria libertà per averne in cambio una sicurezza nel gran teatro d’ombre e di passioni dl mondo ? E dunque cosa significa essere liberi ? In lontananza dopo Shakespeare vediamo sopraggiungere Rimbaud, Dostoevskij, Eliot e Kafka. Forse il modo migliore per comprendere Shakespeare non ci viene dalle schede degli eruditi ma dalla presenza dei suoi motivi fondamentali in altri grandi raccontatori, in altri grandi poeti. Come un fuoco che passa da fiaccola a fiaccola. E comprendere questo genere di opere è scottarsi.
Da quando la cultura umanistica aveva affermato come ideale della vita la Fortuna, ovvero la riuscita, l’esser in grado di ottenere fortuna e fama, in contrasto con la visione medievale che ravvisava l’ideale nell’affermazione della unità della vita con il suo Significato e Creatore, il problema della “giustificazione” delle azioni umane si era acuito. La riforma protestante aveva accentuato il problema. Proprio perché cercava in modo inflessibile di far coincidere l’ideale della riuscita umana con il segno della benevolenza da parte di Dio, veniva messa radicalmente in discussione dagli uomini più attenti e geniali (come schiere d’artisti da Shakespeare a Ibsen, da Durer a Lagerkvist).
In Shakespeare il problema del rapporto con la giustizia dell’azione e degli affetti (e dunque con la colpa) non è solo al centro della sua opera e del suo personaggio più  celebri e non a caso ambigui (L’Amleto). Eliot ha scritto che l’Amleto è un “fallimento” artistico poiché cerca di affrontare un tema così troppo ampio come il problema del rapporto con la colpa della madre. Quel “fallimento” è in realtà il motivo per cui Amleto è uscito dalla cerchia dell’esser un personaggio artistico per diventare un interlocutore di ogni uomo pensoso fino ai nostri tempi. Tale problema della giustizia è al centro di quasi tutte le maggiori opere di Shakesperare e in modo speciale nelle tre che qui si presentano. Le storie di Amleto, di re Lear e di Angelo e Isabella bruciano in modo diverso e originale in un fuoco simile, nel dilemma tra giustizia e passione sia sul piano della storia personale che della vicenda pubblica. In tutte e tre viene colpita la violenza falsa del potere quando si costituisce sulla ipocrisia e vengono messi in risalto i dilemmi di persone che si trovano di fronte alle possibilità del perdono o della vendetta. Un grande lettore e teologo come Hans Urs Von Balthasar ha perciò potuto dedicare un circostanziato saggio su “Shakespeare e il perdono”, dove si mostra il volto “puritano” del potere incarnato da Angelo in “Misura per misura” . Si tratta, va da sé, di pagine molto attuali di fronte all’attuale tendenza dei poteri statuali a presentarsi come autorità etiche. E un drammaturgo intensamente cristiano come Testori ha creato molte sue opere in dialogo con quelle di Shakespeare. Tra le sue “riscritture” shakespeariane mi resta fisso in cuore quel momento del suo Ambleto in cui nel celebre passo di monologo dell’ “essere o non essere” ha introdotto una vorticosa pagina di poesia intorno al concepimento, alla colpa e al destino.

Nel suo e nostro dramma

Shakespeare scrisse ogni genere di dramma e di commedia, da tragedie dell’orrore a commedie degli equivoci, da drammi storici a commedie romanzesche.  Tanto da sembrare, come ha scritto David Daiches, un “infaticabile drammatugo che cercando di soddisfare il pubblico trovò se stesso.”
La sua vita fu toccata per quel che ne sappiamo da difficoltà familiari e dalla perdita di un bimbo, Hamnet, uno dei suoi due gemelli. E a causa di una epidemia di peste che colpì Londra nel 1609 dovette interrompere le attività, dalle quali pare essersi sostanzialmente ritirato intorno a quegli anni, fino alla morte che lo colse nel 1616, sembra in professione di fede cristiana cattolica. Fu attore e scrittore per le sue compagnie. E fu uomo vicino al potere, i suoi drammi di successo si davano a corte e nelle residenze dei signori.
Sapeva che al popolo e alla classe alta piaceva (allora come oggi) la rappresentazione delle faccende di corte, degli intrighi di potere. E  gliene offrì in abbondanza e con ogni genere di trovata. Ma ancora Daiches avverte: “le storie di Shakespeare hanno bisogno di Romani e di Re, ma egli pensa ad essi solamente come uomini”. Forse non è esclusivamente così. Shakespeare è uomo immerso nel suo tempo e ben introdotto a corte per evitare una considerazione del potere anche sotto il profilo della simbologia e della Istituzione. Ma è certo che siamo tutti sorpresi nel vedere anche nel re usurpatore zio di Amleto i tratti di una possibile simpatia, e di trovare non a caso in lui e in Angelo, il despota ipocrita di “Misura per misura”, riflessioni acute sulla preghiera. Allo stesso modo nelle riflessioni di regine e granduchi troviamo gli argomenti di qualunque povero mortale. E’ una delle ragioni del lungo successo di Shakespeare. La stessa forza delle sue costruzioni di relazioni poggiano su una grande capacità di dar rilievo all’individuo. I personaggi di Shakespeare ci danno sempre la chiara impressione che stanno agendo in un modo che non è mai prefissato, la loro azione avviene in un certo modo ma avrebbe potuto essere in un altro, ci sentiamo coinvolti nell’attualità delle loro scelte, nell’evento drammatico della loro libertà.
Ma mentre l’individuo a cui Dante dà voce e spessore nel suo viaggio riceve tale spessore dal fatto che lo vediamo e rivediamo la sua vita nella “prospettiva” del suo destino, l’individuo a cui Shakespeare dà corpo e animo riceve tale rilievo dai suoi moti rispetto allo svolgersi dell’azione, dal “posizionarsi” della sua prospettiva rispetto alla scena. La personalità, si potrebbe dire, è una visione non trascendente della singolarità umana. O meglio, tale visione è incerta, a tratti.
E se è pur vero, come bene documenta Von Balthasar, che non c’è finale di tragedia shakespeariana, in cui non si avverta una tensione di riconciliazione, è innegabile che il destino di molti dei suoi personaggi principali ci appare di dispersione, di sottomissione a una legge di precarietà dell’esistenza o di possibile vana metamorfosi. Solo i folli, qui in Re Lear o in Amleto, come spesso nella letteratura (basti pensare a Don Chisciotte), sembrano percepire il senso della metamorfosi, il significato dell’apparente casuale mutare degli eventi, e vedere sotto il velo delle apparenze. Da un certo punto di vista, tra i suoi primi spettatori e noi che lo accostiamo quattrocento anni dopo c’è qualcosa in comune. Che allora forse era, nella coscienza popolare appena poco più che un’avvisaglia ma che era ormai radicata nelle classi colte e nell’establishement di cui Shakespeare faceva parte. L’individuo, ripetiamo, svincolato dal rapporto con il destino così come dato nella tradizione cristiana, si trovava, come un figlio che ha perduto il padre, solo ad analizzarsi. E nelle storie emblematiche delle corti e degli uomini di potere sentiva in gioco gli stessi elementi della storia del singolo uomo comune. Gli attori stessi del potere, non essendo più legati ad una funzione sacra, erano pure loro individui con le loro ombre. Non c’è più qui la unità con cui Dante percepisce il proprio destino e la propria avventura essenzialmente legati al destino e all’avventura della storia intera e di tutti i suoi attori. In Dante ogni uomo è uguale di fronte al destino poiché è creatura, in Shakespeare ogni uomo è uguale di fronte al destino poiché è solo di fronte ad esso.
Qui l’unica cosa che accomuna, come già si vedeva in Petrarca, è la signoria del Tempo. In virtù della quale, come dice il sonetto XV, il mondo è avvertito come “questo immenso palcoscenico che presenta solo apparenze”. Probabilmente sta qui, quella “unità di sentimento” che T.S. Eliot ravvisva nell’opera di Shakespeare. Il dramma della libertà sta nel giudicare e dunque aderire a questo teatro di apparenze come al sogno di un ubriaco o come a una realtà più ricca di ogni filosofia che stia in mente d’uomo. Non chiediamo a Shakespeare di risolvere questa alternativa. Egli non volle né poté. Riconsegnandola, rilanciandone il dramma a noi.
Di questo dramma egli è protagonista e figlio. E noi gli siamo fratelli più di quanto pensiamo.

Le sorelle dei poeti

“Possiamo avere la stessa anima, poiché siamo dello stesso sangue”. (A. Rimbaud)

Ad un certo punto entrano in scena loro. Le sorelle. E si sospetta subito che se pur di quelle scene, di quelle vite di poeti, le regine, le vamp o vistose soubrettes siano state altre femmine, in realtà erano loro, le sorelle, ad averne dietro le quinte le più segrete chiavi.
Le donne dei poeti sono molte e di molti tipi. E su di esse, su ciascuna di esse, palesi o ignote alle cronache e ai testamenti, si sono appuntati gli occhi spesso velati dei biografi, dei critici e a volte anche lo sguardo azzurrino e chirurgico dei filologi. Quelle donne sulla scena della poesia hanno l’onore del nome onorato dai versi, ma devono anche accettare di tutto, ogni genere di ispezione, e non di rado l’affronto. Ma il loro destino si compie in quella scena, dominandola.
Il poeta e la sua donna, la sua “domina”, sono la parte evidente, la parte esibita della poesia. Sono la parte dichiarata. Una ispiratrice ha da esserci. Per quanto soggetta a molti travestimenti e costretta a subire diverse operazioni e, lungo i secoli, a mutar costumi e linguaggi, la donna del poeta, il suo feminino insistere ai suoi occhi e al petto è un perpetuo ingresso o ingrediente nell’impasto o fuoco primo della poesia.
Dove c’è un poeta –per quanto scalcagnato – si troverà una Laura o una Lesbia, o almeno una trasfiguratissima Dulcinea del Toboso.
Unicamente eccede la casistica, sola rompe lo schema, pur facendone parte apparente, il “miracolo” Beatrice, che dapprima pare procedere entro quella inevitabile accoppiata, e poi sorprende il poeta e il lettore conducendoli –attraverso la sua stessa morte- a un viaggio in ogni umano stato e abisso e infine nell’Amor che move il sole e l’altre stelle e, infine, nel mistero della Incarnazione, Ponendosi dunque lei, Beatrice, non come la solita innamorante. No, lei come “venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, adempie una funzione rivelatrice riconosciuta dal poeta “pari” a quella di un profeta, o analoga, come hanno mostrato i più autorevoli dantisti sulle orme di Singleton, alla stessa Incarnazione. Altro che oscuro trattamento, indegno dell’amore e della donna. Dal fiore alto e rappresentativo della mens medievale arriva la visione della donna più dignitosa e onorevole, la meno riducibile a comoda idolatria o a sentimentale spasso. In Beatrice si esauriscono e rilanciano le estreme possibilità dell’amata. Per riveder lei, ha scritto Jorge Luis Borges, Dante ha scritto la Commedia. Non è più solo donna ispiratrice, è divenuta “meta”, presenza che rende possibile, conoscibile, Dio. Donna che, per così dire, toglie Dio dal rischio d’esser vano, mistero solo invisibile, lontano.
Eccetto dunque Beatrice, che evade da ogni spettacolo, a tener la scena parrebbero decine di donne dai nomi divenuti celebri in quanto amate e più o meno apertamente cantate dai poeti. A loro il proscenio, gli acuti, gli a soli.
Che siano le rilkiane Lou Salomé o Clara, le montaliane Mosca o Volpe, le baudelariane passanti o le rose di Jiménez, oppure le diciassette amate dal Leopardi (così le contò il Dusi nel 1931) le donne dei poeti hanno invaso le pagine delle loro opere e le pagine di chi le ha commentate e sezionate, magari stendendo quelle ombre sui lettini da psicanalista.
Ma quando entrano in scena le altre, le sorelle, c’è da ammutolire. Perché entra in scena qualcosa di ininterpretabile. Un segreto che resiste ad ogni analisi o anatomia. “Mia  sorella è di là, ascolta musica” iniziava una delle mie prime e incerte poesie. Ma c’era già tutto. La sorella dei poeti è prossima, ma a differenza della donna amata che “deve” ascoltare i nostri versi innamorati, è libera di aver attenzione per altro, e di portare questa sua ferialità “altra” a rompere e a giustificare con tale altra verità il mondo della poesia.
A questo punto la parte ispiratrice, coautrice si direbbe, femminina di ogni avventura di poeta si colora di qualcosa di silenzioso, di segreto e di estremo. A dispetto della ferialità della loro presenza, quasi al contrario della loro più “scontata” esistenza, è nel rapporto con loro che, in molti casi, l’artista e l’uomo consegnano il segreto estremo del loro travaglio e del loro destino.
A una sorella, di nome Cornelia, Torquato Tasso, esule dalle corti e dai castelli della sua immaginazione, si presentò vestito da pastore a Sorrento per verificare s’ella lo amasse davvero, dato che altrove sentiva solo il freddo che lo deprime. Di quell’amore voleva esser certo, più che del favore dei principi o del consenso dei dotti. Non avrebbe potuto più scrivere, altrimenti. Al matrimonio della sorella minore Ida, Giovanni Pascoli parve subire una specie di tradimento: “Vivere senza te! come si fa?”.  Nei versi per quel matrimonio, pare un saluto funereo più che una gioia. Sul “nido” pascoliano si sono scritte molte cose, anche a sproposito. Resta il mistero di una custodia a cui il poeta si consegnava esclusivamente.
Di certo, in molti casi, l’assenza di un genitore –la perdita tragica del padre per Pascoli o, come nel caso di Leopardi o di Rimbaud, una mancanza affettiva da parte della madre- può dare uno speciale, infelice incremento alla felicità di un rapporto tessuto di complicità e preferenza tra fratello e sorella. Ciò, naturalmente, non vale solo per le case visitate dalla poesia.
Era a Cesena, in visita a casa di una sorella, il poeta dalle tinte a lapis, Marino Moretti quando intonò il verso apparentemente atono che domina la novecentesca poesia italiana. Quella pioggia che dilava i colori, quel mercoledì in una città di provincia, sembrano diventare il centro spoglio, il luogo poetico di bassa energia affettiva per il mondo, come avviene per le scabre poesie di Sbarbaro, o in quelle più sostenute e variate nel loro grigio fondo del celebratissimo Eugenio Montale. Dopo la modernità delle metropoli che aveva sedotto e inquietato la poesia da Baudelaire a Marinetti, la poesia cerca la propria nuova voce in altri centri, siano quelli del ritrovo feriale, siano quelli dove le consuete presenze familiari sono catturate in modo straordinario nella luce che può divenire tremenda della storia.  E’ dal nascondiglio in casa della sorella Maria che Cesare Pavese osservò la guerra e affinò il suo verso lungo, modellato sui versi popolari del Monferrato. Per poter raccontare ancora di nuovi miti, e degli uomini, della magia di “quei loro incontri”. Anche Mario Luzi, nella cui  opera la figura della donna agisce come “pivot” nella partita della conoscenza, alla sorella dedica due testi. “Tre corpi e un’anima sola” scriveva uno dei padri del romanticismo inglese, Samuel Coleridge, a proposito del legame con l’altro grande poeta William Wordsworth e la sorella di lui, Dorothy.
Fu Isabelle ad assistere la lunga terribile agonia di Arthur Rimbaud, muto di poesia, sciancato dopo aver vagato a piedi per ogni dove e aver segnato con pochi foglietti dal suo taccuino di dannato e con quel silenzio il destino della poesia moderna. Le lettere e i diari di Isabelle dalla camera dove si stava spegnendo il fratello “abbandonato dall’universo intero” sono di una sofferente dolcezza immensa. E, per una strana catena sotterranea, Isabelle avrebbe voluto come esecutore testamentario e curatore dell’opera di Arthur quel Paul Claudel, il forte e visionario poeta, la cui vita sarà segnata dalla presenza della sorella artista Camille.
Del legame quotidiano, profondo e disperato che tenne Giacomo vincolato a Paolina Leopardi si è già scritto molto. Per il suo “Muccio” la  più giovane sorella stravedeva fin da bambina. Si scambiavano lettere tenere e giocosamente erudite fin dall’infanzia, che entrambi ebbero fredda, conclusa e istruitissima. Della vita di lei egli seppe e trattò nelle lettere, discretamente, spesso con il fratello Carlo, tutto. Ad esempio, Paolina fu innamorata di un tale Ranieri o Raniero di nome. Carlo e Giacomo si scambiano lettere di impressioni su quel iovane e sul progetto. Non andrà in porto. Ma infine, per Paolina resterà il fatto di riempirsi di gioia a sapere che il suo Giacomo aveva infine un amico con quel cognome. Il Ranieri di Paolina fu il più amato d’una schiera di mezzi pretendenti che mai ottennero tale movimento del suo cuore, ma fu un giovane sfortunato. Un documento del Municipio di Filottano, riportato dalla biografa leopardiana Emma Boghen Conigliani,  attesta che egli subì “ dissesti di famiglia, entrò al servizio pontificio nella carriera giudiziaria, raggiungendo, a quanto si ricorda, il grado di governatore. Morì in fresca età, a seguito di malattia mentale…” Questa povera ombra, insieme agli altri uomini bruttissimi o vedovi che entrarono in mai chiuse trattative per il matrimonio di Paolina, non poterono certo oscurare nel cuore di lei il primato di Giacomo, il fratello che da ragazzino aveva tali occhi chiari.
Ricordo d’aver letto che Paolina regalò a Giacomo un vestitino azzurro. In quel gesto affettuoso, e nell’ammirarsi lui così agghindato e forse già spaventato per la propria effige, intravedo uno stemma del loro rapporto. Lei lo amò con freschezza giovanile, con devozione crescente e anche con un senso di difesa contro le notizie che le giungevano sul suo conto e sul suo pensiero. Lui pose al centro del suo fuoco lirico e meditativo il problema di cosa vi sia di propriamente amabile nella natura e nella vita umana.
Lei, uscendo finalmente da Recanati, al volgere finale di una vita concentratasi sugli studi, sulle traduzioni e sui lutti, volle andare, dopo un pugno d’anni passati a ben vestirsi e a far breve vita mondana, a morire in una città dal clima addolcito. E scelse quella che Giacomo amò, Pisa.
    Con la donna amata il poeta vive sempre un’esaltazione e un dramma. Con la donna che lo domina nei versi e gli affina la visione c’è il senso di un’avventura infinita. Ci può essere uno sperdimento e un ritrovarsi, c’è l’inizio dell’alterità del mondo, e il punto di messa a fuoco e in fuoco della vita. Con la sorella c’è una separatezza e però una perpetua alleanza. C’è una complicità dello zodiaco e del sangue.  Paul Claudel quando scrive di Camille e rende omaggio all’arte di colei che egli stesso aveva provveduto a internare in un duro, grigio manicomio, sa di scrivere di se stesso. Claudel comprende che è anche suo quel destino di follia che la brucia, e che potrebbe essere sua la rischiosa dedizione completa all’arte a cui Camille aveva dato la sua esistenza, E che quella somiglianza è per lui ferita e sconfitta, ma anche legame e richiamo.
Il segreto di quella somiglianza è la causa dell’improvviso vuoto che fanno le sorelle quando entrano anche nella più affollata scena. Non importa che siano devote o lontane, sfruttatrici o pazienti serve dei poeti. Esse portano con loro stesse qualcosa di unico e di primario. E’ come se fossero loro la prima compiuta forma di lettore, colui che Baudelaire chiamava “mon semblable, mon frère”. Non sono le innamorate del poeta, non sono state scelte da lui, non sono delle favorite. Ma custodiscono il primo tratto del legame che ha reso gli autentici poeti “frères” di tutti gli uomini. Custodiscono la prima annessione, la prima comunanza. Evitano, per così dire, la estraneità di questi uomini toccati col resto della umanità. Ne ricordano la prima, profonda somiglianza.
Arthur Rimbaud, dopo aver accolto i sacramenti, poco prima di terminare la sua febbrile e lunga agonia di viandante e di folgore della poesia, si volta verso la sorella Isabelle e le chiede: “Tu sei del mio stesso sangue: dimmi, tu credi, credi ?” E alla risposta affermativa di lei, ripete: “Possiamo avere la stessa anima, poiché siamo dello stesso sangue”.