Prefazione de: I fiori del male

 

 

 A una passante

La via urlava assordante intorno a me.
Alta sottile, in gran dolore, dolore maestoso,
una donna passò, con gesto glorioso
sollevando l’orlo e il festone della veste;

agile e nobile, con le gambe ben tornite.
Io bevevo, stordito come un pazzo
dal suo occhio, livido cielo dove l’uragano germina,
il piacere che uccide e la dolcezza che affascina.

Un lampo, poi la notte! – O beltà che sei fuggita
il cui sguardo m’ha dato vita all’improvviso,
non ti vedrò più che nell’eternità ?

Altrove, ben lontano da qui! tardi! Forse mai più!
Perché io non so dove fuggi e tu dove me ne andavo,
tu che avrei amata  – tu, che lo sapevi!

  

 

 

 

 

 Avere addosso Baudelaire.

“Cara buona madre,
mi sono classificato terzo in composizione poetica”
                                (21 novembre 1837)


I. Sta invitando ancora

Ancora lui, come uno che si metta in mezzo alla strada con le braccia spalancate. O che per quanto resti di lato, appoggiato al muro, ha uno sguardo metallico e di fuoco che ti inchioda per strada, passando.
Ancora Baudelaire da leggere e rileggere, cioè tradurre. E soprattutto da avere addosso come un lupo, come ali di farfalla grandiosa e tremenda che si chiudono e aprono sul petto. Da avere addosso come una peste o come un bacio che non sai bene cosa vuole. Un nemico che morde e bacia forsennato. E svela il tuo volto, lettore “fratello”, in questa lotta. Il tuo, più che il suo volto, che resta velato nel prodigio di malinconia e di furia dei versi di questo libro dall’architettura profonda e incompiuta.
Molti versi portano via, rapimenti improvvisi ancora dopo centocinquanta anni, e sono come il mare che ci viene a riprendere. E anche se non ci ricordavamo di lui, del mare, ecco che ci parla urlando e sussurando in un uomo che girava con gesti un poco rigidi e che parevano misurati, ma erano cauti poiché vestiva abiti troppo logori, che potevano sdrucirsi.
Baudelaire sta invitando ancora. Con il cenno potente della sua poesia. Con i suoi inizi memorabili che fan venir giù le notti e Parigi e la bellezza delle donne e gli angeli incomprensibili. “Lo ripeto, diceva, che un libro dev’essere giudicato nel suo insieme: a una bestemmia opporrò degli slanci verso il cielo, a una oscenità, dei fiori platonici. Dal cominciamento della poesia tutti i libri sono cosìffatti. Ma è impossibile fare in altro modo un libro destinato a rappresentare l’AGITAZIONE DELLO SPIRITO NEL MALE”.
Molte volte, molte volte mettendo mano a questa traduzione, pur tornando su testi già tradotti già quindici anni fa, mi mancava il respiro. Mi vorticava nella testa e nell’anima una forza che viene dall’andatura perfetta e misteriosa del verso alessandrino. Come il nostro endecasillabo può narrare e stordire,  sa trascinare chi sa dove.
Tradurre è leggere intensamente. Ed è cercare di ridare il “movimento” di un’opera, come suggeriva Caproni, traduttore anche lui dei Fleurs. Qualcuno ha parlato del “peso” del verso di Baudelaire, come per dare il nome a una qualità della materia, a una interiore misura di peso specifico della sua poesia. Peso che è per così dire frutto –in una poesia che è impossibile definire “lirica”- di una sapiente e prodigiosa alternanza di slanci e inabissamenti. Movimento che il francese classicheggiante e incendiato permette solo quando, come in questo caso, nulla è maniera ma tutta è necessità, anzi vera e propria sofferenza.
C’è una “freddezza” in questo libro, come diceva l’autore. E’ il contrappeso di ogni slancio. La correzione interiore di ogni barocchismo. Ed è la freddezza di chi soffre lungamente. Perché la vita di Baudelaire fu dolentissima ma il dolore in lui seppe farsi nitore di poesia, non esaurendosi in una sterile autocontemplazione ma divenendo carburante e fuoco, freddo e chiaro, per la visione. Dolore che divenne cane lupo per le vie di Parigi e del suo animo. E sottilissimo radar, diapason con cui provare la esatta intonazione di una lingua unica. Poesia che non perde seduzione e shock anche nel tentativo di ridarla in una lingua italiana che non nasconda le attuali fratture e i controritmi che la abitano come fantasmi e imprevedibili fioriture.
Qui il movimento è quello di una decisione continua di abbandono, in un ritmo alto e violento, in un continuo contraccolpo, stigma dell’homo duplex, in una luce sanguinosa ed elegantissima; abbandono a un dramma che si intravede ma che non si può conoscere fino in fondo.
Capace di tutte le sfumature, la poesia dei Fleurs seduce fino alla ferocia. E però toglie ogni velo allo sguardo, sottomettendo sempre la sensibilità alla ricerca della verità.
“C’è nella parola, nel verbo, qualcosa di sacro che ci impedisce di farne un gioco di azzardo. Maneggiare sapientemente una lingua vuol dire praticare una specie di stregoneria evocatoria”.
 

II. Senza di lui dove andrebbe la poesia ?

La voce di Baudelaire continuo a vederla come galleria del vento, come banco di prova per la poesia contemporanea. Lo è, senza volermi dilungare, in quanto banco di prova delle visioni o meglio della mancanza di visioni dell’epoca contemporanea. Aveva ragione in questo senso un lettore come Arthur Miller, quando ricordava l’estraneità voluta ed esibita di Baudelaire ad un tempo che sarebbe stato il mondo della borghesia, con la sua “morale da cassieri”, “goloso, affamato di cose e infatuato di se stesso”. E si rammenti quanto Baudelaire accusava in Heine, esponente della “scuola pagana” e di una “letteratura fradicia di materialismo sentimentalista”, sostenendo contro ogni neo-paganesimo estetizzante che “non è lontano un tempo in cui si comprenderà che qualsiasi letteratura che si rifiuti di procedere fraternamente tra la scienza e la filosofia è una letteratura omicida e suicida”.
Il libro, com’è noto, subì un processo, dal quale uscì condannato per oltraggio alla morale pubblica e ai buoni costumi, mentre fu assolto dall’oltraggio alla religione.
In questo essere banco di prova dell’epoca che sopraggiungeva, dunque, Baudelaire lo è pure della poesia a noi contemporanea, ben al di là delle cosiddette due linee che la critica da tempo vede provenire dal suo fuoco centrale: la linea dei poeti “artisti” che in Mallarmé trova il suo acme, e in parte in Valery, e quella dei “veggenti” che ha in Rimbaud il suo paradigma.
Nei Fleurs stanno tutti i primi movimenti dei rischi e delle conquiste della poesia successiva. L’ansia e la necessità di autogiustificarsi, come voce altra nell’agone pubblico; la forza di resistenza delle parole alle idee, secondo un’espressione che sarà di Mallarmé; la capacità straordinaria di rompere ogni distinzione tra il classico e l’inedito e non già per banale parifica bensì per tensione unitaria alla ricerca del “nuovo” che nel loro incontro può nascere;  la prodigiosa orchestrazione di motivi conosciuti e di azzardi; e infine c’è pure il rischio che il ragazzo che visitò l’Inferno con occhi di vento, Arthur Rimbaud, ebbe il coraggio di notare nel suo “ dio”, ovvero la vita vissuta in un milieu troppo “artiste”. In Baudelaire, definitivamente, si fissa uno dei tratti del poeta autentico: d’esser voce di contraddizione rispetto all’epoca. Anche nel momento in cui esaurisce e compie le risorse formali del suo tempo, divenendo quel che chiamiamo un “classico”, il poeta si pone di traverso rispetto al pensiero dominante. Allo stesso modo, W.H. Auden ricorda che  più generale “ogni poeta è insieme esponente e critico della propria cultura”. Tale scandalo può mostrarsi in molti e diversi modi –e certamente oggi in modo diverso dalla metà dell’800. Leggendo i Fleurs certi “maledettismi” novecenteschi o replicati in altri ambiti –come la canzone- appaiono grotteschi e ingenui quasi da ispirare tenerezza invece che scandalo. Ma resta intatta e bruciante la verità: in un poeta autentico l’epoca trova una forza scandalosa.
     Montale, grande lettore dei Fleurs, mentre costata che nel nostro Ottocento manca una figura analoga di poeta centrale, assiale, imperioso nella sua forza quasi normativa (Laopardi e Foscolo, nota, lasciano scoperta buona parte del secolo) sembra rivendicare tra le righe una sua specie di “funzione Baudelaire”. Come l’autore francese ebbe la forza di attraversare Hugo per portare la poesia in un’altra direzione, potremmo leggere Montale come uno che ha traversato D’Annunzio e ha operato una deviazione analoga. Lo dichiara il  famoso inizio della terza poesia che compose, “I limoni”, con la sua figura dantesca e l’abiura del lessico aulico. Del resto, l’autore degli Ossi, di sé dice chiaramente di muoversi in un solco “Brownig-Baudelaire” che non è di poesia realistica, né simbolista, ma, precisa Montale, una specie di poesia metafisica.
E ora, da qualche tempo, la poesia italiana sta attraversando il grande ligure. Ma questa è un’altra faccenda, che ci porterebbe a rintracciare l’esistenza di una poesia contemporanea che non accetta di ridursi alle categorie costruite per opposizioni dalle letture novecentesche. Proprio a questa tornata, la voce di Baudelaire viene a porsi ancora accanto al lavoro dei poeti nuovi, o come guerriero che vediamo sull’altura, come sentinella sui tentativi che rifiutano la irrilevanza della poesia nella ricerca di una coscienza contemporanea veramente critica e accesa.
I migliori poeti italiani del ‘900 –chi traducendo, chi leggendo con impegno- hanno toccato Baudelaire. Tra gli altri, si vedano le pagine laboriose e profonde che gli dedica Mario Luzi nella prefazione all’antologia su “L’idea simbolista”, dove il maggior poeta del secondo novecento italiano –presupponendo il lato germanico della riflessione romantica che genera il simbolismo- vede nell’autore dei Fleurs colui che ha introdotto una “drammatizzazione” nell’idea romantica tesa alla “ricostituzione dell’unità del mondo”. Dipende da Baudelaire e dai suoi prosecutori, dice Luzi, se “fare poesia nel mondo moderno ha acquistato un significato insieme elementare e decisivo, al di qua del quale ogni altra accezione e pratica della poesia sembra oziosa”. Giorgio Caproni, dal canto suo, ingaggia con Baudelaire un suo personale e lungo corpo-a-corpo. E come è stato notato recentemente da Luca Pietromarchi introduttore della riproposta della sua traduzione dei Fleurs, quel corpo-a-corpo durato fin dagli anni ’60, ebbe non poca influenza nella nascita delle opere del Caproni estremo, cacciatore di frodo ai limiti dell’Inconnu. Ma si tratta di casi splendidi e isolati. Troppe volte, infatti, scartando da Baudelaire, dalle sue messe in discussione, dalla sua indicazione circa il significato primordiale dell’immaginazione, dal suo freddo incendio dei luoghi comuni, la poesia contemporanea si raggomitola su un’illusione, sui propri ghirigori, evita di approfondire lo “scandalo” della propria esistenza rispetto ad ogni inerte esperienza del mondo e ad ogni comodo moralismo.
Lontana da Baudelaire, la poesia si dà per scontata e finisce per offrire cose scontate. Eppure non sono molti i cosiddetti poeti italiani contemporanei (gli “odiernissimi” li avrebbe chiamati Carducci) che abbiano di Baudelaire una esperienza non puramente letteraria, ovvero nulla. Sembra quasi che i Fleurs abbiano dovuto subire un esilio, e il peggiore degli esilii, che è quello nella presunzione del “già conosciuto”.
L’etichetta di “maledetto” ha funzionato quasi perfettamente come sudario di censura. Ha posto in evidenza quel che era comodo vedere, quel che non era davvero scandaloso. E non troverete Baudelaire nei grandi canoni presupposti dai critici maggiori o dai lettori più influenti. Non lo trovate in Harold Bloom, non lo trovate in Italo Calvino, mentre abita dalle parti di Pavese e del suo novecentesco spleen. Non lo trovate nelle mappe che hanno presunto di leggere la poesia e la letteratura seguendo le coordinate della gnosi o dell’ideologia, o delle loro recenti rielaborazioni.
Eppure, penetrando persino dalle griglie in cui hanno tentato di ridurla, la sua poesia ancora parla.
E questo libro “di una bellezza sinistra e fredda”, fatto con “furore e pazienza” continua a dare i suoi lampi e bagliori. E a portare la sua verità. Nella mia introduzione a una precedente versione del 1995, edita da Guaraldi, parlavo del poeta come colui che ha capito e patito il dualismo che segna in fronte l’epoca che ai suoi tempi iniziava e che in pieno viviamo. Ora quel dualismo tra cielo e terra, tra carne e spirito e tra bellezza e perdita pare ancora più accentuato e disperante per tanti. Ad essi Baudelaire è lucido compagno.


III. “Un Dante frammentato”.

Sulla biografia di Baudelaire si sono gettati in tanti. E’ un piatto succulento, ci si può gettare intorno come cani e farla a brani, latrando. Anche se non ci fosse la mole di testimonianze indirette e gli studi di biografi e le foto, basterebbe il libro straordinario, mostruoso e tenerissimo, delle lettere alla madre. Succulentissima galleria di slanci e antinomìe, terreno felice per biografi e scrutatori anatomici.
Qui basti sapere che l’opera più grande della modernità sulla contraddizione umana nacque da un uomo contraddittorio. E che a noi piace esattamente per questo. Homo duplex, sapendo di esserlo. In cerca della santità, e disperato di debiti e di debolezze fino a pensare al suicidio molte volte. Cultore di Giulio Cesare, ma anche del dandismo “che per certi aspetti confina con lo spiritualismo e lo stoicismo”. In cerca del gesto artistico perfetto, proverbiale (“le poncif”) e dissipandosi in opere incompiute o in articoli in cambio di denaro. Preso nella tensione ad essere “Santo per sé”, fino a citare san Paolo nel suo libro incendiario di pensieri (senza la carità, anche se avessi la lingua degli angeli…), e continuamente a chiedere nelle lettere a sua madre la comprensione per una vita disordinata e afflitta. Socialista ed elitario.
Un uomo che scrisse di quel che conobbe. E che potè perciò scrivere le pagine più lucide contro l’uso dell’hascisc, sul totalitarismo morale dei governi, sui rischi dell’artista contemporaneo di divenire “un adolescente viziato”. E sulla bellezza dell’arte, che nella stupenda poesia “I fari” è vista, di capolavoro in capolavoro, dalle opere del suo amato Delacroix fino a Leonardo, a Michelangelo manifestarsi come “il grido ridato da mille sentinelle”, il fuoco accesso sulle torri “di mille cittadelle” che va a morire come un “singhiozzo” ai piedi dell’eternità di Dio, segno più grande “della nostra dignità”.
E’ il poeta dell’invenzione e della smentita della modernità, o di quel che chiamano così. Non è il poeta della negazione, poiché non si può negare quello che esiste, e la modernità esiste nel suo e nostro corpo, nella sua e nostra mente. Lui non la nega. La soffre, e così ne mostra i limiti e la supponenza. Lui che, come diceva di sé Gregory Corso, è una “dimostrazione che la mia anima ha un’ombra”.
Non è il poeta della negazione, ma della smentita inferta alle pretese dei “moderni”.
La negazione è un pensiero, è l’esito di un ragionamento. La smentita invece è un gesto, e la poesia è un gesto. Perché un filosofo può forse cercare di negare, di ragionarci su, insomma un filosofo forse può provare ad afferrare la modernità per i capelli e dirle: “no, tu non esisti, sei una finzione”. E provare con argomenti e citazioni a riavvolgere il pensiero che ha presunto d’essere il moderno. A mostrare che i suoi nastri sono incisi di vento. A mostrare che il pensiero che pretende d’esser moderno è un non pensiero antico. O altre soluzioni, come quella d’invertire i termini e mostrare come più avanti furono quelli che eran di traverso al pensiero autonominatosi moderno. Come han fatto e fanno con Baudelaire. Un filosofo può tentare, può fare così, come tenta ad esempio con acume e dovizia Antoine Compagnon in un recente libro, Les antimodernes.
Ma un poeta no. Un poeta patisce tutto. Liquida e illumina i problemi con battute feroci. E patisce tutto questo, smentendolo con la irrefutabilità di un gesto. Dice che quello di Voltaire, uno che “come tutti i pelandroni odiava il mistero”, è un pensiero da portinaie. Dice che quel giornale che pretende di indicare la felicità al popolo è ridicolo.
Si immerge in quel che è in accordo e non è in accordo. Un poeta, si potrebbe dire, non capisce più niente. E però va a un altro grado, a un altro modo di comprensione. Ed è naturale che lo si fraintenda, è naturale che non abbia argomenti chiari. E più è grande il poeta più è immerso nel reale.
Cetaceo nei fondali, ogni volta che emerge provoca gran movimento e rottura di flutti e schiume. Se ne sta immerso, in quel che va nella sua direzione e in quel che va da un’altra parte. In quel che lo conferma e in quello che lo strazia. In quel che il suo pensiero approva e in quel che lo contraddice. O che approva il suo corpo o che lo lavora al contrario.
Un poeta non ha una filosofia strutturata. Ha la realtà addosso. Più è preda del reale e di quanto in lui è provocato da spleen e Idèal, e più è libero dal pensiero quasi-dominante. Le sue opere di pensiero sono frammenti brucianti di un cuore messo a nudo o lo struggente zibaldone d’amore e di poetica di lettere alla madre. Per questo mentre scrive con passione e lucidità di uno dei suoi due maestri di pensiero (l’altro è J.De Maistre) si ferma a ricordare la suocera di E. A. Poe, che alla morte triste dello scrittore si mette a mandare lettere in giro ai conoscenti perché lo ricordino come un uomo buono.
Anche lei, questa figurina di luce e pianto, stava addosso a Baudelaire.
Il suo movimento, è il movimento del contrasto, della irrisoluzione. Ebbe addosso il tempo (il secolo e il senso di invecchiare) e il controtempo. Del manifestarsi del limite, e del fiorire nel male. Che è il movimento di avere coscienza di cosa si è nel limite. Per questo Baudelaire ebbe, come dice Eliot, uno che sa quanto può esser crudele aprile, una sofferenza come nessun altro del suo tempo. Attinse alla suprema esperienza indicata da Simone Weil, nel suo fortissimo epistolario con il poeta Joe Bousquet –lei sofferente di vari disagi, lui inchiodato al letto da una pallottola della prima guerra: “Felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca. Essi hanno la possibilità e la funzione di conoscere nella sua verità, di contemplare nella sua realtà la sventura del mondo. E’ questa l’autentica funzione redentrice…Ma sventurati coloro che avendo questo compito non lo assolvono.”  Baudelaire lo assolse. A grave prezzo. Si trovò a vivere fissando la coscienza del male, mentre l’epoca intorno a lui soffriva la violenza di un pensiero che voleva eliminare l’esistenza stessa del male.
Fu, secondo Paul Claudel, l’uomo più intelligente dell’800. Infatti, mentre “i boulevard diventano un predicatoio” sulle sorti magnifiche e progressive, egli parla della corruzione sociale dovuta inevitabilmente all’avvilimento dei cuori, con parole che oggi suonano duramente profetiche per noi che ci siamo lasciati alle spalle il ‘900 e procediamo a tentoni nel nuovo millennio: “Non è per l’una o l’altra particolare istituzione politica che si manifesterà l’universale rovina, o l’universale progresso, m’importa poco il nome. Sarà per l’avvilimento dei cuori. Che bisogno ho di dire che quel poco che rimarrà della politica si dibatterà penosamente nella morsa della bestialità generale, e che i governi, per reggere o creare una parvenza di ordine, saranno costretti a ricorrere a mezzi che farebbero fremere d’indignazione la nostra umanità di adesso, pur indurita com’è?”
E si ascoltino davvero le sue parole sull’uso delle droghe. Lui, il poeta che ci hanno insegnato come “maledetto” aveva le idee chiare. “Se ci fosse un governo che avesse interesse a corrompere i suoi governati, non avrebbe che da incoraggiare l’uso dell’hascisc. Si dice che questa sostanza non provochi alcun danno fisico. Questo è vero finora. Ma io non so fino a che punto si possa dire che un uomo che non facesse altro che fantasticare e fosse incapace di azione stia bene, quand’anche tutte le sue membra fossero in buono stato. Ma è la volontà che è intaccata, ed è l’organo più prezioso. Mai un uomo, che può procurarsi in un istante, con un cucchiaio di confettura, tutti i beni del cielo e della terra, ne acquisterà la millesima parte con il lavoro. Bisogna innanzitutto vivere e lavorare.”
Rodin, l’impossibile Michelangelo, teneva in tasca Les Fleures vicino a Dante. E Eliot: Baudelaire è un “Dante frammentato”. Il poeta dei Fleurs sapeva che “la prima condizione per fare un’arte sana è la fede nell’unità integrale”. E perché la modernità propagandata da giornali e dai pensatori di moda non era che un’aggiunta, una nuova forma, non era che un’ennesima maschera di una forza dell’eterno movimento del reale. E del cuore dell’uomo. La forza che vorrebbe cancellare Dio e il peccato originale. L’assoluto e il non esser noi assolti, assoluti, illìmiti. Lo dice con una esplicitezza che solo le gravi censure culturali del quasi-pensiero quasi-unico possono giustificare:  
Del resto, secondo Baudelaire, la vera grandezza sta nell’accettazione: “ogni uomo che non accetta le condizioni vende la propria anima”. Il più forte poeta dipinto come immorale fu il più grande difensore di Dio e del peccato originale. Ebbe ragione Verlaine, quando dei poeti “maledetti” che ebbero Baudelaire come capostipite disse: “Bisognerebbe chiamarli: assoluti”, e non perché sciolti da ogni legame, ab-soluti, ma in quanto legati all’assoluto.
Nelle lettere dove alla madre parla di tutto, del suicidio e dei debiti, di Jeanne e dell’Accademia di Francia, Baudelaire se la prende a un certo punto con un prete a cui la madre aveva mostrato Les Fleurs e che lo bruciò. Non ha capito che quel libro “partiva da un’idea cattolica”, dice. Libertà e peccato. Senza il secondo l’una si muove nel nulla. E senza la prima il bene non ha senso. La letteratura che si presenta come espressione della modernità non è contro Dio e il peccato in quanto letteratura immorale. Proprio in quanto espressioni morali (la cui massima aspirazione appunto è ambire al premio morale che Baudelaire sempre rifuggì ironizzando –all’Accadémie voleva accedere per soldi) la letteratura e il pensiero moderni devono cancellare Dio e il peccato originale, cioè le due cose che sfuggono alla elaborazione di una propria etica autonoma, fondata su un’idea del “bello utile” che è divenuta pensiero dominante. Di George Sand, che invitata a non credere all’Inferno dice: è “la Sputasentenze dell’immmoralità. E’ sempre stata una moralista.“ E altrove rilette: “La maggior parte degli errori intorno al bello nasce dalla falsa concezione del XVIII secolo intorno alla morale. La natura in quel periodo era considerata quale base, origine e archetipo di tutto il bene e di tutto il bello possibili. E, nell’accecamento generale di quel secolo non ebbe poca parte la negazione del peccato originale”.
In questo “errore” Baudelaire vedeva il tratto comune di due ideologie che pure apparivano contrapposte. “La scuola borghese e quella socialista. Moralizziamo! Moralizziamo! gridano entrambe con una febbre da missionari…Per loro l’arte non è più che una questione di propaganda.” L’arte è utile perché è arte, prosegue Baudelaire in questo suo scritto dedicato al tema (I drammi e i romanzi onesti). E aggiunge, andando ben lontano da qualsiasi estetismo devoto a un astratto ideale dell’arte per l’arte: “C’è un’arte perniciosa ? Sì è quella che disturba le condizioni della vita.”
In queste convinzioni sembra anticipare la grande narratrice americana del ‘900, Flannery O’ Connor. I romanzi che disturbano “le condizioni della vita” per Baudelaire (come per l’autrice de “Il cielo dei violenti”) sono quelli in cui i bambini parlano come adulti e libri stampati, quelli dove la virtù coincide con il successo. O dove la virtù è sempre premiata e il vizio punito. Dove non si descrive la seduzione del vizio come neanche le “malattie e i dolori singolari” che ne conseguono. Se un lettore non ha un pensiero filosofico o una guida religiosa nel leggere un libro, chiosa Baudelaire dando credito ancora una volta all’opera libera del lettore, e perciò resta preda delle seduzioni del vizio, peggio  per lui.
“Non credo sia scandaloso –argomenta in uno dei suoi due impegnativi saggi su Gautier- considerare ogni infrazione alla morale, al bello morale, come una sorta di colpa contro il ritmo e la prosodia universali. E’ questo primordiale istinto del Bello, che ci permette di considerare la terra e i suoi spettacoli come una corrispondenza con il Cielo.” E a un giovane romanziere risponde: “Se il vostro romanzo, se il vostro dramma è ben fatto, non verrà a nessuno la voglia di violare le leggi della natura.”
Massimamente moralisti, da De Sade a Calvino, gli scrittori proclamatisi moderni sognarono la elaborazione di una nuova morale -su presupposti libertini o ideologici. A questo sogno, con versi magnifici e con l’ironia nei confronti dei premi alla morale letteraria dati dallo Stato, ombra del totalitarismo, (“non vorrei aver per amico un uomo che avesse vinto un premio di virtù: avrei paura di trovare in lui un implacabile tiranno”) Baudelaire oppone la poesia che senza aver fini morali guida all’aver coscienza “nel male”. Vincendo, non abbiamo dubbi al proposito. Solo che lo diano da leggere, da leggere veramente.


IV. Una moda Baudelaire ?

Oggi la “moda” sempre insidiosa e vanitosa recupera Baudelaire, spingendosi a pubblicare tomi di romanzi e saggi su di lui, anche da parte di chi usa il poeta come controfigura di se stesso e di una propria gnosi letteraria. In ogni caso questo momento di acuta attenzione ci indica che la letteratura autonominatasi moderna non ci basta.
Il poeta sentiva la decrepitezza delle nuove pretese moraliste, sentì il contrario di quello che tutti sentivano se non confusamente nei sogni di società perfette in cui –ironizzava amaro Eliot- non ci sarebbe stato più bisogno di essere buoni (si è visto con quale esito di orrore nel Novecento). E smascherò l’inizio di quel sogno, mandò all’aria i nomi con cui si agghindava. Fu irriverente contro la nuova Dea. Fu eretico verso il pensiero quasi-unico di allora (e di adesso).
Ebbe tutto addosso. Fu un poeta magnifico. E un magnete, ancora.

Quelli che sanno far versi

“Quelli che sanno far versi.” Questo il sottotitolo della più giovane e simpatica iniziativa di poesia in Italia: Parcopoesia, a Riccione 3-5 settembre. La convoca con entusiasmo e tenacia Isabella Leardini, poetessa di delicatezza violenta e interiore. Una delle voci poetiche migliori che c’è in giro. Sette anni di ritrovi di poeti giovani, incontrandosi tra loro, con poeti maggior vicenda, con altri più giovani, curiosi e anche coloro che aspirano tanto. Uno stile informale e simpatico, con la gentilezza dei genitori stessi di Isabella che si fanno in quattro per gli ospiti. Ma chi sono quelli che “sanno far versi”? I folli, i poeti e i bambini, è scritto nel titolo di Parcopoesia 2010. Sono ricche e complesse le relazioni, gli abbracci, gli avvinghiamenti tra la poesia e follia  e infanzia. Ne abbiamo testimonianze commoventi e anche lacerate in tante esistenze. E i tre termini si rincorrono in tante delle riflessioni più profonde della modernità sulla natura della poesia, dal Fanciullino del romagnolo Pascoli alle riflessioni recenti di Borgna, passando per le infinite e spesso divaganti riflessioni sui casi di Campana e di altri sfortunati della mente. A Parcopoesia Isabella Leardini ha invitato tra i più noti poeti a presentare dei più giovani autori. E’ un modo di rispondere a quella strana empasse della “critica” che qualcuno ha teorizzato durante il dibattito sulla nuova prosa italiana innescato su queste pagine. La critica infatti o si fonda sulla autorevolezza del critico o non esiste come tale. Pensare che un critico valga perché conosce tutti i libri ceh escono o perché ha la possibilità (o il potere) di scrivere sui giornali e influenzare gli editori significa avviare alla morte il gesto critico. A Parcopoesia, lontano dai clamori o dalle chiacchiere delle cronache letterarie, riaccade il segreto, rischioso e delicato compito della vera critica. Nella poesia può accadere con il corredo –che anche nella prosa forse sarebbe necessario- di una certa seria allegria, e del gusto primario della condivisione. I nomi di chi sa fare versi ? Guardate su www.parcopoesia.it

La caduta della giovinezza

Ci sono ragazzi che arrivando alla maturità sentono tutto il rischio della perdita. La caduta della giovinezza e la caduta di tante cose intorno come passaggio rischioso. La caduta degli amori, la caduta di una civiltà. Due poeti poco più che trentenni, diversissimi e a mio avviso solidi e autentici parlano anche di questo in due libri usciti in questi mesi. Uno è il recentissimo, prezioso, eccentrico “La caduta di Bisanzio” (Jaca Book) di Alessandro Rivali. E’ una voce che già si è imposta, come nota Roberto Mussapi firmando la quarta di copertina, per la ricchezza che le viene dal seguire percorsi meno battuti della poesia novecentesca, “epica, dai bagliori poundiani”. Rivali ha visioni, sente il drago dell’epoca, risale a passaggi e luoghi emblematici della storia, a riti iniziatici, tra la Tazza Farnese e S. Giovanni della Croce, per darci nei suoi versi assonanti ai ritmi classici e però con improvvise contrazioni, il vivo del dramma che è la storia: la lotta tra la dissoluzione e l’eredità. Libro forte ma che, a mio avviso, non si comprnede appieno senza avvertire l’ultrasuono di una infinita tenerezza, intesa come permanenza della pietà anche nei momenti estremi della caduta:“Dio accarezza i perduti/con la mano di un cieco/ che sfiora angoli e onde/ e ritorna sul volto degli amici.” All’opposto di Rivali sta la voce di Francisca Paz Rojas, stupenda visionaria ferita, autrice di un suo primo intenso libro “Arsenale” (Zona). Qui non è la caduta di una città, ma il naufragio di amori e legami che però si vorrebbe vedere ancora salpare da un segreto arsenale dell’anima. Custode del vuoto e delle ferite, la voce della poetessa si accende: “Io so solo leccare la ferita/ comprendere il vuoto (…) –e non riemergo/ vado con la spalla in fondo/ dove solo una metafora persiste: – scappano via, pesci, i tuoi visi”. Ma non è mai definitivo il vuoto. Lei sa che “Se mi metto le ali necessarie/ se ti invoco/ e presentiamo insieme lo sfiorare/ del vero/ se giovane potesse essere la nostra parola/ l’intimità ci trovasse/ il finito, l’infinito/ rovistando, pregando, martellando/ se di fronte alla consegna delle ore/ noi dicessimo vita e andassimo avanti/ restituendo la grazia coi denti/ sulle scarpe di chi camina/ e senz’addio comprende”.

Roma capitale della poesia italiana?

Roma capitale della poesia italiana ? Domanda provocatoria di ‘sti tempi, essendo poi nel Novecento più o meno recente assodato –come lamento o luogo comune- che la poesia stava più in salute dove l’editoria la chiama e la offre, perlopiù Milano, mentre a Roma, tra fantasmi antichi e voci sperdute del secolo passato, lei se ne stava come un gatto del colosseo, arraggiandosi tra grandi rovine e poca trippa. Luogo comune infido nutrito pure dal fatto che i grandi “romani” del Novecento romani non sono, da Pasolini a Caproni, a Bertolucci. Ma la realtà è più forte dei luoghi comuni e questa settimana è Roma la capitale: per il libro di Claudio Damiani, “Poesie” per Fazi e addirittura per due feste d’editore dedicate all’arte più misteriosamente festosa. L’esser capitale, certo, non dipende dalle feste ma da certe presenze. Alcune nel passato, come di lei, la luminosa, la migliore: Giovanna Sicari, e prima Bellezza, Salvia, Rosselli e ora d’altri. Viene da Orazio o è Pascoli che dietro a lui brinda ? Rivivono qui gli sguardi risucchiati nel tempo di antichi poeti cinesi ? Questo si chiedono i critici leggendo l’antologia di Damiani e gli inediti in coda. Il lettore invece che non è occhiuto ma ha il cuore in subbuglio trova parole chiare di vento e di pazienza. Versi che si mettono accanto alla vita, come amici. Un poeta che si accosta, non grida, non si esibisce. Non punta sull’arguzia o sul patema ma sul profondo. Una delle qualità più forti di questa poesia è la sua natura dialogante. Che non significa “accomodante”, essendo invece d’umiltà dura e sferzante nella scoperta di vitali certezze contro ogni ideologia e nichilismo. Bensì viva in dialoghi –coi figli, con gli studenti, con il lettore. A riaffermare, appunto, che la poesia quando anche si fa oscurato sillabare è sempre un certo livello del dialogo tra gli uomini di fronte al destino, non il soliloquio di invasati esibizionisti. Senza quel “certo livello” ogni capitale e ogni civiltà divengono solo folla di fantasmi, ombre di chiacchiericcio e potere. Fazi dunque domani festeggia il bel libro di Claudio e fa bene. E tra pochi giorni fa festa a Roma anche Nottetempo che ha riproposto il tostissimo Daniele Mencarelli e altri grazie al lavoro di Silvia Bre. Brinderemo con occhi di fuoco e smeraldo.

La terra degli umani

La terra degli umani è in crisi, dicono tutti i giornali. Crisi dell’economia, sacrifici, pene per molti e fatica. I poeti in questi momenti che devono fare, tacere ? Parlare come sociologi ? O far divertire il gentile pubblico, distrarre ? Oppure forse devono fare come fa ad esempio questo libro recente, dal titolo strano che suona: “L’incoronazione degli uccelli nel giardino”, scritto da Roberto Mussapi, per Salani editore. I poeti possono far alzare gli occhi agli uomini presi nelle loro fatiche e far vedere qualcosa che sembra non avere niente a che vedere con la crisi, la pena e con le possibilità di riscossa etc. Lo han sempre fatto. Quando raccontavano storie di viaggi meravigliosi, di Ulisse, di Enea. O di amori che portano a rivedere tutto, e al cuore di tutto come Dante. Aprono mondi che sembrano altrove, e che però rivelano qualcosa che c’entra, eccome, con la vita qui e ora. In questa specie di favola in versi pieni di suono e di movimento, Mussapi ci racconta di uno strano fatto, che accade ogni cento anni. Da ogni luogo –mari, savane, giungle, boschi- gli uccelli si radunano la notte del dieci agosto per incoronare il loro re. In queste pagine adatte a ragazzi e adulti si ritrovano pennuti con nomi strani –Veronique, Samuelcook, Johnny Manga, Marrascabeddu e lei la dolce Neferti- per scegliere il prossimo re. Ognuno una storia, un canto, un carattere. Cormorani, gufi, chiurli, aironi… “Perché vanno d’accordo pesci e uccelli ?” si chiede all’inizio il poeta. “Bé è ovvio perché sono belli”. Poi però prosegue: “Non basta essere belli, è necessario/ avere in sé quel dono straordinario/ di fondere il silenzio con il canto/ quel dono che suscita l’incanto/ in noi umani e ci fa ricordare/ qualcosa che abbiamo smesso di imparare.” Nei momenti delle peggiori crisi i poeti ricordano agli uomini qualcosa che “hanno smesso di imparare”. Lo faceva Eliot nei duri anni ’30: dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione? Non a caso l’incoronazione finale sceglie l’alato che nei nostri giorni può ricordarci con la sua semplice quotidiana prossimità la presenza del cielo, del volo. La lieta libertà che non coincide con il possesso di ricchezze.

Ci sono i libri da spiaggia

Ci sono i libri da spiaggia. Nel senso di libri che intrattengono. Stampati su carta dozzinale, resistono il tempo necessario all’aria, alla salsedine, a qualche spruzzo E alla compagnia di creme solari, teli da bagno, salvagenti. Ed è normale, giusto che ci siano. Libri da consumare. E poi ci sono i libri incanto. I libri, potremmo dire, ultima spiaggia. Nel senso di oggetti estremi, di bellezza violenta e sacrosanta. Libri custodia in questo tempo dello smarrito. In controtendenza rispetto allo scialo di parole che si compie continuamente, ossessivamente su ogni genere di supporto, cartaceo o impalpabile. Sono libri che non si consumano, che non scialano. Stampati al torchio, illustrati a mano, rilegature sognanti. Libri che nascono in mani artigiane di maghi o di fate. Stampati su carte dai nomi favolosi. Gli editori di questi libri da ultima spiaggia accettano il confronto con ogni genere di sviluppo tecnologico o di consumo riaffermando con allegra sventatezza e con rigore monacale la natura preziosa del libro. La quale sta non tanto nei pregiati materiali o nella eleganza, ma nella cura, nel tempo dedicato con amore all’oggetto che custodisce e tramanda le parole. Certe parole. Come la straordinaria Commedia edita da “unaluna” esposta a Gubbio: “viaggio sensoriale ideato da Alessandro Sartori”. Si ammira nel Palazzo Ducale fino al 30 settembre il poema in esemplare unico con gli interventi artistici raffinati di Cecco Buonanotte. Ora “unaluna” mette la sua cura anche in libri-creazione di poesia contemporanea, iniziando con Anna Buoninsegni: “legione sterminata/siamo/ vespaio celeste/ nel petto delle stelle/ amanti folgorati”. In Italia per fortuna ce ne sono di questi splendidi editori matti, come Alberto Carsiraghy di Pulcinoelefante o Elisabetta, Daniela e Armando di Lithos a Como. Anche loro sono il nostro incantato “vespaio celeste”.

Le vicende dei poeti sono strane

Le vicende dei poeti sono strane. Ma un poeta si distingue da altri scrittori per una specie di sconveniente fedeltà alla propria voce. Non la modula a seconda delle richieste, né sulle necessità. Non è esatto nemmeno parlare di “necessità interiore”. La poesia non è mai necessaria, ma assolutamente gratuita. Piuttosto ha luogo nei migliori poeti una obbedienza, un fedele ascolto della voce che in loro stessi si fa largo, decidendo lei le pause eventuali, gli inabissamenti. Tutto questo è evidente in certe biografie, ma vale per tutti. Uno che sembrava un poeta scomparso e invece ha battuto un colpo è Luca Cesari, studioso di estetica ritiratosi dalle aule della fascinosa bologna anceschiana ai borghi e ai boschi dove Romagna e Toscana si baciano e danzano austeramente. Ha dato alle stampe dopo quasi vent’anni un libro, “Quando posa in terra il piede di Rachele” per Quaderni Università aperta. Ha guadagnato menzioni e premi (come il recentissimo “Pascoli”) ma ha soprattutto segnalato a chi non lo sapesse (o se lo era dimenticato) che abbiamo un poeta colto, vivo e selvatico, che mette insieme in unica visione il “vecchio predone romagnolo” Stefano Pelloni, detto il Passatore e Nietzsche. Poeta di alta qualità percettiva, con Pasolini e Pound come “due colonne dello stretto”, e con i ritorni di Ungaretti, Cesari ci da un libro-viaggio tra radici (dedicato alla morte della madre, anche lei poetessa) e sogni pittorici. Il lettore ne esce sbandando, incerto di cosa ha veduto veramente, tra luci di foreste e acque e pitture e nomi sapienti. E’ l’autoritratto di un riemerso, tirato alla vita dalla luce dei nostri pittori del Quattrocento e da quella segreta della poesia: “Calcinerò su questo margine lunare di fiume/ come ora, con l’immaginazione fiammeggiante nei libri./ (…) Io parlo per lo stilo che risuona la mente/ non per volubili beni.”. Il che detto in era di crisi –di soldi e parole- è violentissima, caritativa verità.

In questo tempo incline al lamento

In questo tempo incline al lamento, in questa terra di uomini e donne lamentevoli, sì, in questa regione del pianeta dove ci si lamenta per situazioni che ad altri, poco lontano, sembrerebbero il Paradiso, voglio offrire il piccolo scandalo di non lamentarmi per l’ennesimo almanacco o antologia. So per esperienza che l’antologista si espone a uno stillicidio di parole infami a mezza bocca e a recensioni crudeli. Anche di questo nuovo “Almanacco dello specchio” curato da Riccardi e Cucchi in Mondadori si potrebbero elencar i difetti. E invece voglio dire: grazie. Alla faccia di tutti i lamentosi che vivono senza gustarsi niente, nessuno stupore. Vedo nello sfogliare quelli che mi paion difetti, certo. Ad esempio non citare i lavori di Paolo F. Iacuzzi e di Saverio Simonelli quando si esaminano i testi di Bigongiari o le traduzioni di Kavanagh. O certe debolezze (la vacua intervista di Branciaroli). Ma voglio ringraziare perché questo libro m’ha fatto di Bigongiari risentire la luminosa e durissima forza. Una poesia meditativa e però trascinante, radicale e però lieve come disegnata sull’acqua. E m’ha fatto scoprire un poeta, l’ungherese Miklòs Radnoti, tragico e meraviglioso, buttato in una fossa comune nel ’44, con un taccuino di poesie in tasca. “Ventotto anni” dedicata alla madre, morta di parto col gemello che con lui stava nascendo, è uno dei testi più lancinanti, dolci e sperduti che abbia mai letto. Il poeta, ormai uomo, si rivolge al ritratto della madre, preso quando lei aveva all’incirca la sua età di ora. Poesia di duro attaccamento alla vita, di domanda sul suo senso. Un colpo alle reni fiacche di che nella letteratura solo il minuetto vanitoso della propria carriera. Uno schiaffo sulla bocca di chi sa solo lamentarsi. Finisce così: “Povera mamma, vittima del sangue,/ormai sono maturo per essere umano,/ il sole forte mi scotta e mi acceca,/fammi un lieve cenno con la mano/che va bene così, che tu lo sai/ che non vivo invano.”