Come si misura la vita della poesia?

Come si misura la vita della poesia ? In libri venduti ? Ma Rimbaud non ritirò nemmeno le copie della sua Stagione all’Inferno dallo stampatore. E poi per fare esperienza della poesia basta leggerne o ascoltarne una, non occorre comprarsi un’opera omnia. Forse si misura in fama ? La Merini stranota perché ha goduto (e sofferto) di fama televisiva accordatagli da quel Costanzo che ogni notte strazia la poesia su Radio1 vale forse più del quasi ignoto Biagio Marin ? E Omero chi era veramente…Si misura in presenza nei dibattiti ? Tranne rari casi i poeti non scrivono se non di poesia ( in modo vitale o mortale) e nel poco spazio consentito. Quando ne escono, so per esperienza, si tirano addosso ingiurie da puristi e invidiosi. Misurare la vita della poesia non serve a niente. E’ come l’acqua, il vento –a volte sembrano tacere, poi d’improvviso parlano da oscurità o precipizi, da corridoi scrostati o sfacciatamente in mezzo al luogo più gremito. Una sera un poeta “laureato” si lamentava del fatto che molti scrivono e pochi comprano libri di poesia (o meglio certi libri, perché Ungaretti l’han comprato in tanti). Diceva: troppa offerta e poca richiesta. Ma qui le leggi del mondo non funzionano anche se opera ogni rischio e attrito della storia e delle ideologie: qui in definitiva c’è solo la dura, dispendiosa, gratuita offerta. E personalissimi incontri. Ho visto Luzi offrirsi  e scoperto fino a novant’anni. E Testori non risparmiarsi e Bigongiari e Loi essere disponibili verso noi più giovani con entusiasmo e pazienza. Mica lo facevano per tornaconto. Ho visto ragazzi scoprire Caproni o Jacopone come un tesoro. E’ una libertà che fa paura ai custodi degli schedari. Forse della vita della poesia si può valutare solo come le generazioni se la passano, avventura in cui disperdere e riconoscere il mistero di vivere. E’ un elemento antropologico la poesia. Negarla significa negare la nostra umanità. Anche se la traditio istituzionale in troppi casi fa pena e se la maggioranza di editori e media non fa attenzione, questa trasmissione delle poesie povera e libera in  Italia c’è. Si può far di più. Ma vedo avanzare poeti under quaranta, under trenta, under venti. L’età conta poco in poesia. Stili, voci e riferimenti diversi, usano i nuovi media ma sanno la differenza tra il lavoro che sta dietro un libro e un blog. Hanno un segno inconfondibile addosso. Non sopportano aggettivi accanto al termine di poeta (né sperimentale, né lirico, né gay, né impegnato, né altro). Sono poeti come è esserlo da sempre, una voce antica e nuova, umile e suprema che mette a fuoco la vita: Daniele Mencarelli, Valerio Grutt, Isabella Leardini, Sarah Tardino, Andrea Cati, Tiziana C. Rosco, Francesca Serragnoli, Valentino Fossati, Tommaso di Dio, Federico Italiano, Franca Mancinelli,  Irene E Leo,  Andrea Ponso, Sebastiano Gatto, Alessandro Rivali, Lorenzo Chiuchiu. E più in là Roberta Sireno, Martina Abbondanza, Mariachiara Rafaiani…

Quelli che sanno far versi

“Quelli che sanno far versi.” Questo il sottotitolo della più giovane e simpatica iniziativa di poesia in Italia: Parcopoesia, a Riccione 3-5 settembre. La convoca con entusiasmo e tenacia Isabella Leardini, poetessa di delicatezza violenta e interiore. Una delle voci poetiche migliori che c’è in giro. Sette anni di ritrovi di poeti giovani, incontrandosi tra loro, con poeti maggior vicenda, con altri più giovani, curiosi e anche coloro che aspirano tanto. Uno stile informale e simpatico, con la gentilezza dei genitori stessi di Isabella che si fanno in quattro per gli ospiti. Ma chi sono quelli che “sanno far versi”? I folli, i poeti e i bambini, è scritto nel titolo di Parcopoesia 2010. Sono ricche e complesse le relazioni, gli abbracci, gli avvinghiamenti tra la poesia e follia  e infanzia. Ne abbiamo testimonianze commoventi e anche lacerate in tante esistenze. E i tre termini si rincorrono in tante delle riflessioni più profonde della modernità sulla natura della poesia, dal Fanciullino del romagnolo Pascoli alle riflessioni recenti di Borgna, passando per le infinite e spesso divaganti riflessioni sui casi di Campana e di altri sfortunati della mente. A Parcopoesia Isabella Leardini ha invitato tra i più noti poeti a presentare dei più giovani autori. E’ un modo di rispondere a quella strana empasse della “critica” che qualcuno ha teorizzato durante il dibattito sulla nuova prosa italiana innescato su queste pagine. La critica infatti o si fonda sulla autorevolezza del critico o non esiste come tale. Pensare che un critico valga perché conosce tutti i libri ceh escono o perché ha la possibilità (o il potere) di scrivere sui giornali e influenzare gli editori significa avviare alla morte il gesto critico. A Parcopoesia, lontano dai clamori o dalle chiacchiere delle cronache letterarie, riaccade il segreto, rischioso e delicato compito della vera critica. Nella poesia può accadere con il corredo –che anche nella prosa forse sarebbe necessario- di una certa seria allegria, e del gusto primario della condivisione. I nomi di chi sa fare versi ? Guardate su www.parcopoesia.it

La caduta della giovinezza

Ci sono ragazzi che arrivando alla maturità sentono tutto il rischio della perdita. La caduta della giovinezza e la caduta di tante cose intorno come passaggio rischioso. La caduta degli amori, la caduta di una civiltà. Due poeti poco più che trentenni, diversissimi e a mio avviso solidi e autentici parlano anche di questo in due libri usciti in questi mesi. Uno è il recentissimo, prezioso, eccentrico “La caduta di Bisanzio” (Jaca Book) di Alessandro Rivali. E’ una voce che già si è imposta, come nota Roberto Mussapi firmando la quarta di copertina, per la ricchezza che le viene dal seguire percorsi meno battuti della poesia novecentesca, “epica, dai bagliori poundiani”. Rivali ha visioni, sente il drago dell’epoca, risale a passaggi e luoghi emblematici della storia, a riti iniziatici, tra la Tazza Farnese e S. Giovanni della Croce, per darci nei suoi versi assonanti ai ritmi classici e però con improvvise contrazioni, il vivo del dramma che è la storia: la lotta tra la dissoluzione e l’eredità. Libro forte ma che, a mio avviso, non si comprnede appieno senza avvertire l’ultrasuono di una infinita tenerezza, intesa come permanenza della pietà anche nei momenti estremi della caduta:“Dio accarezza i perduti/con la mano di un cieco/ che sfiora angoli e onde/ e ritorna sul volto degli amici.” All’opposto di Rivali sta la voce di Francisca Paz Rojas, stupenda visionaria ferita, autrice di un suo primo intenso libro “Arsenale” (Zona). Qui non è la caduta di una città, ma il naufragio di amori e legami che però si vorrebbe vedere ancora salpare da un segreto arsenale dell’anima. Custode del vuoto e delle ferite, la voce della poetessa si accende: “Io so solo leccare la ferita/ comprendere il vuoto (…) –e non riemergo/ vado con la spalla in fondo/ dove solo una metafora persiste: – scappano via, pesci, i tuoi visi”. Ma non è mai definitivo il vuoto. Lei sa che “Se mi metto le ali necessarie/ se ti invoco/ e presentiamo insieme lo sfiorare/ del vero/ se giovane potesse essere la nostra parola/ l’intimità ci trovasse/ il finito, l’infinito/ rovistando, pregando, martellando/ se di fronte alla consegna delle ore/ noi dicessimo vita e andassimo avanti/ restituendo la grazia coi denti/ sulle scarpe di chi camina/ e senz’addio comprende”.

Roma capitale della poesia italiana?

Roma capitale della poesia italiana ? Domanda provocatoria di ‘sti tempi, essendo poi nel Novecento più o meno recente assodato –come lamento o luogo comune- che la poesia stava più in salute dove l’editoria la chiama e la offre, perlopiù Milano, mentre a Roma, tra fantasmi antichi e voci sperdute del secolo passato, lei se ne stava come un gatto del colosseo, arraggiandosi tra grandi rovine e poca trippa. Luogo comune infido nutrito pure dal fatto che i grandi “romani” del Novecento romani non sono, da Pasolini a Caproni, a Bertolucci. Ma la realtà è più forte dei luoghi comuni e questa settimana è Roma la capitale: per il libro di Claudio Damiani, “Poesie” per Fazi e addirittura per due feste d’editore dedicate all’arte più misteriosamente festosa. L’esser capitale, certo, non dipende dalle feste ma da certe presenze. Alcune nel passato, come di lei, la luminosa, la migliore: Giovanna Sicari, e prima Bellezza, Salvia, Rosselli e ora d’altri. Viene da Orazio o è Pascoli che dietro a lui brinda ? Rivivono qui gli sguardi risucchiati nel tempo di antichi poeti cinesi ? Questo si chiedono i critici leggendo l’antologia di Damiani e gli inediti in coda. Il lettore invece che non è occhiuto ma ha il cuore in subbuglio trova parole chiare di vento e di pazienza. Versi che si mettono accanto alla vita, come amici. Un poeta che si accosta, non grida, non si esibisce. Non punta sull’arguzia o sul patema ma sul profondo. Una delle qualità più forti di questa poesia è la sua natura dialogante. Che non significa “accomodante”, essendo invece d’umiltà dura e sferzante nella scoperta di vitali certezze contro ogni ideologia e nichilismo. Bensì viva in dialoghi –coi figli, con gli studenti, con il lettore. A riaffermare, appunto, che la poesia quando anche si fa oscurato sillabare è sempre un certo livello del dialogo tra gli uomini di fronte al destino, non il soliloquio di invasati esibizionisti. Senza quel “certo livello” ogni capitale e ogni civiltà divengono solo folla di fantasmi, ombre di chiacchiericcio e potere. Fazi dunque domani festeggia il bel libro di Claudio e fa bene. E tra pochi giorni fa festa a Roma anche Nottetempo che ha riproposto il tostissimo Daniele Mencarelli e altri grazie al lavoro di Silvia Bre. Brinderemo con occhi di fuoco e smeraldo.

La terra degli umani

La terra degli umani è in crisi, dicono tutti i giornali. Crisi dell’economia, sacrifici, pene per molti e fatica. I poeti in questi momenti che devono fare, tacere ? Parlare come sociologi ? O far divertire il gentile pubblico, distrarre ? Oppure forse devono fare come fa ad esempio questo libro recente, dal titolo strano che suona: “L’incoronazione degli uccelli nel giardino”, scritto da Roberto Mussapi, per Salani editore. I poeti possono far alzare gli occhi agli uomini presi nelle loro fatiche e far vedere qualcosa che sembra non avere niente a che vedere con la crisi, la pena e con le possibilità di riscossa etc. Lo han sempre fatto. Quando raccontavano storie di viaggi meravigliosi, di Ulisse, di Enea. O di amori che portano a rivedere tutto, e al cuore di tutto come Dante. Aprono mondi che sembrano altrove, e che però rivelano qualcosa che c’entra, eccome, con la vita qui e ora. In questa specie di favola in versi pieni di suono e di movimento, Mussapi ci racconta di uno strano fatto, che accade ogni cento anni. Da ogni luogo –mari, savane, giungle, boschi- gli uccelli si radunano la notte del dieci agosto per incoronare il loro re. In queste pagine adatte a ragazzi e adulti si ritrovano pennuti con nomi strani –Veronique, Samuelcook, Johnny Manga, Marrascabeddu e lei la dolce Neferti- per scegliere il prossimo re. Ognuno una storia, un canto, un carattere. Cormorani, gufi, chiurli, aironi… “Perché vanno d’accordo pesci e uccelli ?” si chiede all’inizio il poeta. “Bé è ovvio perché sono belli”. Poi però prosegue: “Non basta essere belli, è necessario/ avere in sé quel dono straordinario/ di fondere il silenzio con il canto/ quel dono che suscita l’incanto/ in noi umani e ci fa ricordare/ qualcosa che abbiamo smesso di imparare.” Nei momenti delle peggiori crisi i poeti ricordano agli uomini qualcosa che “hanno smesso di imparare”. Lo faceva Eliot nei duri anni ’30: dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione? Non a caso l’incoronazione finale sceglie l’alato che nei nostri giorni può ricordarci con la sua semplice quotidiana prossimità la presenza del cielo, del volo. La lieta libertà che non coincide con il possesso di ricchezze.

Ci sono i libri da spiaggia

Ci sono i libri da spiaggia. Nel senso di libri che intrattengono. Stampati su carta dozzinale, resistono il tempo necessario all’aria, alla salsedine, a qualche spruzzo E alla compagnia di creme solari, teli da bagno, salvagenti. Ed è normale, giusto che ci siano. Libri da consumare. E poi ci sono i libri incanto. I libri, potremmo dire, ultima spiaggia. Nel senso di oggetti estremi, di bellezza violenta e sacrosanta. Libri custodia in questo tempo dello smarrito. In controtendenza rispetto allo scialo di parole che si compie continuamente, ossessivamente su ogni genere di supporto, cartaceo o impalpabile. Sono libri che non si consumano, che non scialano. Stampati al torchio, illustrati a mano, rilegature sognanti. Libri che nascono in mani artigiane di maghi o di fate. Stampati su carte dai nomi favolosi. Gli editori di questi libri da ultima spiaggia accettano il confronto con ogni genere di sviluppo tecnologico o di consumo riaffermando con allegra sventatezza e con rigore monacale la natura preziosa del libro. La quale sta non tanto nei pregiati materiali o nella eleganza, ma nella cura, nel tempo dedicato con amore all’oggetto che custodisce e tramanda le parole. Certe parole. Come la straordinaria Commedia edita da “unaluna” esposta a Gubbio: “viaggio sensoriale ideato da Alessandro Sartori”. Si ammira nel Palazzo Ducale fino al 30 settembre il poema in esemplare unico con gli interventi artistici raffinati di Cecco Buonanotte. Ora “unaluna” mette la sua cura anche in libri-creazione di poesia contemporanea, iniziando con Anna Buoninsegni: “legione sterminata/siamo/ vespaio celeste/ nel petto delle stelle/ amanti folgorati”. In Italia per fortuna ce ne sono di questi splendidi editori matti, come Alberto Carsiraghy di Pulcinoelefante o Elisabetta, Daniela e Armando di Lithos a Como. Anche loro sono il nostro incantato “vespaio celeste”.

Le vicende dei poeti sono strane

Le vicende dei poeti sono strane. Ma un poeta si distingue da altri scrittori per una specie di sconveniente fedeltà alla propria voce. Non la modula a seconda delle richieste, né sulle necessità. Non è esatto nemmeno parlare di “necessità interiore”. La poesia non è mai necessaria, ma assolutamente gratuita. Piuttosto ha luogo nei migliori poeti una obbedienza, un fedele ascolto della voce che in loro stessi si fa largo, decidendo lei le pause eventuali, gli inabissamenti. Tutto questo è evidente in certe biografie, ma vale per tutti. Uno che sembrava un poeta scomparso e invece ha battuto un colpo è Luca Cesari, studioso di estetica ritiratosi dalle aule della fascinosa bologna anceschiana ai borghi e ai boschi dove Romagna e Toscana si baciano e danzano austeramente. Ha dato alle stampe dopo quasi vent’anni un libro, “Quando posa in terra il piede di Rachele” per Quaderni Università aperta. Ha guadagnato menzioni e premi (come il recentissimo “Pascoli”) ma ha soprattutto segnalato a chi non lo sapesse (o se lo era dimenticato) che abbiamo un poeta colto, vivo e selvatico, che mette insieme in unica visione il “vecchio predone romagnolo” Stefano Pelloni, detto il Passatore e Nietzsche. Poeta di alta qualità percettiva, con Pasolini e Pound come “due colonne dello stretto”, e con i ritorni di Ungaretti, Cesari ci da un libro-viaggio tra radici (dedicato alla morte della madre, anche lei poetessa) e sogni pittorici. Il lettore ne esce sbandando, incerto di cosa ha veduto veramente, tra luci di foreste e acque e pitture e nomi sapienti. E’ l’autoritratto di un riemerso, tirato alla vita dalla luce dei nostri pittori del Quattrocento e da quella segreta della poesia: “Calcinerò su questo margine lunare di fiume/ come ora, con l’immaginazione fiammeggiante nei libri./ (…) Io parlo per lo stilo che risuona la mente/ non per volubili beni.”. Il che detto in era di crisi –di soldi e parole- è violentissima, caritativa verità.

In questo tempo incline al lamento

In questo tempo incline al lamento, in questa terra di uomini e donne lamentevoli, sì, in questa regione del pianeta dove ci si lamenta per situazioni che ad altri, poco lontano, sembrerebbero il Paradiso, voglio offrire il piccolo scandalo di non lamentarmi per l’ennesimo almanacco o antologia. So per esperienza che l’antologista si espone a uno stillicidio di parole infami a mezza bocca e a recensioni crudeli. Anche di questo nuovo “Almanacco dello specchio” curato da Riccardi e Cucchi in Mondadori si potrebbero elencar i difetti. E invece voglio dire: grazie. Alla faccia di tutti i lamentosi che vivono senza gustarsi niente, nessuno stupore. Vedo nello sfogliare quelli che mi paion difetti, certo. Ad esempio non citare i lavori di Paolo F. Iacuzzi e di Saverio Simonelli quando si esaminano i testi di Bigongiari o le traduzioni di Kavanagh. O certe debolezze (la vacua intervista di Branciaroli). Ma voglio ringraziare perché questo libro m’ha fatto di Bigongiari risentire la luminosa e durissima forza. Una poesia meditativa e però trascinante, radicale e però lieve come disegnata sull’acqua. E m’ha fatto scoprire un poeta, l’ungherese Miklòs Radnoti, tragico e meraviglioso, buttato in una fossa comune nel ’44, con un taccuino di poesie in tasca. “Ventotto anni” dedicata alla madre, morta di parto col gemello che con lui stava nascendo, è uno dei testi più lancinanti, dolci e sperduti che abbia mai letto. Il poeta, ormai uomo, si rivolge al ritratto della madre, preso quando lei aveva all’incirca la sua età di ora. Poesia di duro attaccamento alla vita, di domanda sul suo senso. Un colpo alle reni fiacche di che nella letteratura solo il minuetto vanitoso della propria carriera. Uno schiaffo sulla bocca di chi sa solo lamentarsi. Finisce così: “Povera mamma, vittima del sangue,/ormai sono maturo per essere umano,/ il sole forte mi scotta e mi acceca,/fammi un lieve cenno con la mano/che va bene così, che tu lo sai/ che non vivo invano.”