Chisciotte

Chi è questo cavaliere che ci fa ridere e stupire? perché compare sulla scena? E chi è veramente folle? Il suo ideale è una menzogna, se pur sublime, o è una visione più autentica del mondo ? Sono domande destinate a crescere, a moltiplicarsi lungo tutte le arterie della sensibilità e della coscienza di ogni singolo lettore. Percorrere un romanzo come questo significa ridare vita a una folla di domande che ci precede e che prosegue. Significa entrare in un teatro sorprendente. Lettori e ascoltatori di ogni genere, così come i più importanti intellettuali e i maggiori scrittori sono stati affascinanti dal libro misterioso di Cervantes. Ogni volta che si apre la storia di don Chisciotte si entra a far parte di una scena vasta e di un brusìo infinito di letture e di dialoghi. Ci si deve entrare con la propria voce, e con la unicissima vita che ad ognuno è data.
Dal petto del galeotto ed ex-soldato combattente a Lepanto, nasce un’opera di grande divertimento e di straordinaria complessità, con parti di metanarrazione, di costruzione a scatola e di rimandi e incastri da far impallidire i più boriosi tra i cosiddetti sperimentatori. Nonché ricca di passaggi dalla finzione del romanzo alla realtà della vita dell’autore. La composizione del romanzo è un prodigio in una esistenza che pareva destinata ad esser quella di un mediocre letterato e risente di motivi “esterni” che costringono l’autore a invenzioni sorprendenti, come ad esempio il riavviare la storia –nel secondo volume- con una specie di dialogo feroce e ironico con l’autore del plagio che ne fu compiuto poco dopo la comparsa. Il tutto “servito” al lettore con grande gusto per chi vuole spassarsela leggendo e per chi si trova a proprio agio tra colpi di scena, apparizioni strambe, e alternanze tra il grottesco, la suspence e la dolce malinconia.
Un uomo che ha conosciuto una vita di debiti e di espedienti, che a più riprese ha perso ogni dignità e pur ha aver combattuto per un grande ideale –fino a rimetterci una mano- dà vita a una storia immortale. Com’è possibile? Cosa si agglomera in questa invenzione, al di là delle intenzioni dell’autore medesimo?
La risposta a tutto questo montare di domande non è in una teoria o in un discorso “su” don Chisciotte. Nessuna interpretazione de-finisce un romanzo di valore e i suoi protagonisti, figuriamoci un capolavoro come questo. Il fatto è che la risposta a tutte quelle domande è lui, sono loro, della Mancia e Sancio. La loro comparsa sulla scena della mente e del cuore del galeotto Cervantes e sulla grande scena della cultura europea e dei secoli non è riducibile a un discorso. Loro sono comparsi, e qui restano. Così come la vita di un uomo, anche la presenza di un personaggio e della sua storia non è riducibile a pretesto per un discorso su diversi argomenti. E’ piuttosto un evento che catalizza domande e sollecita prese di posizione e assunzioni di responsabilità. Don Chisciotte c’è. E’ vivo nel campo apparentemente astratto dell’invenzione letteraria perché esiste nel campo concreto e drammatico della esistenza di Cervantes e di quel che egli –volendo o anche non volendo- in essa ospitò.
Il personaggio che entra nella tradizione del racconto picaresco spagnolo, portandosi in dote la ricchezza di mille precedenti di favole e di poemi italiani e di racconti europei ed arabi, è un uomo sorprendente. E’ un tizio che spinto da una tradizione che pare smarrita e accusata dai suoi contemporanei, (quella dei poemi cavallereschi) si mette a vedere il mondo in una maniera da tutti giudicata squinternata. Coloro che lo incontrano restano colpiti da lui. Lo strano aspetto non svela subito la sua “follia”, però mette in guardia: si è di fronte a qualcuno di strano diverso. Questo tizio a cui può colare ricotta dall’elmo sugli occhi, discorre amabilmente e con saggezza di molte cose. Specialmente delle nobili imprese dei cavalieri, gente che sa cosa è un amore assoluto, l’avventura, il disinteresse e il combattimento. Però introduce azioni “strane”, attacca mulini, marionette, scambia contadinotte per principesse, tuguri e osterie per castelli. Tutto questo, ripete spesso, è opera di un incantatore che domina il suo mondo. Ha un solo fedele, si rende ridicolo agli occhi dei più. Ama Dulcinea del Toboso d’un amore che –dice il suo fido- è come quello che si riserva a Gesù. Le traveggole conferiscono al suo andare una dignità ovunque perduta. Non riesce a concepire la vita se non come avventura, svela la statura umana e le aspirazioni reali di chi incontra, e al suo passaggio suscita o convoca una corona di racconti straordinari, di festa della vita.
Come ha scritto un grande poeta del Novecento H.W.Auden, don Chisciotte è il cavaliere cristiano. Una lettura libera da suffumigi intellettualistici o da complessi culturali, riconosce in questa figura simpatica, apparentemente perdente, scombinata e irriducibile, il ritratto dell’animo cristiano errante sotto le volte di un’epoca che si avvia a non esser più nutrita dal cristianesimo e dai suoi ideali. Dice qualcosa di vero Milan Kundera quando afferma che essendosi Dio ritirato dall’universo, quando Chisciotte esce di casa non riconosce più il mondo.
Vedendo nel cavaliere della Mancia il ritratto di un animo cristiano o, come qualcuno ha fatto, addirittura una figura di Cristo stesso, non si realizza una chiusura nei confronti di tutto quanto di “altro” c’è nella ricca tramatura dell’opera.
Il contrasto tra follia e realtà è la struttura fondamentale del romanzo, ed è una struttura capiente. Vi si possono innestare molte storie, come accade nell’opera, e molte interpretazioni. Ma riconoscere i tratti cristiani di questo capolavoro (basta leggerlo) significa individuare l’elemento che lo rende così vivo e operante. In altre parole occorre comprendere di che natura siano la follia e il senso di realtà che paiono qui fronteggiarsi.
Le tinte di una crisi epocale sono ben ravvisabili. In don Chisciotte brucia la coscienza della fine di una civiltà, e come ha scritto la curatrice di questo volume nella postfazione, la nostalgia è un tratto dominante del fantastico cavaliere della Triste figura. E’ una nostalgia che si attiva. In altri casi, nelle accademie, nei luoghi clericali, quella nostalgia diventava (e ancora diventa) difesa di forme passate, indugi in vagheggiamenti sfumati, e dunque artrosi, difesa retriva del bel tempo che fu. Con il suo atteggiamento folle Chisciotte, invece, conquista il futuro. Il cavaliere strano di Cervantes esce di casa, sfida gli incantatori e il ludibrio, si fa errante per amore e, apparentemente sconfitto, ottiene di esser lui la figura del suo tempo che ottiene più futuro. Come Dante si colloca al culmine di una grande cultura cristiana, e all’inizio della sua crisi, così Chisciotte appare al culmine della forza della cattolicissima Spagna e nelle ombre della sua crisi. E ci consegna, da una pianta le cui radici cristiane sono in crisi, uno strano fiore. In Chisciotte c’è vita, c’è futuro per la fede. Perché? Com’è possibile? Stiamo parlando di un perdente. Che cosa è paradossalmente vittorioso in lui?
Lo ha riconosciuto anche J.L. Borges: in quest’opera finiamo per parteggiare per la visione di Chisciotte. Nel poeta della Commedia e nel cavaliere del romanzo la conoscenza della realtà avviene attraverso una dinamica che ai più non è data, e che oggi appare fraintesa o abbandonata: essi hanno visioni, vedono il mondo in un giudizio e in una lotta che ai più ormai sfugge come invisibile o come un folle sogno. La grandezza dell’opera, il suo futuro, sta nel fatto che essa persuade della visione. Persuade anche noi, estremi tra i moderni o comunque lontani dal medioevo dantesco e dal Seicento spagnolo. Siamo persuasi della verità profonda di quelle visioni, ben sapendo che Ulisse probabilmente non brucia in un cespuglio e che i mulini a vento non sono giganti. Al modo con cui non dubitiamo mai di Dante e lo seguiamo nel suo percorso nell’invisibile reso agli occhi dalla sua forte poesia, così seguiamo il Cavaliere della Mancia nella sua avventura visionaria, e stiamo nettamente dalla sua parte.
Ancora Auden scrive che don Chisciotte è colui che vuole assomigliare a ciò che ammira, e che se in termini psicologici tutto ciò si può chiamare follia, in termini religiosi si chiama conversione. E’ questo il motivo, la natura della visione. Quello che per tutti è follia è un’opera di somiglianza, di immedesimazione nell’ideale. Ma si tratta di una cosa impossibile? di una aspirazione votata al fallimento, infruttuosa ? Sancio, l’amico e scudiero, animo semplice e fedele, colui che per primo e più da vicino è testimone delle follie di Chisciotte, dice a un certo punto di esser diventato più saggio nel conversare con il suo cavaliere.  Così l’amicizia dei due –vero e proprio romanzo nel romanzo- la divertentissima sfilata di avventure comuni, di botte da orbi, di meraviglie, di disagi, si rivela al fondo un legame che introduce alla sapienza. Sarà Sancio, alla fine, a chiamare ancora il suo amico al viaggio.
Sul finale del romanzo e sulle motivazioni che spinsero Cervantes a scriverlo si sono avute e si avranno tante diverse interpretazioni, com’è naturale. Addirittura c’è chi parla di una sorta di omaggio che egli avrebbe dovuto rendere, pena la censura, al buon senso e alle Istituzioni del tempo. Qui non è il caso di soffermarcisi. Di quelle pagine ci resta il grido di Chisciotte, e ancora un supremo, tutto idalgo sorriso.

Conversazione con Roberto Benigni

 

Rondoni: E tu, Roberto, non hai mai scritto una poesia?

 
 
Benigni: Ne ho scritte milioni per la mia bella! Ma non osare pubblicarlo e nemmeno dirlo.
 
 
Rondoni: Mario Luzi, ancora vivo quando ci furono le tue prime più eclatanti apparizioni televisive con Dante, mi diceva: «Si vede che ama quel che legge». Ora lo pensano milioni di persone. E poi tu il pallino della poesia mica l'hai da adesso. C'è una scena in Daunbailò dove citi anche Robert Frost… Leggere poesia, sembrerebbe una cosa strana, invece…

 
Benigni: Lo diceva Nabokov. Quando siamo piccolini c'è l'identificazione con l'autore, che è una maniera infantile; poi c'è quella adolescenziale, e «si legge per cercare un messaggio», una strada da seguire; poi c'è quella da studente, quando si cresce, accademica; da ultimo c'è quella matura, quando rifai il percorso dell'autore.

 
Rondoni: E tu il percorso di Dante ce lo hai fatto rifare un po' a tutti…

 
Benigni: I poeti sono più profondi dei filosofi, ciò che ti entra dentro non ti esce più. Non è un pensiero che corre. La poesia rende il quotidiano…

 
Rondoni: …memorabile, lo rende memorabile…

 
Benigni: Ma guarda come trovi le parole, eh… La poesia rende memorabile il quotidiano e anche i pensieri potenti.

 
Rondoni: Tu hai visto quest'Italia che riscopre Dante e riconosce che c'è qualcosa di buono a cui attaccarsi… Questa è una fame strana, profonda. Ma spesso si guarda questo tipo di fenomeno con scetticismo. Lo si deride dicendo: è uno spettacolo, una moda. Secondo me viviamo da un punto di vista culturale un momento durissimo. Solo 5 studenti italiani su 100 all'esame di maturità fanno la prova su Dante e Francesco, che sono due pilastri della nostra cultura, e questo significa una crisi della nostra tradizione e del futuro. Spesso le istituzioni e gli intellettuali non si accorgono di questo fatto, ma badano solo a se stessi. Però c'è quella fame… Avendo fatto questo viaggio, in te che idea dell'Italia è maturata?

 
Benigni: La cosa bella di un grande abbraccio proprio fisicamente sentito. Ho deciso di fare questo viaggio, l'ho fatto seriamente. Tutte le sere ci sono una media di 6/7000 persone che escono amando Dante. Dicono che la Commedia è bella, che la poesia li può interessare. Ho visto l'Italia sua, perché Dante è stato dappertutto. Ogni volta mi sono preparato su quel luogo, il dialetto, la storia della città, e poi quello che ha fatto Dante nella zona. È un mistero ancora per me… A Palermo, c'era uno stadio pieno, sembrava la partita Palermo-Roma.

 
Rondoni: Tu come leggi questo tipo di fame?

 
Benigni: Lo spettacolo potevo intitolarlo «Dante, Berlusconi e Prodi: l'Inferno» e sicuramente avrebbe richiamato molti. Con «Tutto Dante», avevo detto, si perde metà degli spettatori. Ma proprio nella seconda parte dello spettacolo, è lì che il pubblico rimane più colpito. La parte che è solo di Dante. Non c'è più nemmeno nostalgia per la parte comica. La sorpresa è stata la reazione della gente, un desiderio di sentirsi prendere per mano, come uno che riscopre e ritorna a vedere come lui è fatto realmente. A volte applaude sul silenzio, su delle sensazioni più che su dei concetti. L'ultima volta in una città del sud ci sono stati almeno 15 applausi a scena aperta sul nulla, un nulla che vuol dire tutto…

 
Rondoni: È che la poesia è usare proprio le parole per dire, per dare voce a quel che non si sa, un mistero, un silenzio che ci parla nel reale…

 
Benigni: Giusto! Io dico le cose come un bambino che va a portare in alto quello che ha trovato. È quello che ha fatto Dante: uno che è andato in fondo all'Oceano in apnea ed è tornato fuori quasi senza fiato, e poi è tornato giù, dicendoci continuamente «Voi fate schifo», e poi si è immerso, è tornato su e ci ha detto che siamo Dio. È commovente. Dante salva dall'abitudine perché è infantile lui, fa vedere come si diverte con questi morti che sono più vivi dei vivi. Come diceva Saba. Dante ti tocca dove non ti avevano mai toccato. Lui è alto e basso e va a fondo come un ascenso re continuo. Questo è un mistero, quando arrivi ai versi non capisci più, non lo so dire neppure a me stesso e allora cerco di trasmettere questa cosa che non si può sapere e che è la più bella di tutte. A volte è accaduto che alla fine del canto ci sia un silenzio come per la musica classica. Ad esempio quando dice «Caddi come corpo morto cade». Si intuisce che Dante vede piangere Paolo e Francesca abbracciati, e poi sviene. E in più, Dio che aveva fatto cessare il vento, i rumori, perché il poeta potesse sentire, pure Dio rimane sospeso un momento. Dio stesso si chiede se sarà giusta questa regola.

 
Rondoni: Questa nostra epoca è segnata da due cose che sembravano parole fuori moda rispetto alla cultura del secondo Novecento: Dio e libertà. Il rapporto tra queste due cose è un problema urgente, che riguarda credenti e non credenti. Dante aveva qualcosa da dire, perché era uno che aveva preso sul serio la propria vita. Per lui Dio è un protagonista attivo e la libertà è ciò che costituisce l'uomo, senza la quale l'uomo non esiste. La Commedia è il poema cristiano, cioè della libertà di Dio e nostra. Come in quel punto supremo, nell'Inno alla Vergine, in cui si capisce che Dio per salvare l'uomo nella libertà si innamora di Maria, l'aspetta da sempre…

 
Benigni: E lui è l'unico che sa davvero cosa vuol dire: ti aspettavo da sempre! È una parte stupenda, a cui tu hai dedicato quelle belle pagine che uso… Una cosa alta che è anche una storia di focolare. Ci sono proprio cose sentite vicino al focolare. La bellezza di Dante anche nel canto alla Vergine, che mi ha proprio affascinato tanto, è che c'è dentro tanta roba semplice, c'è la superstizione, non solo teologia. Come Stravinskij ha usato la musica popolare, Dante va da sant'Agostino a san Tommaso, da san Bernardo fino alle superstizioni. Nella Commedia il senso della libertà non è il mero «voglio fare quel che mi pare», è la libertà insita dentro di noi, inalienabile, che anche ridotti in catene nessuno ci può lev are. E che ha turbato anche la Chiesa: il contrasto tra l'onnipotenza divina e la libertà umana, per cui anche Dio si ferma. Accade persino nelle punizioni, tipo ai lusingatori che Dante mette nello sterco. La libertà dell'uomo sembra più forte di Dio! Anche nella punizione sembra che Dio non possa fare niente contro la nostra libertà: l'idea del contrappasso è popolare».

 
Rondoni: Per questo il festival «Dante09» lo chiamo ritrovo di tipi danteschi, cioè di gente che sente l'avventura del viaggio con questa allegria e serietà, vertigini e comico, visione e saggezza popolare…

 
Benigni: La grandezza è che in lui c'è sempre il bambino e l'adulto. Ti fa sentire che, anche nelle situazioni più orrende dell'umanità, l'uomo è capace di bontà, c'è questa libertà che nulla può piegare. La libertà di dire no a Dio, alla parte divina nostra stessa. L'irriducibilità dell'uomo, la grandezza, la magnificenza non viene meno, è insita. Per questo cerco di far capire con parole semplici che anche l'etica con fondamento religioso non è più profonda o diversa dell'etica senza fondamento religioso. Questa è una cosa importante, se no non c'è più dialogo. La stessa profondità, la stessa attenzione al dolore, la stessa altezza.

 
Rondoni: Io penso che l'etica sia una conseguenza della profondità con cui si sente la vita, dell'estetica, di come se ne avverte la bellezza, il mistero… E i poeti a che servono? A far risentire a tutti che la vita è un evento irriducibile…

 
Benigni: Un'epifania. Come nell'innamoramento. Come si fa a sopportare quello che ci accade i primi tempi? Meno male che il Signore ci ha dato la maniera, se no si va in manicomio, non si sopravviverebbe mica. E accade anche con lo stupore del vivere. Dante fa sentire che ognuno di noi, anche se i suoi giorni e notti non appaiono eccezionali a nessuno, è protagonista di un dramma epico insostituibile, unico. Ti fa sentire che ognuno di noi è qui per complicare e completare l'affresco. E c'è anche l'impressione che c'è Qual cuno che ti guarda continuamente, sempre, perché ti vuole bene. Che tutto lavora per qualcosa. Addirittura ti fa sentire che nessuno è così strano da non poter essere capito. Siamo tutti meno estranei e meno nemici, dopo. Il mondo è meno estraneo.

 
Rondoni: Te lo saresti mai aspettato di fare uno spettacolo così?

 
Benigni: Non immaginavo neanche! Adesso comunque son molto contento di quello che riesco a fare. Poi sbaglio, faccio a volte degli errori clamorosi, però loro sentono che a me mi piace da morire, gli arriva e qualcosa gli rimane, una scintilla di questo amore. Il risultato è quello, fai vedere che ami una cosa. Un uomo che ama qualcosa è uno spettacolo. E io lo spettacolo ce l'avevo già, perché io amo proprio Dante. Ogni tanto me ne parlavano a casa. I miei genitori son contadini e una delle frasi di mio babbo quand'ero piccino che mi ricordo di più, quando a 13-14 anni hai uno sguardo impaurito sulla vita, è questa. Stavamo levando le patate insieme e lui si accorse che sbagliavo tutti i colpi. Si fermò e mi disse: «Ragazzo, cerca di trovare una donna che gli vuoi bene, e al mondo non ti farà paura più niente». Lui dava dei colpi alle patate che uscivano delle pepite d'oro, non ne sbagliava uno, e io pensai: uno che sa levare le patate così la deve saper lunga, gli do retta! Lui parlava di Dante, anche se era uno che non parlava tanto, era spiritoso, allegro. Mia mamma era analfabeta, ma come la «Madonna del cardellino» di Raffaello aveva sempre in mano il Vangelo, si metteva accanto a una cosa calda e apriva questo libro senza saper leggere. E io le dicevo: «Ma mamma, non sai leggere…», e lei mi guardava in un modo e sorrideva e non rispondeva, ma sembrava che mi dicesse: «So leggere più di te».

 
Rondoni: In Dante, si vede che il segreto dell'arte è l'obbedienza. Dante è uno che «quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando».

 
Benigni: Che verso, anche quello! Obbedisce. Non ci avevo pensato ma è proprio vero, il segre to dell'arte è l'obbedienza. Io ormai lo faccio tutte le sere, per me è diventata come una musica che riconosco come in uno spartito… Fa impressione come lui sia riuscito a tenere tecnicamente. Quando si legge il Convivio o il De Vulgari si capisce il laboratorio, che era proprio un letterato vero. Ha pure inventato il montaggio. Quando vado a montare un film, io mi ricordo il decimo canto dell'Inferno che parte con un montaggio straordinario. Prima di lui non era proprio possibile…

 
Rondoni: Ne avrai viste di tutti i colori, con questo giro…

 
Benigni: Senti un po'. In Veneto c'era pure Baggio alla rappresentazione. Io lo amo tanto Baggio. Mi ha detto: «Sai che mi hai fatto capire meglio il buddismo?». Gli ho detto: «Ma dove vai? C'hai Cristo… non è per dire, ma noi c'abbiamo quello… come ce lo aveva il nonno, il nonno di tuo nonno…».

 
Rondoni: la stessa risposta che m'han riferito di Totti: «Scusi, ma lei è cattolico?». «Ecche cce devo esse?».

 
Benigni: È la risposta che dico io quando me lo chiedono: «E che devo essere!?» (io però purtroppo lo dico in italiano). Nei diari di Gandhi, quando andava di moda l'induismo e dopo il '68 andavano tutti in India, lui ha lasciato scritto che aveva scoperto il cristianesimo per mezzo di Tolstoj. E gli diceva a questi: «Ma c'avete Cristo e venite da me?». Non si può fare gli spiritosi in queste cose, perché sono talmente profonde…

 
Rondoni: Oggi invece si tende a semplificare, a banalizzare questa fame di grandezza, a buttar via nella vita ciò che è grande, magari con la scusa che è difficile…

 
Benigni: Ma è così bella la difficoltà, beata… È una benedizione del cielo che tu non sappia come fare, perché lì diventi uomo, scopri il mondo, la vita, scopri che sei vivo. Se prendi una pasticca per eliminare questo, è desertificare l'emozione, non sei più vivo. Peggio degli ignavi, è un girone nuovo: quelli non hanno voluto vivere. Non solo non hanno vissuto, ma dicono «Non mi interessa di vivere». Questi ignavi qui Dante non li conosceva.

 
Rondoni: E senti un po', dopo Dante, torni a fare il cinema?

 
Benigni: Certo, ma che scherzi?!

Intervista di Gabriella Fantato

della rivista "La Mosca" di Milano

1. che cos'è l'esperienza della poesia? L'esperienza si traduce a noi e per noi secondo ordinamenti lessicali e grammaticali predeterminati per cui nessun'opera giunge a se stessa o a noi de novo. Celan ha detto "non ho inventato nulla". Come può il linguaggio re-inventare, ri-petere chiedendo di nuovo ? se l'opera creata nasce dalla libertà di non essere o essere diversa, cosa s'inventa e cos'è l'invenzione che la letteratura e la poesia soprattutto rivendicano con insistenza ? il linguaggio tradisce e tradisce se stesso. Può dire contemporaneamente una cosa e il suo contrario, diventando falsità e oscurità. Come affidargli in queste condizioni quel supremo viaggio verso la verità, verso il "transfinito" ? come può essere un indicatore legittimo di ciò che sta al di là di lui stesso (Steiner) ? quali autori in questo senso rendono la poesia più vera, più presente ?

La lingua della poesia nasce come tensione, come entrare in tensione sempre nuovo, di fronte alla provocazione del reale. E' una lingua che ascolta un'altra lingua e ne risuona. E certo questa tensione non è una faccenda meccanica, ma c'entra con libertà dell'uomo, dunque con la possibilità che l'uso che egli fa della lingua sia verso la menzogna e verso l'allontanamento dal vero del reale (che è ultimamente mistero). Il viaggioverso il segreto del reale non è una proprietà meccanica del linguaggio. La libertà è la natura di quella tensione in cui entrano le parole, facendosi ritmo, evocazione, immagine, discorso musaico, quando la realtà in qualche suo particolare ispira (cioè dà fiato, respiro) a chi è poeta, cioè a chi è attento, a chi ascolta.
In questo senso i poeti migliori son quelli non "egoisti", come diceva Rimbaud, ovvero quelli per cui l'avventura personale, come in Dante, è viaggio autorevole, cioè che aumenta la vita di tutti, come coscienza critica, e dunque come risveglio della libertà.

2. poesia come inseguimento di tutta la vita/ che c'è nella vita…perché ogni cosa ha un segreto/se non lo domandi scompare?

Il segreto dell'esistere può non apparirci più, se non eccezionalmente e in cose traumatiche, se non impariamo a vederlo, a vederlo sempre. Tale imparare non è il frutto di uno sforzo, ma di una educazione. Ad esempio, a chiedere, invece che a pretendere si impara per educazione…

3. dunque una scrittura con l'ambizione impossibile di essere vasta e inafferrabile come la vita stessa, o una parola umile, arresa alla coscienza dei propri limiti?

La scrittura è un'azione della vita, dunque ne partecipa del desiderio e della coscienza del limite. Ma il limite non è contrario al desiderio, semmai è sua condizione.

4. poesia come avventura nel senso della realtà verso l'alterità presente, misteriosa e infinita ?

Tutto è alterità. J'est un autre, diceva ancora Rimbaud, al fondo stesso del mio "io" c'è qualcosa che non è mio, che non governo. L'altro è la grande legge dell'esistenza, come regola elementare per appartenere all'Altro che tutto crea.

5. bisogna aiutare la verità a non fermarsi in se stessa come diceva Bigongiari?
Sì, nel senso che interrogando, come faceva lo "zio" Piero Bigongiari, mettendo sotto interrogatorio l'enigma dell'esistenza si compie un movimento dal mistero a me e di me nel mistero, ovvero nella mia condizione naturale. La verità è per sua natura viva, non ferma. La verità dei matematici forse può esser ferma. L'amore, l'altra parola con cui si nomina Dio, il vero, è azione, movimento, non staticità.

6. stupore e "letizia" invece che disincanto. Il poeta brucia dentro e con la realtà?

Ho parlato di queste cose nei miei saggi di "Non una vita soltanto". Più che di una rigida opposizione si tratta di accenti prevalenti. Intendo che l'arte pone sempre l'accento sulla conoscenza per stupore, sulla possibile traccia di letizia nell'esperienza del mondo (anche nell'esperienza della miseria e del crollo, come tracce sperdute, come domande). Il disincanto degli scettici finisce per annullare il lavoro dell'arte.

7. compito del poeta è conoscere le cose con un'appropriazione d'amore?
E' questo il compito di chiunque ama. Chi ama conosce. Non c'è conoscenza autentica di un fenomeno umano senza partecipazione d'amore.

8. a cosa del mondo assomiglia la musica si domandava Leibniz.a cosa del mondo assomiglia la parola poetica? l'interrogativo ce lo poniamo oggi allo stesso modo di Dante e gli stilnovisti come afferma Maria Corti?
Sì, allo stesso modo. E assomiglia a tutto, essendo una cosa unica, e infatti continua ad esistere come specifico.

9. come si configura rispetto al precedente "Il bar del tempo" questo tuo nuovo libro "avrebbe amato chiunque" ?

Ah, ditelo voi…Io lo avverto più estremo, più duro anche, più abbandonato e, se così si può dire, più rischioso…Il titolo, del resto…Però, come mi è accaduto ascoltando mio figlio di sette anni, anche un bambino può capirlo, cioè entrare nella sua necessità…

10. la sua trama d'insieme ha una strategia compositiva che finisce col coincidere con la pratica di una poetica vera e propria?

Non pratico una poetica. E più che trama d'insieme direi la sua voce, la sua distinguibile povera voce

11. siamo ancora ospiti della creazione dice Steiner. Il grido infinito del poeta dell'era post-pasoliniana deve al nostro ospite il suo domandare?

Se ho capito bene quel che chiedi, sì.

Teatro

Giotto l’uomo che dipinse il cielo (Compagnia Elsinor)
Barabba Il liberato (per Flavio Bucci, Alvia reale e Patrizia Zappa Mulas)
Non sei morto, amore (per David Riondino e Sandro Lombardi)
La locanda, le stelle (per Andrea Soffiantini)
Compianto, vita (per Virginio Gazzolo)
Il veleno, l’arte (per Iaia Forte)
Dalle linee della mano (Teatro Biondo, rega di Pietro Cariglio)

 

 

Testi
 
 
 

Ti vedo ti vedo

Ti vedo ti vedo
forsennatamente, riappare
come uno stormo dal vuoto bianco del cielo
l'imprevisto che dà amore alla mente

ti vedo nel ridere di qualcuno
che si accende
nel buio dei portici,
                       in una spalla
solitaria di ragazza
dietro i vetri del tram,

ti vedo un attimo dopo
questa tua giovinezza, mentre
entri nelle grandi gallerie del tempo

ti vedo in quel che ti somiglia
e che non ti somiglia.

 

Blues stasera del vento

Amami cielo basso
tremito dei rami, amami
dimmi qualcosa di importante
tra le luci delle insegne
e le luci degli amori brevi,
vento, tu
suggerisci qualcosa al mio cervello invecchiato
dove ramifica il corallo
qualcosa al mio petto di zucchero
soffiato – –
e al ventre
che svuotata conchiglia
rimormora il mare.
Carezza vento questi tetti
piatti, le piastrelle e i bambini sulle terrazze, il mio
bicchiere, dimmi
qualcosa d'amore
non tralasciare nulla
lascia indietro solo i lamenti, ma
proprio tutto il resto della vita
canzoni, chiasso di godere, silenzio e maestà,
lunghi sospiri e fiato mozzato
proponi, vento, proponi!

E' la sera giusta stasera,
non perdiamo l'occasione di far arrivare
questo dolce carico carretto
fino all'eterno,
ma muovile
tu quelle ruote, anche dall'inferno
un soffio ti prego
dei tuoi, un soffio…

Un tempo si prepara piumato
e crudele, tredicenni
fissano in un video per ore
la luce senza ardore che viene dalla rete,
seta fuggente sugli occhi
sorpresi fino a sentire un lieve
disagio per l'esistenza del dolore
a bocca aperta vedono
vicina e anche dentro di loro
accadere la morte. Saranno facili
prede impaurite dei venditori che spacciano
un mondo perfetto.

Ma tu vento che nessuno sa dove
dimmi qualcosa di chiaro bene
qualcosa che entri nel midollo
spinale e in quel silenzio nativo
sia difeso, veloce
più dei riflessi sul vetro del treno
che cattura nella luce il mio volto
un istante come un istante
qualcosa più veloce del non esser più niente.

In questa età del feeling
gli scrittori più noti arrivano
alle stesse conclusioni dei pubblicitari,
e tutto è aperto, i musei, i pub e le chiese,
e la domenica le aule parlamentari
per la visita confusa di gente che dice
a tutto è carino! ma non sa più
che cosa è : domandare.
Io ricordo
le mani chiuse di mia madre,
gli occhi chiusi per sempre di Marta.
E che ogni cosa ha un segreto
se non lo domandi scompare.

Daremo figli
alla luce e li esporremo
anche alle tenebre,
a volte faremo grandi bevute
e grida di piacere o di pena
senza imprimere movimento
a tutta la vita che c'è nella vita?
Il buio è solo il buio
godere è godere, gli oceani
in silenzio solo vasto
silenzio di oceani?

Ma il fuoco chiaro, febbrile del giorno
che scende tra gli alberi
– chi lo guarda? chi è esperto
dell'aria,
del dolore?
chi segue le linee sulle mani della betulla
e avverte lo slegarsi di molecole,
la notizia minuscola in cronaca
come qualcosa che riguarda il suo amore?
Dove sono bestemmia e visione,
rompere i gusci delle buone maniere.
Far di sé
un ufficio reclami
dove si sfogliano riviste ed è vietato fumare
non è dignitoso e nemmeno dà gusto

far di sé un silenzioso, placido
acquario non so se valga la pena,
preferisco all'equilibrio il viaggiare
su quel che resta d'un vecchio fusto
che in pericolo inclina
inseguendo lei, Moby, ballerina
balena che ci trema al centro degli occhi.

Niente è come entrare
perduto sotto le volte di una cattedrale.
Dire piano ave Maria il mondo non va via.
O camminare
verso il volto
che non ha scandalo del male.

Eh, che cosa
afferrare se non quello
da cui siamo sempre afferrati?

La semplice conoscenza del movimento
nel camminare in viali trafficati,
come l'uomo che si arresta per le scale
e non ne ricorda il motivo,

la sorpresa
di lavorare nel medesimo lavoro
che muove tutte le ore nella creazione,
il fiore delle figure in cui si tengono
i pianeti e quelle sulla scrivania
lasciata in ordine dalla segretaria
prima di spegnere la luce, andare via.

Amami cielo basso, io lo so
che l'amore sempre stupisce
e sempre lavora,
lo so anche stasera che qualcosa di più
di questo whisky nel bicchiere finisce,
alzando gli occhi che hanno febbre
sulle luci di una città italiana
che incanta e ferisce.
Tu vento che nessuno sa dove
continua a disegnare figure che non comprendiamo
nel movimento delle nubi
sul lume debole di luna,
nelle ombre dietro i vetri della mia casa
nel palazzo che ho di fronte.

E lascia che canti in questa notte
un viso che ha dolore e lode
                              in parti uguali di sguardo.

***

Suite per Irene

I

Irene s'è uccisa a tredici
anni. Ha scelto
per il suo volo di morire
lo stesso giorno di Cobain.
Sua madre mi dice:
proprio ora, stava per fiorire.
E altri stormi di parole
la traversano in molte direzioni.

Io dico solo: non l'hai
perduta, il mai non l'ha
rubata,
è Irene
nel mistero, i suoi
pochi tredici anni
sventagliati nel puro vero.
E: vedrai
la croce ora dentro alle tue mani
che non ne sapevano niente.


II

Pagherete per Irene
pagherete caro, dico non so bene
a quale dei fantasmi onnipresenti,
video-petulanti, ai maestri quasi tutti
orrendi
nella retorica che si son cuciti
di artisti o presidenti.
Su di lei
in lei, chi ha fatto pasto ?
molto è per sempre
nascosto, ma una favilla
di fuoco
deve bruciare sugli occhi
di chi fa del nero inoculato ai ragazzini
la propria spettrale,
ricca professione.

Nei giorni del primo
sangue, della prima rosa, dei primi
pensieri che seguono l'arco
dei cieli, nei giorni della clamorosa
scoperta d'essere nell'universo, cosa
offrite, cosa?
Videogame e oblìo
orbite vuote di cantanti, il becco
degli spot, i fiori persi
delle paure
e coccole e un dio
banali come scrupoli – –

pagherete per Irene, per la corona
di spine
che le avete posato sui capelli.

III


Ha raccolto i tuoi anni in una fascina
li ha alzati su uno dei vasi più belli

di vetro spesso, luminoso

dove li tocca sempre il vento
e si vede l'azzurro della collina.

Il tuo angelo custode aveva gli occhi sbalorditi
e gli altri angeli a doverlo consolare.

Vorrebbe aver lui colpa di tutto
ma gli altri uniti: se Dio toglie

la libertà, la vita è
solo immalinconire.

Irene, dolce fascina,
passando per il terribile

hai trovato la fiamma
chiara dell'invisibile.

E la alimenti, la presenti
correndo lungo i nostri muri.

Dammi le chiavi della solitudine
per entrare nella sua ultima parte
– ne tocco le porte
da giorni con le mani

e una voce le ritira
sempre più nel buio

sono schiene
di belle signore sotto poca
luce
lepri o altre
prede
alzate nella penombra

quella fortezza è un aprile chiudendo i miei occhi

le bianche guardie
addormentate alzano appena il ciglio
al mio passaggio

– Signore delle solitudini in corridoio
della sigaretta fumata con un estraneo

vieni dentro le notti fredde

ti vedo, sei in questi pub
deserti dove la musica
pulsa e sotto la luce vuota
la stanza dilata
dove o ti siedi
con me, o ti siedi
con me o non esisti, svanendo insieme
alla schiuma della birra
e al tuo nome che dicono invano di Dio

***

Voler bene a una persona

Voler bene a una persona
è un lungo viaggio – –

rupi, cadute d'acqua e bui
improvvisi, dilatati
il chiuso di foreste,
lampi a volte
sul silenzio così vasto del mare

e strade sopraelevate, grida

viali immersi all'improvviso
in una luce sconosciuta.

Voler bene a uno, a mille, a tutti
è come tener la mappa nel vento.
Non ci si riesce ma il cuore
me l'hanno messo al centro del petto
per questo alto, meraviglioso fallimento.

Sugli altipiani di ogni notte
eccomi con le ripetizioni e le mani rovesciate della poesia:
non farli stare male, sono tuoi, non farli andare via

      

Guardano i miei figli come un evento

Guardano i miei figli come un evento
fuggire la palla
dalle loro mani piccole,
il fruscìo sotto la siepe
di un gatto nel cortile
il camion muggire chiuso
nelle vie strette cittadine.

Non hanno gli occhi delle mie solitudini
sulle strade dove li accompagno
nella penombra dove divento loro padre

– di là dai vetri mi traversano alberi
persone ferme
in attesa di un tram
un'acqua ripida di auto
e motorini, qualcuno
che si appoggia a una colonna, ferito da cosa,
lungo il porticato.

Loro mai fermi sui sedili dietro e accanto
hanno il nascere nel sangue,
la luce nelle domande
succhiano da grandi bicchieri, sbriciolano
da sacchetti di pane.
A ventaglio si apre
il loro vivere nel mondo.

Cosa mi attende
andarmene in un lampo,
lasciar la guida, o ancora
essere un re per voi, e poi
servirvi io diminuendo
ritornare un po' bambino
usare un giorno io l'altro sedile
e poi finire dietro il vetro,
invisibile al vostro
viaggio, vivo solo
nel vivere così grande che ci ha preso

(e che tutti cercano,
il camionista
che s'è perduto,
le persone che scrutano la via
per vedere se c'è il tram,
e quello
che non è più alla colonna,
svanito lungo il porticato…)

                                   a Bartolomeo, Carlotta,
                                  Battista e a chi sta arrivando

***