Mettere a fuoco Dio, introduzione

Preghiere e non preghiere

Introduzione

Si potrebbe ripartire da Bremond, l’abate che con pacata furia fissando nel suo celebre saggio le confluenze e le distanze tra preghiera e poesia, cercò di domare una materia vasta e convulsa. O ripartire da Celan, il tragico poeta, che sondava la verità nella poesia muovendo dalla comune etimologia tedesca del pensare e del ringraziare o, ancora, dell’esser memori e della devozione (Denken, Danken, Eingedenk sein,Andacht ). O da più indietro. Si potrebbe, si dovrebbe, ripartire da Dante.  O dal suo vicino e lontanissimo, ferocemente lontano, Petrarca. Dalla loro  comune ammirazione, sconfinata e timorosa (sì, pur se di quei sommi era timorosa) per Davide re, profeta e poeta. O si potrebbe, e avendone le forze mentali e intellettuali -che invece se ne sono andate a seguire chissà che segnali, che barbagli, che fuochi – si dovrebbero collegare i suggerimenti disseminati in W.H. Auden, e poi in Mario Luzi e in Sergej Averincev. O in Les Murray, il poeta australiano, che parlando di religioni come poemi sposta acutamente il problema di quanto sia poesia o preghiera dall’intangibile sfera del soggetto che scrive a quella più ravvisabile dell’effetto che il poema crea nel lettore e nella comunità.
Si poteva fare, si dovrebbe. Qualcuno lo sta facendo, lo faranno, non so. Insomma si dovrebbe fare tutto diversamente da quanto qui ho osato. Scagliare questo libro di testi  contro il petto del lettore, gettare i fogli di questo taccuino di poesie che viaggiano verso i confini, che non stanno nel margine della letteratura, sì, che debordano o comunque se ne vanno dalla biblioteca per vagare ed esplodere altrove, sotto un cielo più vasto che non quello delle biblioteche, è stato un gesto azzardato. Ma non solo Dio ama l’azzardo. Anche taluni editori.  E’ un’idea avuta dalla mente dell’editore –notoriamente una specie di intelletto prossimo al diabolico e dunque attentissimo alle cose dei precipizi e dei cieli.
Si è fatto un manipolo di testi e lo si offre. Poche note, le essenziali. Un libretto pieno di abissi. Al contrario di chi –nelle accademie, nei salottini- vorrebbe la poesia a far da intrattenimento, da dessert per ideologi o linguisti. Un libretto-barca da dove a volte si ammirano fondali, o a volte, per troppa oscurità si distoglie lo sguardo dalle onde e si lancia a qualche barlume in cielo.
Ma no, non si doveva fare di accostare testi così lontani, così diversi. Non si doveva fare di proporli nella loro sferzante nudità. Nella loro gloriosa e torbida bellezza. Né di allinearli qui come feriti in una battaglia durissima e splendida. Non si doveva. A meno che non si sia disposti a pagare un prezzo altissimo. Il quale non è, diciamolo subito, la bocca torta di critici e studiosi “seri” di poesia e di compilatori attenti agli errori, alle mancanze e a quelle che chiameranno forzature. Un prezzo più alto. Di aver le mani bruciate. E con le mani, il cuore e come si chiama: l’anima. Il bruciare che viene nel rinvenire accostati in questa disordinata galleria, così vicini, come affastellati, questi capolavori in un magazzino in un tempo di guerra (che lo è quel che viviamo, sottocutanea, oltre che corporale e militare, sottocerebrale guerra, e disastrosa). Il prezzo del rapimento della mente. E di quello del cuore.  
Eppure cosa potevo fare ? Perché dopo tutte le teorie e, dentro il cuore di quelle che sono più sincere, non si trova forse lo stesso sole ? O, appunto, lo stesso fuoco ? Che è quello del re Davide, il quale risponde al rimprovero della prima moglie Micol che lo ammonisce di non esser ridicolo ballando nudo nel corteo che porta l’Arca della Sacra Alleanza in Gerusalemme: io non ballavo di fronte al popolo, ma di fronte a Dio. Ecco qui ci brucia quel fuoco che si vede nelle opere scritte sì per gli uomini ma per così dire ballando nudi davanti a Dio. E da quella nudità lanciando preghiere o forse non preghiere a Dio. Non preghiere di sfida, o di ira, o di derisione. O di sbigottita incredulità. O di troppa pena. Così come preghiere di troppa pena, o di ira, o di affidamento. Di una cosa sono certo, a riguardo di questa materia così imprendibile, analizzabile e sempre da ricapitolare: ogni vera poesia è scritta sempre di fronte all’assoluto. Come lo può concepire o incontrare mente umana. Ogni grande, autentica poesia nasce dinanzi al cielo intero, e alla profondità dell’abisso. Nasce come gesto, come lancio di pietra o di fiori in quell’arco luminoso e oscuro.
E di fonte al cielo si può stare pregando, o non pregando. Ma non c’è poeta autentico che non stia dinanzi a quella dismisura, mentre egli pur misura le parole e il loro ritmico respiro. Vede il vuoto, in quel cielo, o avverte il pieno di un mistero: ma non può che stare lì, per la sua destinazione di poeta. Che è quella, come in questa antologia sbilenca si vede, di star inchiodato senza nascondersi la faccia sotto questo cielo. Non esiste una poesia atea, nel senso che non può esistere una poesia che non si ponga il problema di Dio. Che non se lo ponga sempre, ad ogni volta che sulla pagina scendono i segni della relazione che un particolare ha con il tutto, secondo il suggerimento dato in quel momento all’autore. Può una poesia esser idolatra. Come può esserlo l’uomo. E riporre, di fatto, la sua fiducia piuttosto che in Dio, in una idea formulata dalla sua testa, in una bellezza del suo o di un altrui corpo, nel denaro o in altri generi di scambi, nella politica, nello stato. Idolatria, diffusa…L’idolatria della poesia si chiama Letteratura. Quando ne abbatte l’idolo, e si libera dai suoi rituali e dai ricatti muti e delle catene invisibili che la legano, la poesia rivela la sua bellezza nuda, primaria, artificiosa e obbediente alla natura.
Che  come dire: prendete queste poesie come vengono.
Preghiere e non preghiere è un libro che non sta sul comodino. Non sta da nessuna parte. Non è per addormentarsi. Non è per biblioteche tranquille. Va dove c’è il fuoco. Quello che gli uomini appiccano nella loro demenza di ergersi a dei della sorte propria o altrui. E dove c’è il fuoco dello spirito che grida con gemiti immensi e rende mendicante il cuore anche quando non ha le parole.
Che siano queste le parole, suggerite da uomo a uomo, come da sentinelle che cantano nel turno della notte, o da compagni al tavolo dove scende la sera. O altre, qualsiasi altre che nascendo in faccia a Dio sono la lingua della intera statura della persona umana.
 Mi riferisco alle pagine del poeta W.H: Auden, discutibili quanto feconde, sulla relazione tra fede e poesia. Così come a quelle che sullo stesso argomento intrattiene qua e là Mario Luzi. Di Sergej Averincev, erede della tradizione russa, filologo e studioso di poesia, mi riferisco sia alle pagine del saggio “L’anima e lo specchio” sia a quelle di “Atene e Gerusalemme”. Les Murray, grande poeta australiano ha dedicato nei suoi saggi contenuti in “Lettere dalla Beozia” degli approfondimenti originali.

INFERNO

CANTO XV

L.C. – Buongiorno a tutti, siamo arrivati al nostro incontro con il XV canto dell’Inferno, di questa iniziativa di incontri con Dante letto e commentato da poeti contemporanei e già vi annuncio che il prossimo anno faremo il Purgatorio e poi il Paradiso, siete avvertiti della prosecuzione di questi nostri incontri. È con noi questa sera, come al solito, il prof. Walter Mauro che ha curato anche lui questa iniziativa e Davide Rondoni che leggerà e commenterà il XV canto. Nato a Forlì, laureato e vive a Bologna, ha pubblicato alcuni volumi di poesia per Guanda editore, il romanzo breve “I santi scemi” e poi ha raccolto i suoi saggi critici in un volume edito da Marietti nel 2002 “Non una vita soltanto”, ha fondato e dirige la rivista trimestrale di letteratura “ClanDestino”, è autore anche di testi teatrali rappresentati anche con successo tra cui “Barabba è liberato”, scritto per Flavio Bucci poi “Giotto, l’uomo che dipinse il cielo”, “La guardiana delle oche, un monologo per Natale”. Ha pubblicato anche articoli accademici su diversi autori tra cui Pascoli, Leopardi, Luzi etc. Oggi sarà qui con noi per leggere e commentare il XV canto. Cedo la parola a Walter Mauro che come al solito farà un collegamento con i canti che abbiamo lasciato.

W.M. – Sì, dunque, il raccordo questa volta è breve perché avevamo lasciato Dante nel XIII canto e cioè nella zona dei violenti, questa è la parte centrale dell’Inferno, la parte più drammatica e tragica che Dante sta attraversando. Siamo nei comparti dei violenti, prima di Pier delle Vigne Dante aveva incontrato i violenti contro il prossimo che si dividono in due gruppi: i violenti contro la persona fisica, gli omicidi, e i violenti contro la ricchezza e i beni altrui, che sono appunto i predoni. Poi il canto di Pier delle Vigne commentato, lo ricorderete, da Dante Maffia, il XIII in cui si trovano anche qui due schiere, i suicidi, tra cui c’è Pier delle Vigne che tenne ambo le chiavi del cor di Federico, dice Dante, e nella parte finale del canto, uno dei più belli di tutta la Commedia anche per il suo movimento, cioè c’è un’inquietudine, un’ambiguità che è assolutamente mossa, prevaricante su tutto il resto, e infatti il canto si chiude sugli scialacquatori che inutilmente vengono inseguiti e si inseguono l’un l’altro da cagne bramose e correnti, dice Dante, da veltri che uscisser di catena. Successivamente, nel XIV canto, che è quello che fa da raccordo con l’incontro del XV con Brunetto Latini, di cui parlerà adesso Davide Rondoni, nel XIV canto Dante incontra i violenti contro Dio, poi ci saranno i violenti contro natura, appunto i sodomiti, e tra i violenti contro Dio c’è una figura che emerge tra tutte le altre cioè quella di Capaneo, che era uno dei sette re che combatterono contro Tebe. È un personaggio protervo, arrogante, un personaggio che non si pente affatto di stare nell’Inferno e di scontare una pena così dolorosa e drammatica come quella di essere immerso nella sabbia rovente. Dante ricava questa leggenda, questo mito di Capaneo dall’antichità, dal mondo antico. Lo stesso Capaneo aveva sfidato le divinità dell’Olimpo ed era chiamato “superum contemptor”, cioè dispregiatore dei celesti, delle divinità, quindi un bestemmiatore per professione, potremmo dire. Poi verso la fine del canto c’è tutta una descrizione dell’idrografia infernale, c’è la descrizione dei vari fiumi, di quelli che Dante sta incontrando in quel momento, di quelli che ha incontrato nei canti precedenti e quindi c’è appunto questo grande tema del paesaggio fluviale e terrestre che è quello che Dante sta attraversando. Per questo XV canto abbiamo chiamato ed è qui con me, avete già sentito dalla professoressa Caravale alcune notizie attorno all’attività poetica, ma non soltanto perché c’è un punto di questa autobiografia trovata su internet, di questo autocurriculum, in cui si dice una cosa molto significativa: intanto ama e nello stesso tempo polemizza con Bologna, dice “ora la mia casa è a Bologna, città bella e difficile, autoritaria come una cicciona non più brillante, non più molto tonica”. Per quanto riguarda la poesia, e questo è molto importante, dice: “non ho mai concepito il lavoro poetico come ‘a parte’ dall’impegno critico, sia in campo letterario che più largamente in campo sociale e politico, l’essere un cristiano cattolico, come appunto Davide si definisce, non mi ha mai messo in quell’imbarazzo verso all’arte in cui taluni vorrebbero”, questa è un’avventura del linguaggio, della parola, del comportamento umano che incontriamo continuamente, cioè tanti di noi, soprattutto tra gli intellettuali, mostrano una singolare e strana vergogna nel definirsi quello che tu invece dici di te stesso in modo molto autentico e molto vero. È un poeta che si muove all’interno dell’infanzia della poesia e questo è un mento di innocenza, di verginità che lo accoppia per esempio ad uno dei poeti che tu hai più amato, cioè Luzi; diciamo che i punti di riferimento ai quali si richiama la poesia di Rondoni sono rappresentati da Leopardi e da Luzi e indubbiamente c’è un cordone ombelicale, una linea ascendente che lo riconduce inevitabilmente al più grande poeta che abbia avuto il Novecento e al nostro più grande poeta del secolo precedente, cioè dell’Ottocento. Ecco, io mi fermo qui, cedo la parola a Davide Rondoni che commenterà il XV canto: violenti contro natura. A te Davide!

D.R. – Intanto grazie dell’invito, spero che non ve ne pentiate. Dirò qualcosa su quanto detto dall’amico Walter Mauro. Ma leggo prima il canto, mi sembra più giusto fare così!      

Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.
Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,
perch' io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
E io, quando 'l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia».
I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent' anni
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia.
Però va oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com' uom che reverente vada.
El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?».
«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
e s'io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent' è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos' io lui, «voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;
ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo.
Tanto vogl' io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra».
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.

Allora, io non so come siete abituati qui… Immagino che siate abituati benissimo. Questo è un canto meraviglioso, di una tenerezza straordinaria, su cui si potrebbe star qui fino a domani mattina, invece cerchiamo di fare una cosa un po’ sintetica e solo due cose di commento alla presentazione. Ho detto prima che ci tengo a dire che sono nato a Forlì anche perché Bologna ha sì un grande debito con Dante perché è stato il secondo posto dove, dopo Firenze, è stato letto in pubblico, però è anche vero che con i bolognesi Dante ce l’aveva. Forlì, come sapete, è appena accennata nella Commedia, però il motivo vero di questo mio legame con la Romagna è perché i miei grandi maestri di poesia, oltre a quelli citati, sono stati effettivamente alcuni romagnoli non poeti: quando mi chiedono chi sono i tuoi poeti di riferimento, io dico sempre, certo, Leopardi, Mario Luzi, Eliot, Caproni, per esempio, e poi dico sempre Enea Gardini! E chi è Enea Gardini? Era mio nonno, non ha mai scritto un libro, non ha mai avuto a che fare niente con la letteratura. Vengo da due famiglie, sia quella materna che quella paterna, che non hanno mai avuto a che fare niente con la letteratura e con i libri; mio nonno costruiva strade e l’altro mio nonno aveva un negozio di alimentari a Cervia, in un posto sul mare. Mio nonno Enea una volta entrò ad 87 anni nell’ascensore di un ristorante di Forlì, insieme a mia nonna, donna con cui aveva passato più di settant’anni, ed entrato in ascensore, eravamo io e loro due, fece questo gesto, toccando con una carezza appena dietro alla nuca di mia nonna e disse “e’ mi galett!”, che in romagnolo significa “il mio galletto!” e lì ho capito che l’esperienza della poesia, così come anche quella che Dante fa, è l’esperienza della lingua che si accende ad un livello per cui raccoglie meglio la realtà. Lui con una parola sola ha detto una grande tenerezza ed anche una grande ironia; perché dire ad una donna “il mio galletto” significa dire anche a una donna che è carina e graziosa, e che come il galletto becca un po’, che è un po’ guerriera, come i galletti in campagna. Ha detto in una parola una cosa della vita intera. Io credo che l’esperienza della poesia, e Dante naturalmente è il nostro Maradona, il nostro maestro è, come diceva Ungaretti, questa lingua che entra in tensione, e il miracolo della poesia è questa tensione che anima la lingua, non tanto la capacità linguistica. Dante per poter dare un nome adeguato a Beatrice accende la lingua fino ad arrivare a scrivere la Divina Commedia. Questa è una piccola premessa per dire quale è il punto di vista da cui io guardo sempre la Divina Commedia, che è una sorta di grande spavento e di grande reverenza, come tutti, e una grande agitazione. Io non riesco a leggere la Divina Commedia stando fermo, non solo perché è un poema di movimento, ma mette dentro una sorta di movimento anche a me. Devo fumare, devo telefonare, lo so che qui non si può fumare, però mi mette questo movimento e credo che questo non sia solo un mio problema, ma che dipenda dal fatto che questa opera nasce esattamente come grande movimento. E come aveva giustamente capito Borges, uno dei grandi lettori della Commedia, come gran movimento per poter rivedere Beatrice, vale a dire a poter dare il nome adeguato all’esperienza che aveva colpito Dante con Beatrice. Voi sapete che Montale dice, copiando dal commento di Pietrobono, che Beatrice la si può definire in tanti modi: la teologia, la fede, però Beatrice, in realtà è un miracolo, che è la parola stessa che usa Dante “ è donna venuta da cielo in terra a miracol mostrare”. Per dare nome a questo miracolo Dante, alla fine della Vita Nova, dice così: “io spero che Dio mi dia abbastanza giorni per scriver di lei quello che non è mai stato scritto per nessuna”. E lo fa; la cosa “mostruosa” o miracolosa è che questo ragazzo viene colpito da questa esperienza e dice che spera che Dio gli dia abbastanza giorni per scrivere questa cosa e lo fa, scrive di lei una cosa che non era mai stata scritta per nessuna. Lui lo fa. Il Brunetto Latini che incontriamo qua è uno che sa questa cosa di Dante, sa che si trova uno di fronte, uno che è stato un ragazzo di valore e che, come dice Eliot, ha preso sul serio le sue esperienze, ha fatto un viaggio dentro queste sue esperienze, specie dell’incontro con Beatrice. La poesia, e finisco questa premessa, è il modo con cui noi mettiamo a fuoco la realtà. La parola poetica non è una specie di armamentario linguistico che sta in un armadietto a parte del cosmo in cui ci sono le parole poetiche, lo apriamo e le andiamo a prendere. Il lavoro dei poeti è, con la lingua, mettere a fuoco il reale. Lo mettono a fuoco nel senso di “a ferro e fuoco”, ma lo mettono a fuoco anche nel senso che a furia di inventare dei nomi cercano di vedere ciò che li ha colpiti. Per questo l’esperienza poetica di cui parliamo oggi parlando di Dante e del suo incontro con il maestro, è l’esperienza che quella volta mio nonno ha fatto in un ascensore e possiamo far tutti perché tutti noi. Di fronte ad una cosa che ci colpisce vediamo che la nostra lingua entra in tensione, che la nostra lingua comincia ad inventare nomi: tutti noi quando siamo stati innamorati o quando siamo diventati oggetto d’amore abbiamo inventato o siamo diventati degli “orsetti”, dei “gattini” o dei “dromedari”. Non è che queste cose sono solo dei vezzeggiativi, o meglio, sono anche dei vezzeggiativi ma sono dei nomi che si danno per mettere a fuoco la cosa che ci ha colpito. Dante, ha scritto la Divina Commedia perché voleva mettere a fuoco che cosa lo aveva colpito di Beatrice e questo non è una cosa che dico solo io, ma tutti i grandi lettori si sono accorti che il movimento di questo viaggio, il movimento che Dante ci comunica, è il movimento di uno che sta mettendo a fuoco una cosa che lo ha colpito.
Ci troviamo in questo viaggio. Siamo in un punto che, come avete sentito, si apre subito su un margine, un margine-argine: “Ora cen porta l'un de' duri margini; e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l'acqua e li argini”. Dante dice: siamo in una situazione di argine e di margine. Questo naturalmente ha a che fare con il fatto che siamo nel cerchio VII, siamo nella bolgia dei violenti, con la configurazione fisica del posto in cui ci troviamo, siamo nel racconto dell’Inferno, ma io la leggo anche un’indicazione: siamo su una costa, su un margine. L’incontro tra Dante e Brunetto, ci mette in una situazione di margine, ci mette in una situazione di limite, stiamo entrando in un limite. Dante ci sta parlando e ci sta immettendo su un camminare che è un passaggio, camminare sugli argini è un’esperienza bellissima, perché ti pone su uno strano bilico, senti di essere in una situazione di sospensione, di passaggio. Dante qui ci avvisa subito, perché in questo canto certe cose che noi ci aspetteremmo Dante dicesse o che Dante non dicesse, in realtà ce le dice. O non ce le dice attraverso la lingua, attraverso la grana della lingua. La prima cosa che volevo fermare come commento a questo canto è che siamo su un margine, un argine, un passaggio che come vedete obbliga a un certo posizionamento fisico del corpo. Il corpo di Dante è protagonista importante… Una piccola digressione polemica sull’importanza del fisico e del corporeo, poiché si sono sempre sentiti una serie di luoghi comuni. Per esempio, una volta fui invitato a un convegno a Venezia in cui mi chiesero di parlare, non ricordo neanche troppo bene, della donna e la poesia, l’amore e la poesia, ed io mi accorsi che era in realtà una specie di convegno di femministe un po’ arrabbiate. Lì aveva corso un grande luogo comune che mi sento ripetere spesso quando si parla di Dante: ah, ma Beatrice non ha fisico, la donna di Dante è angelicata, non ha corpo… E ho provato a rispondere che nella Vita Nova accade che basta meno di un saluto perché a Dante vengano le traveggole e gli spiritelli. Un saluto mancato, un non gesto; se permettete, questo è il massimo d’intensità del gesto fisico, non è il minimo. Se basta un gesto vuol dire che la forza del fisico, del corpo, della presenza è enorme. E la forza di una presenza fisica, si carica in maniera simbolica, evidentemente. Come si documenta una presenza fisica e corporea, come diventa per noi sempre più importante? Tanto più si carica di simboli. Ogni volta che Dante ci parla di un corpo, anche quando parla di Beatrice, il cui saluto basta a farlo andar fuori di testa, ha una coscienza della forza, dell’importanza della presenza fisica notevole. E anche in questo canto noi ritroveremo che Dante assume una stranissima posizione e si ferma a raccontarla: si china, cammina, un movimento strano per così dire doppio. Questo canto è costruito su un’opposizione, su una relazione che è anche un’opposizione, su un’amicizia che è anche un’opposizione, e sul fatto che si gioca molto sul detto e sul non detto. Questo è un canto che gioca molto sulla reticenza, su quello che non si dovrebbe dire o quasi non si dice. Per esempio, appena viene afferrato per il lembo e il dannato dice “Qual maraviglia!” Dante ficca gli occhi, “per lo cotto aspetto, sì che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza süa al mio 'ntelletto”. È come se il viso di Brunetto non potesse avere reticenza. Se pensate al fatto che Dante sia l’unico che parla della sodomia di Brunetto, sembra subito sapere quello che sta per fare. Lui non sarà reticente, dirà di Brunetto quello che nessun altro ha mai detto. E infatti dice subito: “il suo aspetto non si difese da me”: Brunetto non poteva essere reticente con me, il suo volto, pur cotto, non difese la conoscenza sua al mio intelletto. Dante sa fin da subito che si sta muovendo in un terreno minato che è quello del si dice e non si dice, e che riguarda sicuramente l’aspetto morale che è in gioco nel canto, ma che riguarda anche tutta l’esistenza che è sempre un po’ un dramma tra quello che si dice e che non si dice, tra la reticenza e la non reticenza. Allora da una parte abbiamo l’amicizia che però si sta delineando come un’opposizione… Qualche giorno fa leggevo il Don Chisciotte per scrivere una prefazione… È un centenario importante della prima pubblicazione. A un certo punto in questo romanzo straordinario (che non ci sarebbe stato se non ci fosse stata la letteratura italiana, poiché è pieno di riferimenti) Ronzinante, il cavallo di Don Chisciotte e il mulo di Sancho fanno amicizia, e lì c’è una citazione di Brunetto Latini, viene detto come una sorta di proverbio, che viene da un pezzo del Tesoretto in cui si parla dell’amicizia tra gli animali, come grande emblema delle possibili amicizie degli uomini. Anche il Chisciotte è un grande romanzo giocato sulla reticenza: si può dire o non si può dire che quello è matto? Si sta dicendo la verità oppure no? Dante incontra, anzi viene fermato, come bloccato, perché è lui il primo ad essere conosciuto “fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!»”: quel viso non si difende, non è reticente, non può essere reticente ed inizia quindi il dialogo. “Siete voi qui, ser Brunetto?”, dove è chiaro che l’accento è messo subito sul “voi qui” che accende subito una grande scena. “Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com' uom che reverente vada”. Subito Dante dice che non osava andare al suo livello, anche se questo è uno scendere, e sembra una sorta di paradosso. Dante non scende, però con il capo fa questo gesto di riverenza. E qui dice subito la questione del canto: l’amicizia e l’opposizione. Questa tra Brunetto e Dante è subito fotografata con uno zoom che va sugli elementi di amicizia-opposizione. Brunetto dice subito “Qual fortuna o destino”, quindi non sono due sinonimi, c’è una “o” che è il centro dell’opposizione che vorrei sorprendere: è fortuna o destino? “anzi l'ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra 'l cammino?”, domanda che Dante ha fatto rimanere in sospeso, non c’è risposta. Tenete conto che Brunetto Latini è il primo grande letterato in volgare a cui Dante parla. Il poeta della Vita Nova sa che sta giocando una partita importante in questo dialogo, al di là delle questioni personali, sono due mondi culturali che si stanno trovando, due universi che dialogano ed è sorprendente che alla domanda che questo letterato fa circa il maestro, Virgilio, Dante non risponde, è reticente ancora, è una strana reticenza. Perché Dante non risponde a questa domanda, che motivo c’è? Il motivo potrebbe essere o un sommo rispetto, come uno che dicesse non ti dico chi è il mio nuovo maestro, potrebbe essere che, uno che incontra il vecchio maestro non voglia dirgli chi è il nuovo, per non dire “non ho più bisogno di te perché ho trovato altro”, come la possibile forma di un estremo rispetto; oppure, e qui vengo alla questione più importante, voi sapete che Dante chiama Virgilio “ll mio autore”. La vera questione è che per Dante Brunetto Latini non è un autore; Brunetto Latini è un compilatore, è soprattutto questo. Dante sigla una differenza tra sé, il suo nuovo maestro e il suo vecchio maestro non tanto nel campo della morale e dei comportamenti, la grande differenza è che Brunetto appartiene a un certo tipo di letteratura da cui Dante si è staccato. Dante dice io non sono più quello, si è staccato e dice “vado dietro ad un autore” che non a caso è Virgilio, un grande poeta. Non dicendo chi è il nuovo maestro Dante dice che il nuovo maestro è quello che tu, Brunetto, non eri. È come se dicesse: “Ho trovato qualcosa a cui io sto assomigliando e mi sto distaccando da te che non sei più me”, “sei stato il mio maestro ma non sei il mio autore”. La parola “autore” è una parola tremenda, lo dico sempre anche quando parlo ai giovani poeti, è tremendo quando tu diventi un autore, ti mettono nelle antologie, ti traducono i libri, come a me capita, e poi ti mandano una lettera con “Gentile autore…”. La prima volta che pensai questa cosa qui dicevo “ma la parola autore è una parola fantastica”… È auctor, una parola che ha dentro l’autorità, che ha dentro il termine “aumento”. Uno è auctor perché aumenta la vita degli altri. Tutti fanno a gara per essere autori, pensano di esserlo perché entrano nelle enciclopedie… Ma il vero autore è colui al quale gli altri riconoscono che la sua autorità aumenta la loro vita, quindi è una responsabilità enorme. Dante dice: Virgilio è il mio autore, Brunetto Latini è stato il mio maestro, e c’è tutta la differenza. C’è un bel libro che mi hanno consigliato e regalato molto tempo fa, è di Zygmunt Baranski, un grande professore che dedica un libro di studi danteschi che si chiama “Dante e i segni”. È composto da una serie di saggi dedicati a Dante lettore e mi pare importante riprenderlo visto che Dante è un grande lettore di Brunetto. Il fatto simpatico è che Baranski dedica questo libro al Manchester United, la sua squadra di calcio… Lo dico perché qui si parla sempre di amicizia, con Brunetto si parla di amicizia e certe cose tornano stranamente e questo autore fa una dedica finale, un elenco di nomi e dice “so benissimo che il libro non lo leggerete, comunque spero che la dedica almeno vi farà sorridere”, dice “dedico questo libro agli amici del calcio con cui vivo la mia vita” e poi fa una serie di nomi Adam, Alan, Alex… Tutti i nomi dei suoi amici tifosi del Manchester United… In un capitolo del libro Baranski ricorda San Bonaventura, altra grande lettura dantesca, che divide gli scrittori in 4 categorie: chi scrive le cose degli altri; chi copia; chi scrive le cose degli altri aggiungendo qualche cosa ma non staccandosi più di tanto e chi ha materiale principale proprio che aggiunge comunque a cose di altri; e poi la quarta che non ha niente di altri e il materiale principale è suo. Questa è quella degli auctores. Dante sa di essere di questa razza, lo sa e lo dice in questo canto più volte. Ora Dante, lo dice Baranski che tiene per il Manchester e c’è da fidarsi di ciò che dice, nella Commedia non cita tanti enciclopedisti eppure nella cultura del suo tempo erano molto importanti. Come mai dedica così poca attenzione agli enciclopedisti che pure erano tanto importanti? Evidentemente comprende che l’argine su cui sta camminando lo sta conducendo in un’altra dimensione, su un’altra sponda. Infine, l’opposizione principale, se una è tra detto e non detto e l’altra è quella tra auctor e il compilator enciclopedista, è quella che si gioca tra fortuna e destino. Le prime due parole: fortuna o destino? Una piccola parentesi ancora sugli enciclopedisti. Giustamente Baranski, iniziando il suo libro, ci ricorda una cosa: noi parliamo sempre di Dante ammirati per la sua grande cultura, la sua grande forza di citazione, ma quest’uomo non ha vissuto la sua vita nelle biblioteche. È uno dei tanti elementi quasi sciamanici della vita di Dante. Permettetemi, c’è un libretto che vi consiglio di leggere, è di un autore che si chiama Averincev, di cui forse avete sentito parlare, un libretto che si chiama “Atene e Gerusalemme” che è diventato addirittura un modo di dire, è un libretto di poche pagine pubblicato da Donzelli… Che c’entra direte? È che voglio definire bene il concetto di auctor e di compilator. In questo libretto Averincev fa una disamina storico-critica importante, attenta, per dire: quando noi parliamo di letteratura normalmente pensiamo a quel fenomeno che ci viene dalla tradizione ellenica, cioè l’autore è uno che si qualifica come tale perché ha una vita votata all’arte, alla scrittura, al testo e ottiene in qualche modo una posizione nella biblioteca. Sei un autore in quanto non sei un altro autore, ciò che ti definisce autore è il fatto che ottieni una posizione nell’arena degli auctores, una tua casella, una tua scheda, direbbe Péguy, e questo ti qualifica come autore. A questa qualifica si accompagna un forte senso di proprietà dell’opera, l’opera è tua e in genere fin dalla cultura ellenica l’autore si sente un po’ incompreso dalla società. E, dice Averincev, quando noi pensiamo alla letteratura pensiamo a questo tipo di fenomeno che ci viene dalla tradizione ellenica e che noi abbiamo sempre letto come se fosse il compimento delle grandi letterature precedenti. Sapevamo che c’era qualcosa anche prima da altre parti (tra gli Ebrei, gli Indiani, da Gerusalemme a Est) però abbiamo pensato, che la letteratura “alla ellenistica” rappresentasse il compimento di tanti altri tipi di scrittura che selvaggiamente, arcaicamente c’erano in giro. Poi ci siamo accorti, grazie a certe scoperte filologiche, e al fatto che la lettura critica è andata avanti, che probabilmente le altre esperienze semplicemente non hanno niente a che vedere con quell’esperienza di letteratura, sono “altre”. Le grandi saghe indiane, le grandi pagine bibliche, sono un altro tipo di scrittura, altri tipi di autori che semplicemente non sono la parte barbara che poi si è sviluppata fino alla misura ellenica, non sono sottosviluppate rispetto al fiore, ma sono un’altra cosa, un’altra realtà che noi impropriamente chiamiamo letteratura in quanto sono fenomeni molto diversi. Averincev dice, con un’espressione molto semplice: è difficile comparare Ezechiele a Sofocle, ma Ezechiele per il suo popolo era un autore. E si dice: i Salmi di Davide (e Davide era l’autore principale per Dante, come per Petrarca, era l’autore con la a maiuscola) si dice comunemente “i Salmi di Davide” ma, come probabilmente Dante già sapeva, l’autore non è Davide solo, non c’è una proprietà d’autore del signor Davide il Re. L’autore in quel tipo di cultura fondava la sua autorevolezza non tanto sulla proprietà dell’opera, sulla firma, ma sul fatto di appartenere e di esprimere un popolo o qualcosa di valevole, profetico per il popolo. L’autore in quel caso era il profeta, il pazzo del villaggio, il posseduto. Dante è come l’autore che si colloca in mezzo a queste due grandi aree, dell’autore ellenico e dell’autore mediorientale. Dante è un po’ uno ma è anche un po’ l’altro, sappiamo che in lui c’è qualcosa di inspiegabile, un principio di autorevolezza che non è direttamente riconducibile alla letteratura, alla storia letteraria. È un fenomeno, dice Baranski, un po’ incomprensibile come quest’uomo abbia potuto scrivere la Commedia girando in esilio, non avendo come noi né internet né biblioteche a disposizione eppure mostrando questa comprensione, questa espressione del suo tempo. Dante sa di essere un auctor che non è appena il bravo scrittore, non è il nostro “secondo in classifica del Corriere della Sera”, ma è un auctor che ha coscienza di avere un’autorevolezza che non è appena quella letteraria. E infatti dice che la Commedia l’ha scritta per trarre via la gente da una vita infelice. Quale autore della letteratura italiana oggi avrebbe questo scopo nell’opera? Siamo in pochi, forse quasi nessuno… Eppure Dante dice che il suo scopo è quello, non è avere un posto nella Garzantina. Infatti il suo modello è Davide, che era uno che ballava nudo di fronte all’Arca, e non aveva come scopo quello di partecipare al Premio Strega… Insomma, tutto questo per dire che il problema dell’auctor su cui ci stiamo trovando è un problema capitale. Dante sa benissimo che qui sta ponendo una frattura, egli dice: “io sono un’altra cosa rispetto a te, ti voglio bene, caro Brunetto ma sono un’altra cosa rispetto a te!”. L’altro elemento, dicevamo, è quello dell’opposizione tra fortuna e destino, è l’altra grande differenza. In tutto il canto c’è come un dialogo di due che stanno parlando della stessa cosa ma non la intendono nello stesso modo. Perché tutti e due parlano della riuscita, se usiamo un termine umanistico e contemporaneo, tutti e due stanno parlando della riuscita di Dante. Brunetto è come se dicesse: “tu sei uno che hai un grande destino, io lo so, anzi, mi dispiace esser morto perché se ero ancora vivo ti davo anche una mano”, più o meno così dice; “quei fiorentini maledetti, lasciali perdere, ti odieranno, poi alla fine tutti e due gli schieramenti…” .
Però Brunetto è come se si muovesse all’interno di quello che per lui era l’orizzonte: per lui la riuscita dà l’eterno, ovvero la fama. È la parola con cui si chiude il canto: la fama. La riuscita per Brunetto dipende dalla fama; in questo senso Brunetto sembra quasi anticipare l’idea dell’uomo di tipo umanistico e poi rinascimentale. E si adombra l’uomo moderno. Qui si capisce che Dante ci sta e non ci sta a questo gioco. Lo capiamo non tanto perché apre una discussione teologica su questo tema ma dice: “io tengo a mente quello che stai dicendo in questo testo, lo chioserò, lo chioserò in un modo come Beatrice capirà, per dirlo a Beatrice”. Questo è il punto che a me di più ha colpito, l’opposizione tra l’idea di fama o di fortuna, e quella di destino, questa grande opposizione tra l’uomo come Brunetto, che conta per la propria riuscita sulle proprie forze e sulla propria capacità, e l’uomo Dante che sa che il proprio merito sta nell’elezione, nella scelta, nella vocazione, si potrebbe dire, cioè che “la mia riuscita sta nel compiere una scelta che viene fatta su di me, non nelle mie forze”. La grande differenza è questa: la fama acquistata da Brunetto con il ben fare, “siccome farai bene ti odieranno” è garanzia di eternità; Dante invece pensa che sì, c’è il far bene ed è importante, ma c’è anche qualche cosa d’altro in gioco. La riuscita, “l’etternarsi” della mia vita non sono garantite se faccio bene qualcosa che mi rende famoso. È straordinario il fatto che questo dialogo avvenga all’Inferno, dove il maestro del far bene viene punito, dove è in colpa. Questo grande dialogo sulla riuscita della vita avviene in questo teatro straordinario dell’eterno e Dante sta dicendo “sì, la riuscita della vita è quello che tu mi hai insegnato, che tu mi hai detto: ottenere la fama, il ben fare, le opere, ma per me c’è qualche cos’altro in gioco”. È il tema  dell’elezione, della vocazione, della grazia. Dante da solo non ce la farebbe a fare il suo viaggio, sa benissimo che ha bisogno di un altro intervento. Mi colpisce, mi piace, il fatto che Dante ad un certo punto dice: “Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo”, prima ha detto che ha anche già sentito dire queste cose e dice dopo “Non è nuova a li orecchi miei tal arra”. Insomma altri mi hanno già fatto questa profezia, me lo hanno già detto altri che io sarò un uomo fortunato, riuscito, però questo è il testo vostro, e io ho delle chiose al testo, “e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s'a lei arrivo”. Dante dice che la riuscita della sua vita è una grazia che ha ottenuto nell’incontro che ha fatto con Beatrice, perché è quello il miracolo che gli è successo, ed è quello il miracolo che non vuole perdere. Dante si mette in moto perché Beatrice è morta, pensando: “allora dov’è quello che mi bea la vita, dov’è la riuscita della mia vita, se scompare, se lei muore, allora il motivo per cui la mia vita è beata, cioè la riuscita della mia vita non c’è? Dov’è? Come faccio a rivederlo? Come faccio a non perderlo? Come faccio a non perdere questo incontro che mi salva, che mi bea?”. Dante sa benissimo che il motivo della sua riuscita non dipende solo da lui ma dipende dall’aver incontrato Beatrice. Per Brunetto invece tutto questo non esiste, Brunetto è dentro un’etica della volontà e del ben fare. Qui è interessante quel “lo chioserò con altro testo”: la chiosa non è appena il commentino, dalle chiose è nata la letteratura italiana. La chiosa sembra un’azione modesta, in realtà è un’azione dirompente, ed è interessante che Dante pone questi grandi termini del dibattito tra fortuna e destino quasi come in una sorta di consueta scena scolastica di discrezione, sapendo che la chiosa è però qualcosa che conserva, smonta e fa ripartire il testo. Ora qui, secondo me, è la grande questione, il grande fuoco di questo canto, questa opposizione che, lo avete notato, avviene dentro un accoramento. È uno di quei casi in cui Dante s’accora, come capita anche in altri momenti, “se fosse tutto pieno il mio dimando, rispuos’io lui, voi non sareste ancora de l’umana natura posto in bando” e qui la parola “bando” riguarda la natura umana, cioè la morte, in questo caso l’interpretazione più corretta mi sembra questa, “se la mia preghiera fosse stata esaudita voi non sareste morto”. Credo che sia questa. Però il lettore curioso dice: sì, della natura umana posto in bando, siamo nel girone dei violenti contro natura, stiamo parlando probabilmente anche del suo peccato. Qui inizia quella sorta di accoramento per la sorte dell’altro. Insisto, è come un grande teatro, Dante sta parlando della riuscita della sua vita e in quel momento si accora per la condanna della vita dell’altro, quindi i movimenti che ci sono in questo canto sono molteplici. Non vale appena una spiegazione per cui Dante dice: “io sono autore diverso dai compilatori e quindi trattatemi con rispetto e quindi, sì, parlate pure però io ho una chiosa”. C’è un accoramento, come accade altre volte nella Commedia, per il destino dell’altro, per il destino di chi gli sta parlando. Dobbiamo tenerlo presente come clima; la Commedia è un grande teatro! Un po’ di tempo fa mi chiamò un produttore televisivo di Roma, (voi sapete che è stato sempre il sogno di tutti i cinematografari fare la Divina Commedia al cinema; poi dopo che hanno fatto “Shakespeare in love” gli italiani hanno avuto un moto di rivincita: cavolo, abbiamo dato le colline toscane per fare Shakespeare, quando facciamo Dante? E quindi ci sono tutti i ragionamenti, le discussioni, i traffici su questa cosa e credo che un esito sia anche che Benigni sta facendo un film su un poeta in Iraq in cui c’entra Dante in qualche modo). Mi chiama dunque questo signor produttore di cui non svelo il nome, ma è quello che produce “Un medico in famiglia”, per dare l’idea della forza produttiva di questo signore che è, tra l’altro, molto simpatico e mi dice: “tu sei un poeta, mi piacerebbe sentire qualche idea di un poeta per fare un film, una fiction su Dante”. Io gli dico un’idea molto semplice, cioè che sorprenderei la storia di Dante prima della Commedia. Far la Commedia al cinema, sai, pur con gli effetti speciali diventa una cosa ridicola. Devi prendere Dante prima, da giovane, con questi “fedeli d’amore”, questi ragazzi, Cavalcanti e gli altri che scoprono e si interrogano ciascuno a suo modo su cosa è l’esperienza d’amore, l’incontro con la donna etc. E prendere Dante a questa altezza biografica significa l’incontro con Beatrice. Poi dico al signor produttore che Beatrice muore; e lui sbianca… Dice: come Beatrice muore?!!!… E io: Dante ha scritto la Divina Commedia perché Beatrice è morta. Non se lo ricordava! E si è appoggiato alla sedia e: “non se po’ fa!”. Se muore prima di cominciare non c’è storia… Questo appunto indica il problema: Dante è uno che si è perso nella selva perché ha perso il miracolo che aveva dato un’ipotesi di “riuscita” alla sua vita. Dante incontra in Beatrice ciò che bea l’esistenza, il miracolo, e questo miracolo si spegne, muore e allora in lui qualcosa urge: “io devo rivederlo, devo riguardare questo miracolo che non può essere perso altrimenti la mia vita non può avere riuscita; anche se mi do alla filosofia, anche se mi do al ben fare, a quello che Brunetto mi ha insegnato, io so che la mia vita non potrebbe essere davvero riuscita”. L’uomo che incontra Brunetto è un uomo che ha fatto questa esperienza. Giustamente Eliot che ho citato all’inizio e che è un grande lettore della Commedia dice che Dante è uno che prende sul serio l’esperienza che ha fatto, per questo la scrive. L’uomo che incontra Brunetto all’Inferno è un uomo che ha questa coscienza. Dante mette in scena nel teatro impressionante dell’Inferno questa cosa, l’opposizione si compie a questo livello. Come dicevo prima, è un canto sull’opposizione e sulla reticenza, e se all’inizio Brunetto non può essere stato reticente intorno a sé, si trova con un uomo che non sarà reticente su di lui. Dante mette in piazza il peccato di Brunetto, ed io mi sono sempre chiesto il perché lo faccia, pur sapendo che avrebbe fatto discutere. Dante era anche un maramaldo per certi aspetti, era uno che sapeva vendersi, si potrebbe dire oggi, sapeva che nessuno dei contemporanei aveva mai accusato Brunetto di questa cosa e se andate su internet trovate almeno 150 siti gay che parlano di Brunetto Latini e tutti hanno una tesi sola e dicono: “d’accordo c’è la condanna all’Inferno, ma in realtà l’onore che circondava persone e Maestri come Brunetto Latini dimostra che Dante e la società del tempo non erano omofobi, non ce l’avevano con l’omosessualità”. Non è vero che non ci fosse un’accusa contro l’omosessualità, però l’importante è cercare di capire perché Dante realizza il suo incontro qui; se voleva poteva metterlo da un’altra parte all’Inferno! E allora torniamo ad una certa questione: qui si parla di violenza contro natura, e anche su questo mi sono interrogato. Noi siamo più pruriginosi di Dante e dei medievali e leggiamo il peccato di sodomia appena legato alla sfera sessuale, come se fosse un disordine sessuale, quindi siamo più pelosi nel leggere il fenomeno mentre Dante mette questo peccato in una grande cornice, gli dà una grande dignità, pur se le parole con cui lo accusa, sono fortissime: “lerci”. Altro che sostenere che Dante non lo colpevolizza… Ma come non lo colpevolizza!… Un poeta usa “lerci”, e sa che sta dando una mazzata, non sta dando di fioretto. Però il problema non è solo questo, il problema non è solo se Dante accusa o non accusa, è che Dante mette questo peccato in un grande teatro che è quello della violenza. Spesso ce lo dimentichiamo. Poco prima abbiamo i violenti contro Dio e Capaneo è un grande personaggio. Accade che spesso leggiamo questi personaggi togliendo loro dignità perché togliamo dignità alla natura del peccato, mentre Dante non toglieva dignità alla natura di quel peccato. Non era un borghese vittoriano, un benpensante moralista: questa è una violenza contro natura, cioè è una grande questione e non c’è scandalo e reticenza ad associarlo a una figura che ha fatto della grandezza la sua scommessa. Brunetto Latini è uno che finisce, come tutti i grandi personaggi danteschi, con una fotografia di sé nell’aldilà che dice qualcosa di essenziale di sé nella vita; urla ancora: “io voglio la fama!”. È morto, cotto, arrostito ma correndo via chiede a Dante: “parla di me, assicurami la fama”. Chiede quello che in vita ha sempre chiesto e Dante in questo vede una grande dignità, per cui non sente, come noi sbagliando possiamo sentire, una sorta di distonia e di sfregio nell’accusarlo di un peccato così: perché è un grande peccato!

W.M. – Questa è una situazione che già si era verificata nel V canto, il canto di Paolo e Francesca, questo senso di solidarietà!

D.R. – Sì giusto! Ma non è una solidarietà buonista, non è tenerezza, perché Dante non è uno che scommette sulla tenerezza, è uno che scommette sull’amore che è molto diverso dalla tenerezza, perché mentre “amor” “move il sole e l’altre stelle”, la tenerezza muove pochino e per poco tempo. Dante mostra la figura di un uomo che ha cercato di essere grande ed è andato anche contro natura, ha fatto un peccato contro natura e non “appena” contro le leggi del tempo, contro le consuetudini, contro il buon senso. Il nostro misunderstanding, cioè la nostra lettura banale, nasce perché siamo un po’ moralisti e un po’ sessuofobi, e ci sembra di macchiare il personaggio. Per Dante era sì una macchia, ma era analoga, della stessa grandezza della sua aspirazione. Alla fine torna una grande reticenza e si dice: “Saper d'alcuno è buono; / de li altri fia laudabile tacerci, / ché 'l tempo saria corto a tanto suono. / In somma sappi che tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama, / d'un peccato medesmo al mondo lerci”. E poi fa i nomi di questi due personaggi (forse avete chiamato me per questo) Francesco d’Accursio e Prisciano, due dei bolognesi che non fan mai una gran figura all’Inferno (ma io sono di Forlì, romagnolo doc, un altro mondo)… E aggiunge: “Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone / più lungo esser non può, però ch'i' veggio / là surger nuovo fummo del sabbione”… Da una parte questo clima di reticenza, che ha tanti significati, concorre a dare intimità a questo dialogo dove si dice e non si dice, dove ci sono due persone che hanno una grande familiarità eppure non si intendono sulla cosa più importante. È questo il dramma che va in gioco: tu sei il mio maestro, sei stato il mio maestro ma non mi intendi più, non sono più quello che hai prefigurato. È un dialogo di grande intimità ma è al tempo stesso un grandioso scontro, uno scontro in cui finalmente la morale torna ad essere non appena un fervorino sugli usi e i costumi ma la conoscenza e la tensione su ciò che fa la grandezza dell’uomo. Perché la morale è qualcosa che appartiene alla possibile grandezza dell’umano e Dante sa che la grandezza dell’umano si documenta specialmente nell’azione di qualcun altro; coincide con l’azione di Dio, la grazia, il miracolo che qualcun altro opera. Mentre invece per Brunetto la fama, la riuscita umana si ottiene grazie alle proprie forze. E noi, noi cosa pensiamo, anche di fronte al tremendo spettacolo di tanta gente che “non ce la fa”, che senza nessuna fama consuma i propri giorni tra dolore e ricerca del bene, cosa pensiamo, che la vita “si etterni” solo grazie alla “fama”? Dante è più democratico, sa che l’uomo, ogni uomo che si riconosce legato a Dio può gustare l’eterno e iniziare a gustarlo già qui, ora: “Miracol da cielo in terra”. I due non si intendono più, Dante sta facendo un altro cammino, sta facendo un’altra strada che lo porterà in quella grandiosa visione finale, che non è vedere Dio, perché Dio non basta. Una cosa che mi ha sempre segnato della Commedia è che Dio, se così si potesse dire, non basta, perché Dante vede Dio ma se fosse così arriverebbe a quello che pure dicono tanti, ma perdendo la fede. Perché dicono: c’è Dio ma Beatrice non c’è più. Questa affermazione positiva e questo dramma esistenziale portano a quel cortocircuito per cui uno cosa fa il più delle volte? Manda a farsi spendere Dio. Se Dio c’è e Beatrice non c’è più, Dio mi fa arrabbiare. Come un Dio cattivo, o inutile. La Commedia infatti non finisce con Dio ma con il mistero dell’incarnazione, finisce con un’altra cosa. È il punto in cui, con una grandissima metafora erotica, Dante spegne il suo cinema, il momento in cui vede la nostra immagine dipinta, il fatto che dentro Dio è entrato l’umano e viceversa, che è l’incarnazione. Per questo Beatrice “c’è ancora”, perché Beatrice è qualcosa di umano che Dio ha preso con Sé nella sua incarnazione e resurrezione. E dunque nulla dell’umano è destinato ad essere zero, anzi, Dio ha conferito possibile valore infinito. Questa è la questione per cui Dante conoscerà il suo compimento. Per Brunetto non avrebbe potuto essere quello. È il motivo per cui qui, e come capita in molti altri canti della Commedia, in una scena piccola sta andando in scena tutto il grande spettacolo della Commedia.
 
 W.M. – (Sapevamo chi chiamavamo! Bravo!) Bene, apriamo un po’ il dibattito perché Davide ha detto cose così interessanti che non vanno perdute, io credo. Quando Dante dice “di ora in ora mi insegnavate come l’uom s’eterna” non c’è anche il trionfo della bellezza estetica che c’è in certi personaggi del genere? Adesso sto pensando ad Oscar Wilde, a Luchino Visconti, cioè alla religio, in senso laico naturalmente, alla religione del bello, ovvero al culto dell’estetismo, dell’estetica, del bello?

D.R. – Sicuramente c’è tutto questo… Più che la religio dell’estetica in senso ridotto come “massaggio di emozioni” come la intendiamo noi normalmente, c’è il fascino che Dante sa di provare per la bellezza e che dice a ogni pie’ sospinto. Lui capisce che la vera partita dell’uomo è l’eterno, non è meno. Dante lo sa. Lui sa benissimo che la sua partita personale e quella dell’uomo è quella che si gioca con l’eterno, come domanda, come aspirazione. Hai fatto bene a ricordarmelo, purtroppo non mi sono fermato su quei versi, ma sono così in mente che mi suonavano lo stesso: è chiaro che il gran fascino di Latini era che viveva la stessa scommessa. Brunetto aveva fatto la stessa scommessa di Dante, in questo senso rimane maestro, e la sconfessione di Dante rispetto a Brunetto non è su quale è il campo, ma è sul metodo, perché la questione della grazia è una differenza di metodo e non di scopo. C’è un poeta francese che amo e che si chiama Péguy che dice: “Ci sono quelli che poiché non amano più nessuno pensano di amare Dio”… In questo senso è interessante il verso che dice “ad ora ad ora come l’uom s’etterna”. Questo “ad ora ad ora” può essere l’insegnamento di Latini, il suo paziente insegnamento, ma anche il fatto che l’uomo è chiamato a eternare e a eternarsi i particolari “ora e ora”, e non solo nell’estetismo di un particolare momento, in una particolare facie dell’umano, ma in tutto. Dante sa che Brunetto ha fatto la sua stessa scommessa. Dice: “La mia risposta è differente”, però la partita è la stessa!

W.M. – Poi c’è un altro motivo di complicità: Brunetto Latini che era il consigliere particolare del re di Spagna, gli ha fatto conoscere il libro delle “Mille e una notte” e quindi gli ha fatto conoscere il viaggio nell’oltretomba di Maometto su cui poi Palacios ha fatto tutta quella polemica… Un po’ smentito dagli studiosi arabi…

D.R. – Smentito dagli studiosi arabi sì, perché alcuni dicono che Palacios ha inventato… Non sono uno specialista, ma ricordo che in Marocco, a Rabat, c’è un dipartimento di studi italiani e danteschi, ero lì a fare una lettura di poesie e chiesi di quest’ipotesi a un giovane ma già affermato professore e lui disse che è più fantasiosa che reale… La critica poi ci ha costruito sopra tanto…

L.C. – Come sempre vi invitiamo a intervenire…

PUBBLICO – Ogni volta che lo leggo io rimango meravigliata, io l’ho letto a scuola, sono soltanto ragioniera… Avevo 9…

D.R. – Beata lei solo… Io ci metterei la firma…

PUBBLICO – Come ha fatto Dante a scrivere questa cosa meravigliosa, grandiosa?

W.M. – Ci sono dei personaggi che non perdono un minuto della propria vita, Dante ha scritto quel che ha scritto, ha viaggiato in lungo e in largo, ha fatto la guerra quando era giovane, ha fatto il priore a Firenze… Sono quei personaggi che riempiono la loro vita in modo totalizzante…

D.R. – Le posso rispondere con una poesia? No, non una mia, una mia la leggo alla fine, quando siete andati via… Leggo una poesia del Papa Wojtyla, Voi sapete che il Papa era un buon poeta e c’è una poesia che forse risponde a questa questione ed anche ad altre cose che abbiamo toccato. È il secondo movimento di una poesia più lunga e il titolo è “Una vecchia conversazione da cui estraggo ora qualche frase che mi è rimasta in mente”. Titolo molto prosastico, e dice:

Tralasciamo tutto questo, nell’uomo –
– Ma non è facile farlo:
quando questo strano mondo profondo con lui incrocia lo
sguardo,
quando sotto le dita vibra il polso affannato,
quest’insieme di cose non diventa per te una testimonianza
oculare
che nel suo passo stanco le strade scorrono troppo in fretta?

È bello questo: sì tralasciamo tutto, ma ogni tanto, non ti pare che l’uomo sia fatto per l’eterno e le strade scorrono troppo in fretta sotto il suo passo?

Eppure, sulle strade egli ha un suo ritmo
che di continuo lo bracca e lo distrae dal suo lavoro più profondo,
ed a metà lo rivela, a metà lo lascia in ombra
– non dire che, come linea d’orizzonte, esso sempre lo allontana
dalla sua grandezza, chiusa nello stretto dei giorni.
Quel ritmo tutto lo avvolge come un vasto contorno
e non potrai strapparglielo. In lui è troppo radicato.

La nostra conversazione prosegue fra sofferenze crescenti.
Quando dici che troppo si soffre per un’essenziale
trasformazione,
e che l’uomo si desterà infine nelle profondità del suo lavoro
più duro –
oh, come hai ragione,
io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di
«visione».
È una poesia apparentemente difficile! Ma è vero, l’uomo d’oggi soffre soprattutto per mancanza di visione.

W.M. – Io voglio ricordare un fatto che pochissimi hanno notato: siamo stati tutti attaccati alla televisione per giorni interi in occasione della morte di questo Papa, e continuamente i servizi televisivi partivano con la bara di legno sulla quale era deposto il Vangelo. Quel giorno c’era un vento tremendo, se ve lo ricordate, e continuamente le pagine venivano girate. Nessuno s’è ricordato che c’è una poesia di un certo Pascoli che si chiama “Il libro” in cui vi è la storia di quel vecchio saggio che continuamente cerca nel libro della verità, cerca il mistero della vita e delle cose e c’è il vento che scompiglia continuamente le pagine e gli rende impossibile il ritrovamento! Ecco, al di là di tutto il delirio mediatico a cui abbiamo assistito e che forse ha dato un po’ fastidio a tutti noi, c’è questa realtà, il vento, la forza della natura che scompiglia le pagine della vita, della storia, dei destini umani. Forse è stato questo il momento più emozionante di tutti quei giorni che abbiamo trascorso.
Comunque… Qualche altra domanda?

PUBBLICO
– … Se ci fa sentire qualcosa di suo…

D.R. – Di mio? Ma non siete qui per Dante? Ci tocca? È scritto nel contratto che bisogna leggere? Vi leggo solo una poesia che può avere a che fare con il tema. Una poesia scritta di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, dove vado ogni tanto per delle letture di poesie. Si intitola “Oceano cucina”. È una poesia in due movimenti:

I
Verrebbe da dire: me la sono cavata,
fermo stanotte al tavolo della cucina
mentre qui intorno nelle migliaia di appartamenti

come strani cunicoli sospesi per aria, dormono tutti
e l’argento della pioggia finisce nel buio.

Verrebbe da dire:
me la cavo con l’affitto e sorrido ai miei debiti, ma
cos’è ancora questo vino luminoso
e violasangue che mi esce tra i denti,
le notizie come stelle terribili in mente

non si dissolvono i fantasmi d’amore seduti,
la luce sale, li sbianca, sono il viso
di donne, le mani di stracci, carta pesta
e amici che si voltano nell’acqua degli anni.

Il mio amore non sta ancora fermo,
mi alzo ed esco in terrazzo, il cuore è un puma
sulle alture, ho gli occhi di mio figlio,
stanotte è la prima notte del mondo.
 
II
Verrebbe da dire: me la posso
cavare. Ma una volta mi fermai
sul molo di Stone Island
in un mattino splendido, ghiacciato
nel mezzo della corsa
della mia esistenza e sentii

tutta l’oscurità del mare,
l’enigma, il suo respirare

che arriva in questa cucina, in una città
italiana, nel silenzio spogliato,
ed è il vibrare del frigorifero
a trovare la stessa nota dell’oceano,
la luce del video

acceso a nessuno
rende a queste stanze un chiarore di fondale.
Verrebbe da dire: me la sono
cavata, ma non è mai detto e non è
nemmeno giusto da dire
se l’infinito un giorno

e molti giorni in una vita
ti viene a visitare.

Il canone come una passerella.

Davide Rondoni

Il cosiddetto canone, o come qualcuno vuole chiamarlo in modo più mobile, un poco più plastico e visionario, meno accademico, costellazione, è uno strumento. Se non lo si intende come tale,  strumento di orientamento e di verifica che la tradizione offre alla affamata e libera febbre delle nostre preferenze, diviene una sorta di norma. O peggio di gabbia. Di galleria dei busti onorevoli. Tutte cose che in arte sono inutili, quando non dannose. Sicuramente ridicole. La poesia vive di gratuità e di presente. Ogni forma e configurazione della tradizione, del traditum, ottiene il proprio valore, e la propria splendente commossa giustizia, nel momento in cui diviene buona legna per il fuoco presente, quando nutre, non quando rivendica onori e orpelli. Senza il canone sarebbe più difficile uscire a far legna. O per giungere all’unica decente definizione che mi viene, stimolato a pensare su queste cose, sarebbe più difficile arrivare al mare.
Il canone è una passerella.
Intendo quelle strisce di cemento o a volte in legno che ci conducono in spiaggia e che servono per arrivare più prossimi al mare. Sono stese per levarci il fastidio del caldo, per permetterci di camminare guardando il panorama. O anche le tante figure e forme che a volte affollano quei tratti.
Dalla passerella, senza scottarsi i piedi, è più facile notare le spalle bellissime di lei che si gira nel sole, o la corsa di leprotto di un bambino che cerca chissà cosa, o i riflessi dell’acqua sugli occhiali di lui, che vede le nuvole passare.
E così l’immenso, straordinario panorama di opere che gli uomini hanno disseminato, con parole e ritmi, per poter dire quel che urgeva nel cuore loro e che parlava dalle mille e mille figure del reale, può essere meglio ammirato sulla passerella ordinata di un canone. Non si sta sulla passerella per ammirare la passerella medesima. E’ quel che capita del resto a certi autori, che fatti coincidere con la passerella –o chiamatela classicità- subiscono l’usura, la consuetudine di esser lì così sempre sotto i nostri occhi e passi che quasi ce ne dimentichiamo, o dimentichiamo l’enorme debito di gratutidine che abbiamo verso di loro. Poi per fortuna, ce ne accorgiamo,  guardiamo commossi in direzioni dei nostri piedi, vedendo le radici che ci sono sotto,che ci tengono attaccati alla vita, e che ci hanno fatti arrivare fin qui. E se non ci accade di farlo da soli, mossi da una semplice e vasta gratitudine verso il nome di Dante, di Petrarca, di Tasso (accidenti, quanti italiani!) di Shakespeare etc etc, ecco che arriva uno, che se ne va su un’altra passerella e ci manda un grido: “ehi, come va? come sei messo? e che razza di passerella è la tua, la trovo interessante, molto interessante!”. E allora ci ridestiamo, e per così dire, rivediamo dove siamo con occhi nuovi, spostati, felicemente spostati. Quando dalla sua isoletta caraibica arriva Derek Walcot e “imita” Omero ci tocca svegliarci. Come quando arrivò, molti decenni fa, un impassibile americano di nome T.S.Eliot e si mise, sulle orme di un satanasso di nome Ez, a farci vedere che quel Dante Alighieri cavolo! com’era importante per la poesia del Novecento.
    Naturalmente ogni passerella si presta ad essere una male interpretata passerella. E invece di essere una striscia per camminare sicuri in mezzo alla spiaggia e verso il mare c’è chi la intende sempre come una sfilata. Sì, una sfilata di star, o di capi d’alta moda. Accade in spiaggia, e anche in letteratura –che è come una spiaggia, non credo l’ultima- che ci sia qualcuno che fa la passerella come se fosse all’entrata del festival di Cannes, o alle sfilate di Parigi. Come se fosse il suo passo, il suo ritmo e le sue parole a creare, magicamente, la passerella su cui cammina. Sente intorno scattare gli invisibili flashes dei fotoreporter e ha la faccia di chi: “adesso arrivo io”. Ne vediamo di questi tizi, anche se spesso dissimulati in fattezze un po’ blasè da modesti scrittori che scrivono-come-viene…Beh, il canone-passerella sopporta paziente anche quei tizi. Passano, passano anche loro.
    Alla costruzione e distesa della passerella contribuiscono molti fattori. Innanzitutto la fatica dei bagnini (come metafora per i critici non c’è male) che sono molto spesso baristi e bagnini di salvataggio, e che insomma si occupano della vita della spiaggia. A loro, alla loro lena e alla loro cura si deve innanzitutto l’esistenza della passerella. Se hanno fiuto e buone mani faranno un’eccellente passerella. Se i bagnini smettessero di fare il loro mestiere sarebbe più difficile per tutti arrivare al mare. E’ pur vero che ci sono bagnini che si sono costruiti il loro piccolo impero vicino al mare. E per così dire, ti intrattengono nei loro ex-chioschi divenuti ristoranti, bar fornitissimi ect con un sacco di optional, e di comforts. Sono stati previdenti e furbi. Quasi quasi ti fanno dimenticare del mare. Come se tu non fossi arrivato fin lì per lui. Come se in fondo per passare una buona villeggiatura nel mondo si potrebbe fare anche a meno di lui. E’ pieno di giochi, video giochi e altri ammennicoli, che catturano i più piccoli.
Poi certo, oltre ai bagnini, per fare la passerella concorrono un sacco di altre cose. Il tempo, la metereologia. Se il posto dove l’hanno stesa è battuto da piogge e monsoni, quella passerella sarà inutile. Magari bellissima ma inutile. Oggi, ad esempio, penso che la maggior parte di insegnanti nel nostro bello e ferito Paese non sappia più comunicare il valore antropologico dell’esperienza poetica, ovvero a quale livello dell’esperienza umana comune si “attacca” per così dire la necessità della poesia. La spacciano come forma di comunicazione, come genere letterario, o peggio, come sola storia della letteratura. La poesia è anche tutte queste cose, ma non è innanzitutto questo. Se non si rinnova nei ragazzi la scoperta di avere una lingua in grado di accendersi, di tendersi, di ritmarsi in modo diverso dalle mode o dalla sciatteria quando la realtà ci colpisce (un amore, un dolore, la luna, un colore del vento) per i nostri figli la poesia sarà sempre più uno strano difficile ornamento, un passatempo culturale stranamente faticoso, e una comunicazione meno rapida ed efficace di altre. E non c’è canone o passerella che serva a “riabilitare” l’esperienza della poesia quando ne viene annullato il valore, il morso, il legame antropologico.
Se invece si mette la passerella in un luogo troppo trafficato, in mezzo all’assalto di una torma di turisti allora sarà anche in tal caso spesso inutile, e si faranno altri tragitti. Se la costruiscono con troppe asperità, usando ghiaia mal composta nel cemento, o cemento troppo ruvido per i piedi dei bambini e più delicati, anche allora sarà un canone che fa fino ad un certo punto il proprio mestiere.
    Personalmente preferisco le passerelle di notte. A spiaggia deserta, quando le stelle punteggiano la volta e gli ombrelloni sono chiusi come poesie finite. Si sentono i propri passi sulla striscia che è uno dei punti più chiari del panorama. In quelle notti la passerella si vede bene a cosa serve.
Per arrivare più vicino a lui, al mare, a sentirne l’inesausto, il grande respiro.

Poesia e panorama

Nel finire dell’800, sulla scia di tante propulsioni filosofiche e visionarie, tra Rimbaud e Shopenauer, senza dimenticare i passaggi di Leopardi e Schelling, l’opera d’arte è considerata come “la natura che si prolunga nell’uomo come riflessione di se stessa”. Lo ricorda Giorgio Zanetti nel suo lucido, magmatico e dottissimo “Il novecento come visione”. Abbiamo dunque una sorta di partecipazione al paesaggio in cui il panorama interiore ed esteriore si scambiano per così dire il volto e la maschera. Le stellate sospese, le valli, le montagne, il mare, ma anche il panorama di cui la città metropolitana comincia a occupare gli orizzonti, sono vissuti nell’opera d’arte come specchio mirabile, occasione prodigiosa e alterità continua rispetto a cui si esprime il movimento interiore dell’autore. Che sia un particolare elemento del panorama, come il “passero solitario” di Leopardi, o poco più avanti, la visione dei boulevard di Parigi su cui Baudelaire vede “stordito come un pazzo” nello sguardo di una passante “germinare l’uragano”, il panorama che l’Ottocento consegna al Novecento, con un gesto che si prolunga ben al di là delle divisioni dei calendari e delle scuole, e che continua a effondere la sua giustizia e la sua visione, è un panorama sempre eco di armonie o stravolgimenti interiori. Un panorama spirituale, se così si potesse dire, dando all’aggettivo una movimentazione lontana da ogni melliflua fissità e da ogni riduzione pietista.
Nella pagina iniziale dei Promessi sposi, la maestria da urlo di Manzoni ci mostra in un volar di sguardi per valli, montagne, e fiumi che diventan laghi per poi ritornare fiumi, e campagne e borghi, insomma in un zoomare cinematografico prodigioso e pieno di ritmo e di poesia, l’andamento della natura e della storia, ovvero lo scenario dove sta per entrare, col passo “svogliato” di don Abbondio che non sa d’incontrare i bravi, il supremo dramma della libertà umana –vero argomento del meraviglioso romanzo che lasciamo impolverare nelle aule scolastiche e tra le mani gialle di professoresse e di filologi. La natura e il panorama, dunque, arrivano al Novecento per così dire già di tutto carichi del nostro patema e della nostra povera gloria umana. Già hanno raffigurato, evocato, simboleggiato ogni pena e ogni esaltazione. Arrivano nell’arte novecentesca già tutti grondanti d’umano. E ogni panorama –secondo la parola mantra piantata da Baudelaire- sarà una “corrispondenza” con l’anima e i suoi movimenti, dolcissimi o tremendi. Il Novecento –se mai ha un senso, e ne avrà sempre meno, questa denominazione ripartita- eredità questa enorme spettro, questo panorama-anima, questa fusione o anche separatezza ma pur sempre corrispondente. E pare andare verso la sottolineatura della estraneità tra l’uomo e il panorama che lo circonda. Una estraneità dell’uomo a se stesso –come urlava Papini in alcune pagine datate proprio ‘900- che lo fan sentire lontano, estraneo, quasi offeso nell’esser gettato in un panorama in cui non si riconosce. Naturalmente gli uomini della pittura svolgono parallelamente percorsi simili alla poesia e alla letteratura. Ma basterà pensare ad alcuni apici di questa avvertita o problematica estraneità per avvedersi di quella direzione presa, pur stando solo nella nostra lingua: il deserto dei Tartari di Buzzati; il mare fissato dall’uomo pieno di noia di Pavese; la liguria di Sbarbaro che passa in quella meno scabra ma più stupita e scettica di Montale. Naturalmente parliamo di movimenti sconnessi, non lineari, e attraversati da movimenti contrari, addirittura entro le medesime opere di un autore. Pensiamo al panorama delle prime struggenti e accese poesie di Ungaretti. Nella poesia “I fiumi” che s’accompagna a quelle dove schegge di un panorama di natura scabra e di battaglia, egli parla però della scoperta d’esser “fibra dell’universo”, nel contatto con l’acqua del soldato acrobata di un circo in disarmo e poi accoccolato come in una “urna”. O è lo stesso Montale che al mare misterioso e divorante chiede gli “ossi di seppia” come tracce di una vita reale, di un’anima inquieta non tutta consumata dal volgere degli elementi. E per stare ancora tra i nostri grandiosi e sbandati poeti, non è Campana gran camminatore dei boschi di Campigna, tutto immerso e pur tutto “deviante” dal suo panorama ? Ungaretti usò il termine “nomade” per dire di sé, potendo lui fissare però all’orizzonte non il vagare a vanvera di tanto spirito novecentesco (ma ripeto, nostro ancora, e antecedente) ma una vagheggiata e reale “terra promessa”, come negazione di ogni chiusura nel panorama attuale. Certo, il nomadismo può diventare turismo, quando il panorama diviene per l’uomo una sorta di territorio in cui curiosare –anche tra le rovine o le superbie della storia- ma non riconoscere più nulla di sé e nessuna indicazione di destino. Ne avverte il rischio il migliore Zanzotto, che procede nella sua “critica” del paesaggio umano e non umano con nevrosi celeste. Ma l’arte, anche la più estrema di perplessità e di sperdutezza, non può mai divenire turistica. E così proprio sul finire del Novecento, la poesia accesa e nutrita di linfe antichissime e future di un Luzi o di un Kavanagh, di un Walcot o di un Heaney, o per stare più prossimi, di un Mussapi, De Angelis, Cucchi, Pontiggia, Piersanti, D’Elia e pure tra i più giovani Lauretano, Riccardi, Donati, volge al panorama uno sguardo capace di accensioni stupite, di auscultazioni profonde, di dialogo segreto e rivelatore dell’anima all’anima. Del resto, era un panorama quel che aveva negli occhi e nel cuore che stava spegnandosi uno dei primi e più forti dei nostri poeti che alle labbra segnate di dedizione e di amore bruciante lasciò salire una lode. Lui si chiamava Francesco.

 

Due poesie:

Cesare Pavese

Lo steddazzu

L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora  in cui tutto
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo,. Per fare qualcosa, si scalda,
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza
dell’ora è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e ami nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

Mario Luzi

La Grazia creduta irraggiungibile

Si ordina
        si forma
                tra buio e luce
                            dal suo interno, essa
e fuoriesce, miscuglio
di lava e di cristallo,
                    sotto i fulmini
e le iridi della sua tempesta
ed eccola si stende, opacità
prima luminescente,
                    poi compagine
sempre più luminosa,
                    infine
luce-sostanza
            sulla volta abbagliata
del pensiero e della stanza.
                O immagine
del mondo
        ancora accesa
                dalla propria incandescenza
tempestata dai nembi
e dal suo evento –
            la proietta il cuore
non sa per che potenza,
esulta, si sgomenta
sorpreso di quel fiotto
di forza e luce –
            da dove?
non sa dirlo, lo prende
in sé, lo sbilancia,
lo scaglia in forma e canto.

Materia, quella,
creata che prolifera
            ed espande
– per opera di chi? sua?
sua, sì, per mano
di lui gramo – la gloria
umana e celeste del racconto –
                    o caos
                    vivente
in lui, nella sua mente –
si voltola nel tempo, essa,
                rotea
tra creato e increato
generando –
        cosa, Padre,
generando? quegli abissi
di buio e di splendore
che deposita grumoso
o liquido l’indugio
o il passaggio del pennello,
non altrove, lì,
sul muro, su quello schermo.
Ma, dietro, l’incessante
                e in esso
il gaudioso, in esso lo spavento.
O arte che mi illumini il mondo
e me lo rubi
        e mi tantalizzi,
abbi misericordia di me, mi raccomando.

Rebora

Eccoci ancora davanti e sotto il suo martello e la celestiale poltiglia, o sperduto bisbiglio che fa di poesia respiro. Eccoci ancora a Rebora. Più profetico di Pasolini, più violento di Campana. La sua contusione delle parole e la sua profezia ancora ci cercano. La poesia italiana si cerca in fronte il segno di Rebora. Pochi mesi fa un giovane poeta napoletano, meno che trentenne, Valerio Grutt –uno che fa del pop- mi indicava in Rebora un suo primo maestro. Perché lui è uno di quelli che risale dai margini, dai pendii più precipitanti della nostra poesia fino ormai ad occuparne a diritto la vetta. E il suo musaico controtempo anticipa e richiama certe percussività contemporanee, tra rap e svenimenti della lingua. Quei verbi…E quel che Contini non seppe far altro che chiamare “arditissima” capacità metaforica. Ma la sua occupazione della vetta è inquieta e mai assodata, e mai soddisfatta di inutile gloria letteraria, poiché presenza e voce tutta bruciata e accesa di qualcosa di incomparabile ad ogni gloria o fama, di irridicubile a qualsiasi dicorso sullo stile. Rebora viene dopo Rimbaud. Dopo Hopkins. Dopo la loro abiura della poesia come salvezza. Viene dopo di loro e con loro addosso. Porta in scena la smentita assoluta e per ciò stesso la rimessa in gioco di ogni arte della parola poetica. Ha il suo naufragio –come Hopkins, come Moby Dick, come il ragazzo di Charleville. Perché forse è da naufragi che la poesia deve sempre ricominciare. Poesia a contatto con l’assoluto, e che riconosce di non esserne romantica e parziale ombra. Ma benzina. E oscura felicità. Una poesia come “mania dell’eterno”, in un percorso di vita tormentoso e teso.  La poesia di Rebora in quel suo primo tendersi e poi in quel quasi bambinesco ritirarsi vive della medesima precisione vitale, di dramma sentito fin nelle fibre del vivente reale, del farsi e disfarsi della vita. Del corpo e della voce.
Il suo è “mettere a fuoco Dio”. Ha sempre inteso la poesia come la danza del Re Davide davanti all’Arca. Alla moglie Micol che rimproverava il re d’Israele di mostrarsi così nudo davanti al popolo e ai servi, il guerriero e salmista rispose: io stavo ballando davanti a Dio.
Rebora è uomo di visione. Non balla davanti ai servi della letteratura. Anche quando faceva o pensava di far solo letteratura. E’ un uomo che soffre e cerca quel che un poeta a lui in parte contemporaneo, divenuto però famoso per uno strano mestiere che si trovò a fare, aveva scritto nel ’52: l’uomo contemporaneo soffre soprattutto per mancanza di “visione”.
La visione manca all’uomo che non intende la vita come scena. Che non è orientato a vedere come se stesse accadendo qualcosa, e dunque a cercare la segreta relazione tra ogni particolare. Noi figli e figliastri della era che si è autoproclamata moderna ci sentiamo invece su nessuna scena. Puntini su un navigatore che segue vie e incoccia in eventi e situazioni. E avere una visione nemmeno ci interessa. E’ una sofferenza da cui grandi geni tra Sette e Ottocento ci avevano messo in guardia. Baudelaire, ad esempio, rimproverava la cosiddetta modernità di Voltaire (filosofo “da portinaie”) d’esser solo una travestita negazione del “peccato originale” e di “Dio”. E dunque, spariti gli attori principali del dramma interiore ed esteriore, la scena si è ridotta fino a svanire, quasi evaporare, lasciandoci tra rottami e risa frenetiche. Rebora ha senso dell’universo come scena. Affinerà, convertirsi sarà come affinare la visione. Ha senso della vita come realtà “positiva”, non per ottimismo, ma come qualcosa in cui vibra, segreto un “ineluttabile vero”. La sua formazione ardente e mazziniana, le letture da Tagore a Tolstoj, le passioni, l’impegno civile fan di lui un uomo che non devia dal grande segno iniziale di Francesco sulla nostra poesia: la considerazione della realtà. La sua “lode” per quanto perplessa e dura, gridata e ferita.
Vi è in questa primo segno di apertura al reale una “povertà”, come notò un grande lettore di Rebora, don Giussani. In alcuni testi dei Frammenti Lirici si da evidente questo movimento:

Frammenti lirici I citaz se a me fusto; VI conclusione

Fino all’acme di un coscienza di positività del reale, quando il poeta vede che la vita umana si avvera solo in una partecipazione amorosa al reale. E’ un ‘ombra di quel che avverrà trent’anni dopo. Fr lir XIII.
E l’uomo gli appare come un Gigante che va per l’infinito (XXVIII)
Reborà vedrà quel gigante urlare con le gambe mozzate nel fango durante la sua esperienza al fronte della I Guerra Mondiale. Lo sentirà gridare fino a morire, spegnendosi piano. (poesia di guerra).
Il trauma di quei mesi sarà forte. Mesi di nevrastenia, che il medico di Reggio Emilia non a caso chiamerà “mania dell’eterno”.
Rebora è un compagno di avventura nell’assoluto di Campana. Dovessimo fare e andrà fatta finalmente una nostra antologia di Maledetti, come invitai a fare qualche anno fa per il Saggiatore Davide Brullo che allora la accennò, Rebora dovrebbe stare, sotto quella ferita precisazione che fece Verlaine introducendo Rimbaud, Corbière e gli altri: maledetti, cioè assoluti.
Forse nel Novecento italiano dovremmo accostarlo a Martini, lo scultore, per avere un eloquente corrispettivo. Quella sua castità combattiva. Quella medesima luminosità bruciante, in una “scultura lingua morta” che diviene prodigiosa e fisica rappresentazione dei movimenti essenziali del vivente: lo sguardo alle stelle, il nuotare, il perdono… Anche in una lingua apparentemente “morta” e pur vibrante Rebora ci ha dato un corrispettivo. Giovanni Testori –che amò Martini- guardava a Rebora e a Caproni come compagni possibili di una poesia che si liberasse da ogni ipoteca letteraria, da ogni convenzionalità stilistica.
Il secondo passo presente in Rebora è il senso della collaborazione al vero del mondo, nell’ordito della storia. C’è un senso sacrificale, come in altri poeti avviene in quegli anni, pur se in direzioni diverse, come ad esempio in Boccioni e Marinetti. Si presente che l’amore con cui collaborare al vero reale porta a un sacrificio. Alcuni fraintenderanno questo e si butteranno in mischie politiche e belliche, Rebora no. E si butta nell’assoluto. E nell’amore come in un naufragio.
(LVI; LXXI; LXXII)
Mettere a fuoco Dio, abbiamo detto iniziando queste vaghe stordite note, è un movimento. Un itinerario. La conversione folgorante di Rebora è il momento in cu i tutto il movimento precedente e quello successivo conoscono il loro segreto, per un istante. Prima era cercarlo, poi sarà cercarlo ancora, con più arresa violenza e passione. Nel ’55 quando stende la sua nota biografica per “Curriculum vitae” che esce da Scheiwiller, Rebora nota tra le scarne notizie che a un certo punto “viene alla fede”. In un suo intervento, tra l’ammirato e il perplesso, Michele Ranchetti annotava quella strana espressione “viene alla fede”. Penso che in quel verbo, in quella espressione che indica un movimento, una specie di resa attiva, sia una grande verità, irrintracciabile nella pur larga messe di indizi biografici messi in luce in questi decenni. La verità di un movimento, di un percorso il cui apice il poeta –già affermato e riverito come maestro da una parte di borghesia colta milanese e non solo- descrisse con le parole: Giugno 1928 “il Signore mi fermò definitivamente le parole in pubblico”. In quell’arresto, in quel taglio del suo “discorso pubblico”, che aveva dato i fiori altissimi di poesie profetiche e tese, Rebora vede un compimento. Qualcosa a cui doveva “venire”. Come l’amante teso nell’ardore quando conosce lo sperdimento a cui abbandonarsi, una forza che lo sovrasta e avvolge. Verbo –se ben inteso- che rimanda a metafore erotiche non a caso basiche nelle origini del poetare antico di Provenza, e poi siculo e toscano fino alla cattedrale dantesca; un poetare che fioriva accanto alla tensione dei Padri di conoscere amando. E di amare conoscendo Dio. In Rebora dopo quella interruzione di “discorso pubblico”, letterario e sapiente, irrorato delle saggezze di Tagore e dei Russi che andava traducendo oltre che della poesia e della letteratura dei suoi sodali fiorentini e del simile Michelstaedter, si avvia un altro discorso. Un altro movimento, in cui “decomporsi” sarà “offrirsi”: un doppio movimento, un controtempo come i suoi verbali portato dal livello dello stile della letteratura allo stile della vita. Una altra eloquenza. Che sembra “diminuire” la poesia e in realtà la incendia a un livello di ferialità impastata di eterno: quelle poesie d’occasione, quei sommessi versi finali, e le supreme povere, feriali assonanze.

Da Canti dell’infermità: Le giravolte p 276, il pioppo p281, il passo 461.

Come se dopo il naufragio (quello amoroso con Lydia e ora quello del discorso pubblico) la poesia che rinasce fosse più simile al grido impetuoso e mendicante della protagonista del Naufragio di Hopkins, ne fosse l’ultrasuono in minimi frammenti: vieni Cristo nell’uragano.
E viene il Cristo della devozione, non della invenzione. Rebora accoglie quello che c’è. Non gli interessa discutere di faccende ecclesiali, di teologia. Vuole le preghiere più banali, introduce materiale linguistico apparentemente misero e invece fortissimo, traendolo da litanie e bisbigli popolari. Si avventa, sorridente e umilissimo, su tutto quel che della tradizione non sa, per dire “sì a qualcosa che so”. L’assoluto già conosciuto viene riconosciuto nella familiarità di una vita ritirata, di preghiere semplici e di silenzi in cammino verso le mete della preghiera e della carità.  Il poeta diviene, come scrive padre Clemente, “unitotale” che è come dire cattolico, in senso etimologico, ombra povera e per così dire accogliente, passiva dell’Onnipotente a cui invece voleva somigliare il romantico)
La scena del mondo, sapeva Paolo, necessita di una lingua che non è nemmeno quella degli angeli. Figuriamoci quella dei poeti che appartengono alla letteratura. Occorre la lingua della carità. Rebora venne a quella lingua. Obbligando ora tutti noi, che scriviamo o amiamo i versi, a misuraci con ciò che non ha misura. E che ci abbatte, salvandoci da ogni superbia. La lingua della carità può abitare la poesia. Di più: può generarla. In Rebora si compie qualcosa che Rimbaud, mistico selvaggio, agognò febbrile nella sua Saison. Nel mezzo ci fu il silenzio –che può essere un precipizio vasto o una ferita dentro le parole ma è comunque dedizione, e vita che cerca solo la vita, cioè la sua Fonte.

Ci mancava la polemica sulla pausa pranzo

Ci mancava la polemica sulla pausa pranzo. Ormai la politica tende a voler discutere di tutto. Tra un poco ci faran discutere “politicamente” anche della sigaretta dopo il caffè, o del bicchierino dopo cena. Invece di parlare della redditività o meno della pausa pranzo noi vogliamo parlarne, in versi, come luogo di rivelazioni. Anche in mense stipate o in bar sovraffollati la pausa del pranzo può essere il momento di strane epifanie, di incontri inaspettati, di rinnovamenti di sguardi. C’è una poesia di Maurizio Cucchi che ho sempre amato nella sua spoglia semplicità. E’ una pausa pranzo. Uno dei protagonisti di questo pranzetto nudo, spoglio è forse il padre del poeta che lo immagina a distanza di tempo. Un’azienda milanese come tante, un cognome lombardo comune,due colleghi. In gesto e un silenzio rivelatori di un destino. Perché le pause pranzo, sì, anche questo tempo feriale e sommesso, sono momenti in cui riveliamo, volendo o non volendo, il nostro destino irripetibile, e la coscienza che ne abbiamo. Da “L’ultimo viaggio di Glenn”, del 1999. “Forse Bernasconi/ era stato con lui telarista all’Olympia.//Un pranzo nel sole pacifico,/ dolce attraverso i vetri./ A tavola c’è una brocca, o una saliera,/e lui, trasognato, toccandola/gli aveva detto: ‘Ci fosse lei,/ ama le cose fini’. E qui chinò la fronte/ e rimase turbato.// Forse cercava in lui una speranza,/ l’ultimo credito umano e materiale.”