Mettere a fuoco Dio, prefazione

Preghiere e non preghiere
Introduzione

Si potrebbe ripartire da Bremond, l’abate che con pacata furia, fissando nel suo celebre saggio le confluenze e le distanze tra preghiera e poesia, cercò di domare una materia vasta e convulsa. O ripartire da Celan, il tragico poeta, che sondava la verità nella poesia muovendo dalla comune etimologia tedesca del pensare e del ringraziare o, ancora, dell’esser memori e della devozione (Denken, Danken, Eingedenk sein,Andacht ). O da più indietro. Si potrebbe, si dovrebbe, ripartire da Dante.  O dal suo vicino e ferocemente lontano, Petrarca. Dalla loro  comune ammirazione, sconfinata e timorosa (sì, pur se di quei sommi era timorosa) per Davide re, profeta e poeta. O si potrebbe, e avendone le forze mentali e intellettuali -che invece se ne sono andate a seguire chissà che segnali, che barbagli, che fuochi – si dovrebbero collegare i suggerimenti disseminati in W.H. Auden, e poi in Mario Luzi e in Sergej Averincev . O in Les Murray, il poeta australiano, che parlando di religioni come poemi sposta acutamente il problema di quanto sia poesia o preghiera dall’intangibile sfera del soggetto che scrive a quella più ravvisabile dell’effetto che il poema crea nel lettore e nella comunità.
Si poteva fare, si dovrebbe. Qualcuno lo sta facendo, lo faranno, non so. Insomma si dovrebbe fare tutto diversamente da quanto qui ho mi sono azzardato. Scagliare questo libro di testi  contro il petto del lettore, gettare i fogli di questo taccuino di poesie che viaggiano verso i confini, che non restano nel margine della letteratura, sì, che debordano o comunque se ne vanno per vagare ed esplodere altrove, sotto un cielo più vasto che non quello delle biblioteche, è stato un gesto azzardato. Ma Dio ama l’azzardo. E anche taluni editori lo amano. E’ un’idea infatti avuta dalla mente dell’editore –notoriamente una specie di intelletto prossimo al diabolico e dunque attentissimo alle cose dei precipizi e dei cieli.
Si è fatto un manipolo di testi e lo si offre. Poche note, le essenziali. Un libretto pieno di abissi. Al contrario di chi –nelle accademie, nei salottini- vorrebbe la poesia a far da intrattenimento, da dessert per ideologi o linguisti. Un libretto-barca da dove a volte si ammirano fondali, o a volte, per troppa oscurità si distoglie lo sguardo dalle onde e si lancia a qualche barlume di stelle.
Ma no, non si doveva fare di accostare testi così lontani, così diversi. Non si doveva fare di proporli nella loro sferzante nudità. Nella loro gloriosa e torbida bellezza. Né di allinearli qui come feriti in una battaglia durissima e splendida. Non si doveva. A meno che non si sia disposti a pagare un prezzo altissimo. Il quale non è, diciamolo subito, la bocca torta di critici e studiosi “seri” di poesia e di compilatori attenti agli errori, alle mancanze e a quelle che chiameranno forzature. Un prezzo più alto. Di aver le mani bruciate. E con le mani, il cuore e come si chiama: l’anima. Per aver accostati in questa disordinata galleria, così vicini, come affastellati, questi capolavori in un magazzino in un tempo di guerra (che lo è quel che viviamo, sottocutanea, oltre che corporale e militare, sottocerebrale guerra, e disastrosa). Il prezzo del rapimento della mente. E di quello del cuore.  
Eppure cosa potevo fare? Perché dopo tutte le teorie e, dentro il cuore di quelle che sono più sincere, non si trova forse lo stesso sole? O, appunto, lo stesso fuoco? Che è quello del re Davide, il quale risponde così al rimprovero della prima moglie Micol che lo ammonisce di non esser ridicolo ballando nudo nel corteo che porta l’Arca della Sacra Alleanza in Gerusalemme: io non ballavo di fronte al popolo, ma di fronte a Dio. Qui ci brucia quel fuoco che si vede nelle opere scritte per così dire ballando nudi davanti a Dio. E da quella nudità lanciando preghiere o forse non preghiere a Dio. Non preghiere di sfida, o di ira, o di derisione. O di sbigottita incredulità. O di troppa pena. Così come preghiere di troppa pena, o di ira, o di affidamento. Di una cosa sono certo, a riguardo di questa materia così imprendibile, analizzabile e sempre da ricapitolare: ogni vera poesia è scritta sempre di fronte all’assoluto. Come lo può concepire o incontrare mente umana. Ogni grande, autentica poesia nasce dinanzi al cielo intero, e alla profondità dell’abisso. Nasce come gesto, come lancio di pietra o di fiori in quell’arco luminoso e oscuro.
E di fonte al cielo si può stare pregando, o non pregando. Ma non c’è poeta autentico che non stia dinanzi a quella dismisura, mentre egli pur misura le parole e il loro ritmico respiro. Vede il vuoto, in quel cielo, o avverte il pieno di un mistero: ma non può che stare lì, per la sua destinazione di poeta. Che è quella, come in questa antologia sbilenca si vede, di star inchiodato senza nascondersi la faccia sotto questo cielo. Non esiste una poesia atea, nel senso che non può esistere una poesia che non si ponga il problema di Dio. Che non se lo ponga sempre, ad ogni volta che sulla pagina scendono i segni della relazione che un particolare ha con il tutto, secondo il suggerimento dato in quel momento all’autore. Può una poesia esser idolatra. Come può esserlo l’uomo. E riporre, di fatto, la sua fiducia piuttosto che in Dio, in una idea formulata dalla sua testa, in una bellezza del suo o di un altrui corpo, nel denaro o in altri generi di scambi, nella politica, nello stato. Idolatria, diffusa… L’idolatria della poesia si chiama Letteratura. Quando ne abbatte l’idolo, e si libera dai suoi rituali e dai ricatti muti e delle catene invisibili che la legano, la poesia rivela la sua bellezza nuda, primaria, artificiosa e obbediente alla natura.
Che è come dire: prendete queste poesie come vengono.
Preghiere e non preghiere è un libro che non sta sul comodino. Non sta da nessuna parte. Non è per addormentarsi. Non è per biblioteche tranquille. Va dove c’è il fuoco. Quello che gli uomini appiccano nella loro demenza di ergersi a dei della sorte propria o altrui. E dove c’è il fuoco dello spirito che grida con gemiti immensi e rende mendicante il cuore anche quando non ha le parole.
Che siano queste le parole, suggerite da uomo a uomo, come da sentinelle che cantano nel turno della notte, o da compagni al tavolo dove scende la sera. O altre, qualsiasi altre che nascendo in faccia a Dio sono la lingua della intera statura della persona umana.

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