Il tempo e la poesia: Elisabetta Graziosi

 Tre domande sul tempo

  

1.    Letteratura, filosofia e scienza hanno contribuito, specialmente nel corso del Novecento, a ridefinire il concetto di tempo in relazione all’esperienza umana. Quali, tra i molti poeti, scrittori e intellettuali che hanno posto il problema del tempo al centro delle loro opere o riflessioni, possono aver avuto il maggior influsso sulla sua poesia? In particolare, se dovesse indicare il nome di un ‘poeta del tempo’, a chi penserebbe?

 
Il campo della domanda è vasto, toglie il respiro. Immediatamente, e fortunatamente, mi sale nel fiato il nome di Dante, e non solo per le sue ripetute riflessioni sul tempo che nella Commedia sono sempre connesse con il tema della libertà –senza la quale la percezione del tempo è di un puro scorrere- ma anche e soprattutto perché la forza della sua poesia sta nel creare continuamente un movimento, un ritmo, che venendo da quel che “move il sole e l’altre stelle” passando per la obbedienza, per l’ascolto del poeta arriva al nostro invitandoci a vivere il tempo come luogo di un viaggio. Il tempo come movimento. Dante resta indubbiamente gigante anche in questo. Più prossimi, ci sono i nomi di poeti che lo hanno ruminato e amato come Eliot –con la sua nozione poetica e critica di contemporaneità totale- o come Luzi con il senso della metamorfosi ontologicamente positiva. Ma nel lavoro che ho condotto anche su poeti come Péguy, o sugli antichi salmi, o ancora su Baudelaire –il suo spleen non è un sentimento del tempo? oh, ecco Ungaretti…- molte sono state le suggestioni e gli inviti.

 
 
2.    Il tema del tempo può essere variamente declinato all’interno di un’opera letteraria: ad esempio, come calendario dell’esistenza individuale o misura del ritmo naturale; come Storia o come dimensione cosmica. Il tempo può perfino incidere sulla struttura di un’opera, orientando la successione di alcuni testi nel libro o dando alla lirica un andamento narrativo. Esiste, nella sua poesia, un’accezione prevalente del tempo?  Quale dei diversi modi di intendere il tempo meglio si accorda con i suoi scritti e con il suo pensiero?

 
Difficile dire per me cosa prevale nella mia opera. Vivo, come tutti coloro che stanno in viaggio con gli occhi aperti tra le nostre città e metropoli, un forte senso del dispendio, del tempo come corsa, energia spesa a perdifiato…E però da un lato la mia radice romagnola, di terra e di mare, mi suggerisce un tempo che non li lascia depredare, che resiste nel suo spettacolo di ritmo segreto e profondo – le colline, le onde. Tra i pochi versi che ho scritto e che mi ricordo a memoria ci sono questi: “L’amore il tempo sono fatti / dello stesso onore”. E altrove: “La morte è un gesto ampio della vita”. L’avvenimento dell’incarnazione, centro e fuoco del cristianesimo, mi lavora lo sguardo a considerare che il tempo è luogo dove l’eterno si è immischiato, e immischiato fino al sorriso e al sangue. Insomma considero il tempo come un teatro drammatico, una partita aperta tra l’affermazione di un destino buono e il rischio della vanvera, della vana dissipazione. Credo che il problema del tempo cessi di essere solo un rovello filosofico e divenga realmente poetico quando entra in scena il problema del destino, dell’orizzonte entro cui vediamo in rilievo i volti che ci sono cari, o i particolari dolorosi, o i fatti tremendi o buoni che accadono. Più che una definizione del tempo – a cui han lavorato menti più appuntite della mia- mi interessa fiutare dove va il suo vento, che fa lacrimare e rischiara gli occhi.

 
3.    L’esperienza del tempo vissuta dalle generazioni più giovani, complici gli sviluppi sociali e tecnologici, è probabilmente diversa da quella conosciuta almeno fino ai decenni centrali del Novecento. Ciò può avere effetti, anche per via indiretta, nella creazione letteraria? In particolare, lo sviluppo della sua poesia nel corso degli anni può aver registrato tale evoluzione?
 
Le evoluzioni della poesia più che a livello tematico sono evoluzioni dello stile e della sua cellula, la lingua, il sentimento della lingua. Ai primi tempi della rivista clanDestino, che da ventanni redigo con amici e poeti, ogni volta che ricevevamo un plico di testi scherzavamo chiedendoci: e c’è il viaggio  ? c’è l’amore, c’è la morte ? e c’è la noia o la passione ? Insomma, i temi, le matrici esistenziali della poesia sono simili sempre e per sempre. In vent’anni sono cambiate tante cose, e molto rapidamente. Ma non quel che accende poeticamente le parole degli uomini. In quarant’anni o cinquanta sono cambiate enormemente le cose. Una certa koiné letteraria che teneva insieme –se così si può dire- la lingua di Luzi con quella di Sereni o di Caproni e Bertolucci è svanita, in loro stessi, poeti di lungo corso arrivati fino alle nostre estreme rive, e intorno. Cambia la lingua, certo, la mia, la nostra meravigliosa e feritissima lingua. Vedo un movimento doppio, anche in me, se vale qualcosa il sorprendere tali moti nel proprio laboratorio interiore. Da un lato, un trascinamento, a volte quasi un’estasi, di fronte alle mille possibilità di movimento che tanti fattori imprimono alla lingua, spostandone confini, lavorando sui suoi legamenti, fibrillando i suoi ritmi. Dall’altro, il gusto sempre nuovo di ruminare la fastosa, dolce e dura lingua che fu di Jacopone o Ungaretti, di Dante o Leopardi, di Alfieri o di Rebora. Un gusto fisico, non filologico, sperimentandone la tenuta, la tessitura, la forza drammatica che sa ancora avere le estensioni e le vibrazioni giuste per dire il contemporaneo. “In hac verbi copula stupet omnis regula”, ho letto da qualche parte. Mi pare in una citazione che il Curtius fa dagli Analecta Hyminica. Una “copula” delle parole, insomma, un affettivo richiamarsi e legarsi, fa in modo che ogni presunta “regola” –intesa come dettame dei “professori” o delle mode- stupisca. Che significa non una negazione ma una sorta di apertura, di stupefazione. Tale affectus, tale legame delle parole antiche e modernissime, dipende in gran parta da una passione educata dalla tradizione, da una umiltà che ama il presente sapendo che esso e il suo sviluppo non sono fiori che vengono dal nulla. Ed è perciò instancabile, nel mettere alla prova, nel tentare e nel rischio dei nuovi azzardi della lingua vive l’intensa responsabilità di una tradizione che, pur così sfolgorante come la nostra, va sempre, come diceva Eliot, riconquistata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *