A M.F.Davighi nata e andata subito via, l’ 11agosto di quest’anno 1996)

Ci sono immaginette di santi, fontanelle
d'acqua tra i sassi ed è forte il verde,
forte la pietra vicino a Teramo.
Francesca, l'hai toccata
questa luce d'Italia per un istante, ti è scesa
nelle vene, c'erano
queste improvvise cadute del silenzio
nel tuo respiro di poca rosa –

Come grande e alta
e, tacendo, declamante
è stata la tua presenza tra noi, cosa
tutta di Dio, poca Francesca,
auto di corsa, voci, e requiem e un'ave
maria pianta tra i denti.
Sei ora la piccola pieve, il sasso
chiaro che ferma la luce
dinanzi al folto delle paure
e all'inesausto mareggiare della sera.
Sei restata poco, un fuoco
di stella, un pugno di paglia,
ma passando i fari, le gallerie, i grandi
bar autostradali, come mormora, come
canta la tua oscura meraviglia…

 
    

 

Io non voglio diventare vecchio

 

Io non voglio diventare vecchio
perché lo sono già stato mille volte
e so già il buio e quella vile tempesta.
Ora che piango come vidi
pianger mio padre, la stessa ruga e la testa
abbattuta, piena di sgomento,
imparo che la giovinezza
non corre nelle sorprese
del sangue ma nello sguardo che un vento
strappa da terra
per vedere in questo duro paese
l'infinita somiglianza tra Dio
e il viso di lei tutte le sere, i rami
nudi contro il cielo, il vino
fermo nel bicchiere…

 
     

 

Dopo mezzanotte, via Mascarella


La tua avvilita fedeltà
è la mia pena
più dura da scontare.

Sei sempre qui
quando esco di scena
con i lampi ancora negli occhi
e gli applausi.

Passeggiamo
sulle tibie leggere,
siamo un invisibile stemma,
una danza ben infelice
ai limiti della città,
hai subito molti colpi
sul tuo corpo di neve
(e dico
com'è triste l'anima mia, come piove
io son la furia del mio amore
e amore non ho) –
Gradirei
un vino di commiato
ma tu nell'ombra che cammini
dai occhiate come rose di macchia.

La notte è un vuoto di stelle
e la mia piena di pianto e parole
impossibile da arginare.

Tu
senza frode plachi il male
solo con l'esserne paziente.

 
     

 

Sosta in stazione


Notte dei treni vuoti
fermi, degli altoparlanti
che annunciano città
sulle banchine deserte,
notte
di mezzi rumori,
scatti di accendini, cadere
di lattine negli altri
scompartimenti, buio
vento ai finestrini,
allineamenti
di palazzi chiusi, di mille
stanze cieche.
E poi febbre che sale
sulla faccia, l'alba
finalmente dopo sogni
duri, smaniosi, intermittenti.

Guarda che luce marina ha oggi Firenze…

 

 

 

       

Figura del centurione

O signore non son degno
– degno no
anzi quasi tutto bagnato
o interamente svergognato
di star qui come un sasso, una pietra,
un ferro,
– figurati anche
se invitarti a cena,
di partecipare alla tua mensa
per dividere i miei avanzi, il freddo
dei miei pasti, la tovaglia stupida
quadrettata, la sedia
sghemba, la bottiglia già iniziata,
e l'ombra della fronte sconcia –
o solo portarti per un bicchiere
qui vicino, al primo bar.
– Ma dì,
dì solo e soltanto
– una parola, una cosa,
un uccelletto di voce,
– dì solo e soltanto
un niente – quel che ti passa
per la mente o la testa
così incoronata di cielo
e di tempesta
dì solo e soltanto
lascia magari cadere
un grano delle tue preghiere
– o anche non dir niente
leggerò sulle labbra appena
o sentirò con gli occhi bassi
che un bacio d'aria viene
– e io sarò salvato
dalle iene dei miei errori
e l'anima devastata avrà
la vita piena –

       

 

Quasi luziana per una conferenza in compagnia di Mario Luzi


Ancora una volta il tuo muso
di capra simpatica e semita
esce dall'icona,
rompi tu la scena, i presenti
folti ad assistere al poeta
smarriscono la mondana
luce dell'evento,
accupiscono
ne accolgono un'altra più spartana,
avvertono una spada dentro.
Ilo vero ha uno strano sfarzo
è una ferita.
E rende
più bella Trento in questa sera
che scende a fine marzo
dalla corona zitta dei suoi monti.
Vita,
dici flebilmente, vita,
e duro d'un azzurro che s'incendia.
Lo sguardo indaga mentre dice, è ribaldo
nel suo voler essere felice.
Un ricettario
o cos'era quel taccuino
fiorito in cima ad ogni pagina
dove tenevi appuntato il filo
dei pensieri che non seguivi.
Non dà luce, Mario,
la poesia, ma la chiama
la chiama sperdutamente
da ogni pietra, ossa, dall'ombra
che la cattura.

E lei viene
ragazza dei nostri corpi
segue il richiamo dato
dai nevai alti della mente
e dagli scafi che si sfondano nel cuore.

Lei
viene, cerva,
serva timida della nostra
lingua, dei pensieri.
Luce senza ieri.
Anche dopo, in pizzeria,
a notte fonda, con i bicchieri
infine immobili le mani
stanche, senti
come la chiama, la voce
ancora gronda, subissa
e insiste sulla frequenza d'onda
che non si estingue,
chiama, chiama
la sua letizia, rompe
lo specchio immobile
della vita già saputa.
O Mario buonanotte,
nome d'uomo comunissimo
e vicino, nome
da barista manutentore,
ragazzo acerbo del tuo ardore.
Sparisti nella hall –
e con il compagno di una sera
uscii a camminare
sotto il coro sfuggente delle stelle.

Trento, marzo 1998

 

       

 

A Giuseppe Ungaretti, visto di notte alla televisione leggere “I fiumi”


Non ho fiumi io,
non ho mai vissuto sporgendo
il volto sull'acqua
che quieta o vorticosa
taglia la città, nobilita o nel gorgo
ruba via tutti i pensieri.
Non ho avuto
gradoni di pietra su cui disteso
perdere sotto il sole
il lume della mente, addormentando.
Ho avuto viali,
strade larghe, rumorose, il getto alto
di tangenziali,
braccia aperte di povera madre
vene da cui entra in città
ogni genere di roba.
Ho avuto viali d'alberi
o rapide vertigini tra l'acciaio di pareti
e vetro oscuro.
Il caos
Li rende identici, sotto la pioggia
sono l'inferno,
sono frenetici.
Ma la notte, quando cade
la notte
si ridisegnano,
viali nuovi
d'ombra e di solitudine,
quando li illumina il lento
collo dei lampioni e lo spegnersi
delle ultime réclame.
Si muovono allora leggermente,
ramificano, forse rotea un poco
tutta la città;
qualcuno finisce
in faccia a un castello, a una
cattedrale, altri smuoiono
sotto i fari arancio di un nodo autostradale –
i viali la notte respirano
con le foglie dei platani, larghe, nere,
le grate dei metro e l'aria nenia
che dorme sui bambini.
Tirano il fiato quando va
il passeggero dell'ultimo tram –
I viali mi danno
una vita speciale,
che non è pianto e allegria
non è, ma una ventosità,
un andare
ancora andare
che viene da chissà che mari,
da quali valli, da grandi fiumi.

       

 

 

In seguito a una notizia riportata dai giornali sulla perdita di robot sul pianeta Marte


 

Su Marte muoiono i robot.
ce ne sono alcuni che passeggiano
da molto tempo lassù
ma dicono che un paio
abbiano rallentato
le trasmissioni, lanciato segnali
più sommessi, e niente infine
niente più.
Il loro corpo immobile
non sente più le stelle.
forse hanno appreso un'altra lingua,
hanno trovato un nuovo buio
che del tutto li stupisce.
Uomini
Con gli occhiali li scrutano
ai video,
li osservano
su sedie girevoli
dentro palazzi di vetro.
Avevano dato
nomi allegri, memorabili
e mandato comunicati stampa,
servizi in tivù davanti ai bimbi
col sangue tenero nel petto
e tra le mani i grandi e rossi
bicchieri della Coca.
Ma ora li ricordano appena, li
bisbigliano, li confondono.
Sono le uniche cose senza vita
In quel turbinio di vita oscura – –
non torneranno più.
Grandi solitudini della materia
Se avete un pianto, se avete
Un riso
sono io che lo sento,
è me
che insegue
mi cerca nella voce.
Non c'è materia definitiva,
dice uno captabile da chissà che radar,
non c'è
solo la storia, la storia
non è da sola.

 

       

Incinta dice il test

Non chiamarlo, viene
nella sua forza semilucente,
è già una parte del tuo sorriso
viene come il profumo dei boschi,
un niente, il muso improvviso
della lepre, è già una piega
nelle tue mani, siede
sul trono che diventi.

È un aumento
che ha dismisura di nubi,
fa paura come l'inizio del vento
che piega i rami ma ravviva i colori.
Mio amore bello e pieno di tormento,
la sua impronta è già della nostra
figura. La felicità
è l'attesa, è il tempo.

       

 

Adieu II

Se tu restassi qui
si potrebbe continuare la conversazione
e sulle mani che tieni in grempo
riposerei i meii occhi bianchi.

Tu saresti la quiete del mondo
e quel poco d'argine che sofferma
la piena…

Ma no, dicevi,
già via dal tuo stesso pianto
e dal mio, che principiava,

lasciando me e la mia casa
come due inutilità
per il tuo cuore da star –
Dio, che ami le star
non lasciare che vada in cenere
il suo passo

e il dolore inchiodamelo dentro
come un bene.